IL CONVITO DELLA NUOVA ALLEANZA

LA CELEBRAZIONE EUCARISTICA

 

 

Prima di iniziare un discorso sulla celebrazione eucaristica, è necessario ricordare che al centro del rito, si ha la solenne acclamazione: ‘mistero della fede’.  Le spiegazioni teologiche che riguardano l’evento, quindi, possono solo essere fragili tentativi per avvicinarsi ad una realtà che di fatto sfugge, nella sua interezza, alla mente umana. Possono venire in aiuto i simboli, i segni, le immagini, le parole.

L’attuale rito eucaristico risente di una lunga storia, che ha lasciato le sue orme. Non si ha, perciò, una semplice struttura unitaria, che sia chiaro segno della realtà significata, ma si ha piuttosto una realtà composita. Vi si incontrano due differenti atteggiamenti religiosi che si intrecciano.

Nei primi tre secoli, sulla scia della memoria dell’ebreo Gesù, il rito si formò con un atteggiamento religioso tipicamente ‘biblico’ (primo testamento e secondo testamento), nel quale era centrale la lode, il ringraziamento e la benedizione per i doni del Signore, ed in particolare per il pane eucaristico. La celebrazione aveva come protagonista l’assemblea, convocata dal Signore per mangiare il pane, bere il vino e fare memoria  della vittoria di Gesù sulla morte (1Cor 11,17-34).

In questo periodo il rito veniva celebrato in spazi profani (case comuni), senza altari (si usava un tavolino di legno mobile a tre gambe) e senza sacerdoti (vi era solo ‘colui che presiede’, vestito in abiti civili). I primi cristiani avevano ben compreso il senso profondo dell’incarnazione, della novità da questa portata, espressa nei vangeli dalla lacerazione della tenda del Tempio (Mt 27,51) e dalle parole di Gesù alla samaritana “È giunto il momento in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre…ma in spirito e verità” (Gv 4,21-23). Il Figlio di Dio divenendo uomo e risorgendo aboliva la distinzione tra sacro e profano, tra puro ed impuro. Le prime generazioni cristiane capirono che la santità di Dio non stazionava più nel Tempio della città santa di Gerusalemme, ma in Cristo “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,21) e nel cuore degli uomini “Noi siamo il tempio del Dio vivo…” (1Pt 2,4-5 e 2Cor 6,16).

Dice Tragan parlando della prima Chiesa, “…i raduni dei credenti del Signore aboliscono ogni frontiera tra sacro e profano. Scompare dal culto cristiano il vocabolario ‘sacrale’: sacrificio, sacerdote, olocausto, offerta, rito di purificazione, abluzioni. E appaiono, invece, altre espressioni significative proprie: frazione del pane, agape, diaconia, raduno, cena del Signore, battesimo.”[1]

 

Ma nel IV secolo dopo l’entrata in massa dei pagani e l’editto dell’imperatore Costantino (313), che aveva reso la fede cristiana religione di stato, il rito eucaristico venne immerso nel mondo romano del sacro (sacer). Venne così inserito, nella celebrazione, il concetto di sacrificio ( sacrum-facere), che necessita di un sacerdote (colui che pone il sacro), e pure di un altare consacrato su cui compiere il sacrificio, all’interno di un edificio pure consacrato[2].

 

Il Concilio Vaticano II (Sacrosantum Concilium n.6) cercò di recuperare la radice biblica del rito, andando oltre la teologia del Concilio tridentino, ed aprendo un nuovo cammino.

Diede grande importanza alla liturgia della Parola, che divenne ufficialmente parte integrante del rito (SC 56), inserendo l’immagine dell’eucaristia come “mensa della Parola di Dio” (SC 51), perché durante il rito è “Dio che parla al suo popolo” (SC 33). Recuperò inoltre il ruolo fondamentale dell’assemblea, convocata dal Signore. Il popolo risponde riunendosi in assemblea e compiendo così il primo atto liturgico. Per rendere l’assemblea protagonista, il Concilio suggerì vari cambiamenti; così l’uso della lingua volgare, sostituendola al latino, l’altare rivolto verso i fedeli, l‘assemblea che partecipa attivamente, inserendosi nello svolgersi del rito, l’abbraccio di pace, le letture lette da laici… Tuttavia il Concilio non ebbe il coraggio di mutare la struttura portante del rito, che rimase legato, sia al concetto pagano di sacrificio, con molto spazio dato all’atto di offerta al Padre della morte del Figlio, sia  alla netta distinzione tra ‘sacrificio’ (offertorio e Prex eucaristica) e ‘sacramento’ (Padre nostro,  Agnello di Dio, comunione), distinzione questa, che rende necessario un doppio atto penitenziale, e che relega l’aspetto conviviale, “Beati gli invitati alla Cena del Signore…”, al termine della liturgia, mentre dovrebbe essere al centro, a seguito delle parole del Signore “prendete e mangiate…prendete e bevete..”.

 

 Le due teologie sopra menzionate, sono chiaramente espresse all’offertorio.

Si ha, infatti, una prima preghiera, inserita dopo il Concilio Vaticano II, riferita al dono che Dio ci sta per dare, che è la preghiera di benedizione tipica della fede ebraica, la fede di Gesù “ Benedetto sei tu o Signore Dio dell’universo, dalla tua mano abbiamo ricevuto questo pane…” e l’assemblea risponde “Benedetto nei secoli il Signore”. L’uomo biblico continua a ringraziare e benedire Dio, estasiato dai doni che continua a ricevere, e dalle meraviglie degli interventi di Dio nella storia umana. Vive, infatti, il primato del ricevere sul dare o fare, ed il primato delle azioni di Dio, rispetto alle azioni dell’uomo. In questa linea sono i salmi (vedi Sl 65/64  e 136/135 dove non c’è accenno all’azione dell’uomo, si parla solo delle meraviglie di Dio), in questa linea sono le preghiere di Gesù  Ti benedico o Padre che hai rivelato…..Si o Padre perché così è piaciuto a te” (Mt 11,25-26), “Padre nostro, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà…” (Mt 6,9-10). L’uomo biblico non vale per quello che fa, ma per quello che gli viene fatto, “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” (Lc 1,49), vale perché oggetto d’amore e perché chiamato a servire Dio.

L’uomo biblico sa di non possedere nulla da offrire a Dio, perché tutto è di Dio, dalle cose concrete che gli servono per vivere, alla sua vita, simboleggiata nel suo sangue, che appartiene a Dio e di cui non può disporre. L’uomo è solo l’amministratore dei beni del Signore, di cui può disporre per vivere.

 

La seconda preghiera dell’offertorio, invece, l’Orate fratres, preghiera inserita nell’ VIII° secolo, è su ben altro registro; parla di un sacrificio che il credente deve offrire, e che deve essere gradito a Dio, “Pregate fratelli perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio…” e l’assemblea risponde “Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio…per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa”. Questo è l’atteggiamento del  ‘do ut des’; io offro qualcosa alla divinità perché lei mi dia in cambio qualcos’altro, atteggiamento sconosciuto in ambito biblico, ma diffuso in tutte le religioni, perché espressione della religiosità istintiva della creatura.

 

 

‘Egli..prese il pane e rese grazie…’ (dalla prex eucaristica)

 

Se vogliamo oggi capire, almeno in parte, il significato della liturgia eucaristica, dobbiamo superare la teologia tridentina ed inserirci nel cammino aperto dal Concilio Vaticano II, con il recupero della Parola di Dio.

Concretamente questo significa parlare del rito partendo dalle parole di Gesù all’ultima cena, che stanno al centro dell’evento eucaristico.

Egli..prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo consegnato per voi”, frase presa da Luca (22,19) . È Gesù, il Figlio di Dio, che prende il pane nelle sue mani, e ringrazia (o benedice) il Padre, datore di tutti beni, e che spezza il pane e lo . Gesù non offre nulla al Padre, ma ripete esattamente gli stessi gesti già compiuti nei racconti della moltiplicazione dei pani (Mc 6,32-44; 8,1-10; Mt 14,13-21; 15,32-39; Lc 9,10-17;Gv 6,1-15). Questo riprendere, all’ultima cena di Gesù, gli stessi verbi della moltiplicazione dei pani, mostra che il rito eucaristico, dalle prime generazioni cristiane, veniva visto strettamente legato a questo racconto.

I testi dei racconti ci danno alcuni elementi essenziali.

 #  il gesto di Gesù ha un significato ben preciso ed univoco: Gesù ha compassione     delle folle ( il verbo splangknizomai è molto forte, significa sentirsi rimuovere le viscere) e vuole dare a loro l’esperienza della sazietà e del ben-essere, come già aveva fatto il Dio di Israele nel deserto (Es 16,15; Sl 78/77, 23-29). In Giovanni e Marco (6,10 e Mc 6,39) la folla è come in un giardino, dall’erba verde, perché “in pascoli erbosi mi fa riposare” (Sl 23/22,2). Infatti le folle sono i commensali alla tavola che il Signore prepara per loro, “davanti a me tu prepari una mensa” (Sl 23/22,5). È il banchetto messianico, predetto da Isaia ( 25,6-9). Le ceste avanzate significano la sovrabbondanza di questo banchetto, che sazia del tutto la fame dei presenti.  Il pane di Gesù, infatti, sazia ogni desiderio. “Tu sazi i desideri di ogni vivente.” (Sl 145/144,16).

# Gesù e la folla sono co-protagonisti, necessitano l’uno dell’altro. Infatti Gesù fà il suo gesto per la folla e la folla a sua volta non si sfama senza Gesù. A differenza degli altri evangelisti Giovanni non pone intermediari ( i discepoli) tra Gesù e la folla, il rapporto è diretto. Nei sinottici, invece, ci sono i discepoli che distribuiscono i pani (Mt 14,13; 15,35; Mc 7,41; 8,6; Lc 9,16). Questi non sono protagonisti e non agiscono al posto di Gesù, fanno parte della assemblea, con un ruolo di servizio. Il loro servizio diverrà poi indispensabile per la celebrazione del rito, ma rimarrà sempre e solo un servire Gesù e la gente, i due veri protagonisti dell’evento.

# la folla è una folla eterogenea, uomini-donne-bambini, che vengono da vicino e da lontano, giudei e pagani, tuttavia hanno un elemento che la caratterizza: sono tutti al seguito di Gesù, che considerano loro maestro e che cercano, per stare con lui, in ascolto della sua parola “ cominciò ad insegnare loro molte cose” dice Marco, prima della moltiplicazione dei pani (6,34). Questo ci dice che il pane e la parola sono strettamente uniti, non è infatti possibile capire il senso del pane senza la parola di Dio ( Es c. 16; Sl 81/80,11 ) e pensare di capire la parola senza il pane eucaristico, che fa abitare in noi lo Spirito di Gesù, l’unico maestro, che ci permette di capire la parola, di introiettarla e di metterla in pratica.

# Il miracolo avviene in un luogo profano, al di fuori di recinti sacri, sebbene non in un luogo qualsiasi, avviene nel deserto o in cima a un monte, luoghi dove il dio di Israele ha dato il pane da mangiare e la Torah[3] (Sl 78/77,24-25. 29; Sl 105/104,40; Sl 107/106,9).

 #  in Matteo (14,19) e Luca (9,16) Gesù, prima di spezzare i pani, alza gli occhi al cielo, si mette in sintonia con il Padre, perché è lui che, attraverso il Figlio, sfama la gente e compie il miracolo, come già aveva fatto nel deserto.

 

Prendete, e mangiatene tutti, questo è il mio corpo consegnato per voi (dalla prex eucaristica)

 

 Gesù nel dare il pane dice: questo è il mio corpo. Qui sta il grande mistero, solo attingibile con la fede, capace di vedere il corpo risorto del Cristo nel pane, che chimicamente rimane pane.

Il pane viene dato, come già alla moltiplicazione dei pani, per essere “ preso e mangiato” (Mt 26,26), non per essere adorato o contemplato, ma per un rapporto che si vuole strettissimo tra il pane ed il credente, cioè tra Gesù ed il discepolo.

Gesù lega il suo corpo, che nel pane sarà glorioso, all’esperienza della sua passione, che sintetizza in quel “consegnato per voi”. Questo verbo consegnare, è il filo conduttore per capire tutta la portata della vita e della passione di Gesù, si ripete più volte durante la passione (Mt 17,18; Mc 15,10; Gv 18,35; 19,11). Viene sempre usato solo al passivo, sia da Gesù stesso (Mt 17,22, 20,18; 26,2. 24.45; Mc 9,31; 10,33; 14,21.41; Lc 9,44; 18,32; 22,33. Gv 18,36), sia dal narratore. Infatti Gesù più volte sfuggì alla morte (Mt 12,15), e quando si rese conto che i capi erano decisi a prenderlo per ucciderlo, decise di vivere in clandestinità (Gv 10,40). Gesù, quindi, non ha mai deciso di consegnarsi, sarà il tradimento di un amico a consegnarlo e a farlo passare di mano in mano: Giuda, i capi e sommi sacerdoti, Erode, Pilato.

Ma per gli evangelisti il passivo consegnato esprime anche un concetto teologico: Gesù è consegnato nelle mani degli uomini dal Padre. Dice Paolo “ Lui (il Padre) che non risparmiò il proprio figlio, ma lo consegnò per tutti noi..” (Rm 8,32, vedi anche Gv3,16), così come sarà ancora il Padre a farlo risorgere e trasfigurare ( i verbi della resurrezione della trasfigurazione sono pure al passivo). Allora quel consegnato per voi svela il grande piano di salvezza di Dio Padre (Col 1,15-20), a cui Gesù, il Figlio, aderisce con tutto sé stesso, in totale obbedienza.

 

Anche i verbi della misteriosa figura del Servo del Signore (Isaia c.50) sono al passivo, perché anche lì deve risultare chiaro che il protagonista della sua storia è Dio (Is c 42,50; Mt 12, 15-21). È sempre il Padre che prende l’iniziativa, perché è colui che crea e trasforma.

Per questo Gesù, parlando della sua vita, non userà mai il verbo dare, dare la vita[4], ma il verbo greco (tithemi), che significa ‘porre’, ‘mettere a disposizione’, come fa il servo per il suo padrone, lo stesso farà il pastore (Gv 10,15.17.18; 15,13; 1Gv 3,16). In maniera martellante (Gv 5,30. 36; 6,38; 14,31; Lc 22,42…), Gesù dirà “Sono sceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” (Gv 6,38). Deve essere chiaro, infatti, che nella storia della salvezza conta solo la volontà del Padre, è lei la protagonista. Le azioni degli uomini, sono solo una risposta, scelta liberamente e per amore.  Vedi la Maria di Luca   (10,38-42), che prima di agire ascolta Gesù, a differenza della sorella Marta.

Concretamente per Gesù, mettere la vita a disposizione, significò lasciare che la cattiveria degli uomini si scatenasse contro di lui, non opponendo resistenza al vedersi togliere la vita, perché così voleva il Padre.

Questa obbedienza di Gesù al Padre è indispensabile per capire il significato vero del convito della nuova alleanza.

 

Nel vedersi consegnato di mano in mano, Gesù sperimentò l’umiliazione e l’impotenza, elementi che fanno parte di una precisa modalità di incarnazione.

Infatti Dio scelse di scendere dal suo Trono Altissimo, sempre più in basso, con un'unica direzione del suo venire, sempre più in giù. “Abbassò sé stesso essendo divenuto obbediente fino alla morte” ( Filip. 2,8).

Neonato fu deposto in una mangiatoia, non in una culla, e sperimentò subito l’umiliazione della fuga in terra straniera. Inizierà la sua missione mettendosi in fila tra i peccatori al Giordano, perché è lì, in basso, che lo vuole il Padre “perché si compia ogni giustizia” (Mt 3,15).

Sperimenterà l’insuccesso della sua predicazione, e riassumerà la sua azione missionaria dicendo “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27) e laverà i piedi ai suoi discepoli. Non diventerà perciò né un capo religioso, né un capo politico, e come maestro avrà poco successo.

La sua passione poi, è tutto un discendere sempre più in basso. Inizia con l’umiliazione di non vedersi capace di accettare di buon grado il cammino che il Padre gli indica: “L’anima mia è triste fino alla morte…. Passi da me questo calice.” ( Mt 26,38-39; Mc 14,34-35; Lc 22, 42). Conoscerà il tradimento di un amico, che lo vende per trenta denari, e quindi, consegnato di mano in mano, arriverà a Pilato, che per ragioni politiche[5], lo renderà l’Ecce Homo (Gv 19,5), sfigurato, profetizzato da Isaia (53,3), sarà denudato e crocefisso tra due malfattori, come il maledetto da Dio (Dt 21,23) “ Deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori” (Is 53,12   Lc 22,37). Da ultimo finirà la sua discesa nel “cuore della terra”, come disse Gesù stesso (Mt 12,40), dove resterà per tre giorni e tre notti, in attesa che il Padre esaudisca il suo desiderio di vita (Eb 5,7).

Questa misteriosa umiliazione del Figlio è il grande scandalo per gli apostoli prima e  per ogni credente poi. Misteriosa umiliazione, che il cristiano dovrebbe contemplare ad ogni eucaristia, ma che invece, purtroppo, non è mai ricordata esplicitamente, “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Gesù Cristo…svuotò sé stesso prendendo la forma di schiavo.” (Filip 2,15) e “Voi però non siate così, ma il più grande tra voi diventi il più piccolo e chi comanda come chi serve” (Lc 22,26). Nel mondo attuale, che sottolinea come massimo valore il vincere, il primeggiare, l’ottenere la soddisfazione dei propri desideri, anche a scapito dei desideri altrui, trasformando gli altri in antagonisti, piuttosto che in fratelli, è indispensabile ricordare continuamente questo scendere sempre più in basso di Gesù ed il suo rifiuto di ogni violenza: “Se dunque io, il Signore ed il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14). Rovesciamento questo, che non solo indica che non bisogna primeggiare, ma che bisogna ‘servire’ in umiltà e non in ‘potenza’. La Chiesa, come istituzione, molto spesso ha dato un pessimo esempio di cosa vuol dire servire in umiltà, e non in potenza. Non è stata capace di fidarsi unicamente dell’assistenza di Dio, e così nel corso della sua storia ha considerato indispensabile usare mezzi umani con potenza. Ma non è questa la via del cristiano, ogni eucaristia ce lo dovrebbe ricordare.

 

 

La via dell’umiliazione di Gesù e la sua obbedienza nascono dall’apertura totale del Figlio al Padre, da cui tutto riceve “Ora essi sanno che tutto quanto hai dato a me viene da te…” (Gv 17,7), “Non posso fare nulla da me stesso” (Gv 5,30), “Però non  sia fatta la mia ma la tua volontà” (Lc 22, 42). Questa apertura del Figlio al Padre è la risposta al darsi del Padre al Figlio, il Padre infatti non tiene nulla per sé, “ Tutto quanto il Padre possiede è mio” (Gv 16,15) “ Né infatti il Padre giudica alcuno, ma tutto il giudizio ha dato al Figlio…” (Gv 5,22). Questo svuotamento reciproco, nella mutua ricettività ed accoglienza, “Tutto ciò che è mio, è tuo e quello che è tuo, è mio” (Gv 17,10), del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre, è la vita trinitaria, un dinamismo di desiderio, d’amore e di comunione, che non annulla la persona ma la qualifica, dinamismo che a sua volta si personalizza nello Spirito Santo. È questo dinamismo di amore e di comunione che entra in noi mangiando il pane, che esige da noi una risposta uguale a quella del Figlio.

Dando il Figlio, il Padre termina la rivelazione, perché non ha più nulla da dire, in quanto non ha più nulla da dare.

Tutto questo è quanto ogni cristiano, ad ogni eucaristia, deve fare memoria “fate questo in memoria di me”.

 

 Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza  (dalla prex eucaristica)

 

Le parole di Gesù sul calice, riportate nel rito, legano l’eucaristia al tema dell’alleanza. Lo ricorda anche il Concilio Vaticano II (SC 10) “ la rinnovazione dell’alleanza di Dio con gli uomini nell’Eucaristia, attrae e  accende  i fedeli alla pressante carità di Cristo”.

La ‘cena del Signore’, quindi, è fondamentalmente convito di alleanza.

Nel capitolo 24 dell’Esodo, il rito dell’alleanza comprende tre elementi mutuati dalle consuetudini del tempo e che ritroviamo nel rito eucaristico: la Parola, il pasto in comune ed il sangue.

La Parola

La parola di Dio è parte integrante del rito eucaristico, perché è la base su cui si fonda l’alleanza, senza la parola di Dio non c’è alleanza, i termini Alleanza e Parola si equivalgono: “Mosè… prese il libro dell’alleanza …che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole” (Es 24, 7-8). Per questo la celebrazione eucaristica inizia con l’ascolto delle parole con cui Dio parla al suo popolo (primo e secondo testamento). A cui deve seguire da parte del fedele, il suo “sì”, ed il proprio impegno, come fecero gli israeliti nel deserto. “Tutte le parole che ha dato il Signore, noi le eseguiremo” (Es 24,3).

Questo confronto con la Parola, molto esigente, rende evidente la nostra inadeguatezza e quindi la necessità di chiedere perdono per l’alleanza infranta. L’atto penitenziale, che attualmente precede le letture, è fuori luogo, perché dovrebbe essere posto dopo la lettura della Parola. Anche le preci che seguono dovrebbero fare riferimento specifico alla Parola letta.

Solo così si lega la celebrazione eucaristica alla vita quotidiana, uno degli aspetti più difficili eppure essenziale. Gesù di Nazaret continuamente sottolineava il legame stretto tra la Parola e la quotidianità, tra la Parola ed il rapporto con le cose e con gli uomini. Il convito d’alleanza che lui prepara a noi è un memoriale del suo atteggiamento di fedeltà alla Parola, cioè di fedeltà all’alleanza. Solo assimilando lo Spirito di Gesù, attraverso la manducazione del pane, si può crescere nella comprensione della Parola e nella capacità di metterla in pratica.

Il pasto in comune

Era costume nell’antichità suggellare un alleanza con un pasto preso in comune (Gen 26,30), per questo gli israeliti dopo la cerimonia dell’alleanza “mangiarono e bevvero” (Es 24, 11).

Già Isaia (55, 2-3) collegava l’alleanza con il pasto, “Su ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti…venite a me, io stabilirò per voi un’alleanza eterna.” In quanto il patto era il dono di Dio di cui ci si doveva nutrire (Ger 15,16; Ez 3,3).

 Non meraviglia, quindi, che l’eucaristia, il rito della nuova alleanza, sia un pasto in comune, che come ricordano i racconti della moltiplicazione dei pani è il banchetto messianico, perché si accoglie Gesù risorto presente nel pane. La fame delle creature viene saziata dal pane e dalla parola/alleanza, i due doni di Dio Padre.

Il sangue

La cerimonia dell’alleanza presuppone anche il rito del sangue. In Es 24, 6.8. il sangue degli agnelli viene diffuso sull’altare, che rappresenta Dio, e sul popolo. Questo per significare che i due contraenti hanno ora lo stesso sangue, sono membri della stessa famiglia. Israele infatti sarà considerato da Dio suo figlio primogenito (Es 4,22). Tuttavia questa alleanza poneva ancora i due contraenti uno di fronte all’altro, in un certo senso ‘separati’ dalla distanza, che rimaneva tra il creatore e la creatura. Ora, invece, Gesù dice “Chi beve il mio sangue rimane in me ed io in lui” (Gv 6,56).

I discepoli, che come ebrei avevano l’interdizione di bere il sangue, che apparteneva solo a Dio, diranno “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?” (Gv 6,60), eppure Gesù insiste e dice di bere il suo sangue per rimanere in lui.

È la inabitazione reciproca di Dio nel credente e del credente in Dio, tema caratteristico del vangelo di Giovanni (Gv 14,23; 15,4-11; 17,22-23.26). “Come tu o Padre sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv 17,21). È l’elemento che fa nuova l’alleanza con Dio e le fa fare un salto di qualità, già previsto da Geremia ed Ezechiele  …dice il Signore,… io concluderò una alleanza nuova…porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore.” (Ger 31, 31-33) e “metterò dentro di voi uno spirito nuovo… porrò il mio spirito dentro di voi…” (Ez 36,25-28.

 

Questa nuova alleanza ha l’intento di provocare una trasformazione del nostro intimo, a livelli più profondi di quanto la nostra coscienza riesca a percepire, di provocare una risurrezione interna, una trasfigurazione, che ci avvicina ogni giorno di più a quella definitiva, che ci porta nel seno stesso della Trinità, dopo la morte. “ Padre voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24) (vedi anche Gv 6,97; 10,38; 14,2-3. 10-11; 17,21. 24. 26.).

 

Ma come può accadere che, mangiando il pane e bevendo il sangue, Gesù entri nel nostro intimo? Ce lo dice l’evangelista Giovanni “Da questo conosciamo che noi rimaniamo in lui ed egli in noi:che egli ci ha dato del suo spirito.” ( 1Gv 4,13) e “Questo disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui. Infatti non c’era ancora lo spirito, perché Gesù non era stato glorificato.” (Gv 7,37-39). Sarà, infatti, alla fine della sua vita e della sua passione che Gesù consegnerà, (questa volta il verbo è al tempo attivo) lo Spirito (Gv 19,30). È lo Spirito che il Padre ha dato al Figlio al Giordano, e che Gesù dà ora ai credenti in lui, perché rimanga presso di loro con tutti i suoi doni. Gesù entra nel nostro intimo ‘consegnandoci’ il suo Spirito che è lo Spirito Santo. Dice  Gesù “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro paraclito, affinché sia per sempre con voi, lo spirito di verità…perché dimori presso di voi e sarà in voi” (Gv 14,16-17). L’evento si ripete ad ogni eucaristia come fosse una pentecoste.

La presenza dello Spirito in noi è una compagnia costante, intima, una manna che nutre e crea quella nuova dimensione escatologica dell’umanità redenta, sganciata dal tempo e dallo spazio, che è ben superiore alla dimensione corporea/spirituale della creatura. È quella dimensione che viene chiamata la vita eterna nel vangelo di Giovanni, una dimensione altra a noi ancora sconosciuta, ma di cui possiamo sperimentare qualcosa già qui sulla terra “ Ciò che occhio non vide, né orecchio udì, ne mai entrò in cuore d’uomo, Dio lo preparò per quelli che lo amano.” (1Cor 2,9).

La nuova alleanza è quindi alleanza nello Spirito Santo, che solo ci può rendere capaci di vivere il comandamento nuovo “Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato.”, cioè nello Spirito Santo.

Forse il più delle volte ci sfugge il ruolo chiave dello Spirito Santo nel rito eucaristico. Ma lo si vede nettamente al centro del rito, infatti chi presiede, prima di pronunciare le parole di Gesù sul pane ed il vino, invoca direttamente lo Spirito Santo, perché faccia accadere il miracolo, o chiede al Padre di mandare lo Spirito Santo a santificare. È lui che trasforma il pane in corpo di Cristo, così come nel grembo di Maria generò il Figlio di Dio.

 

 

‘Versato per voi e per tutti in remissione dei peccati’ (prex eucaristica)

 

Questa frase della liturgia viene presa dal vangelo di Matteo, l’unico che la riporta, ed esprime in maniera inequivocabile il significato salvifico della croce, rendendo Gesù il ‘salvatore’. Gesù muore in croce per non tradire l’alleanza sinaitica, che aveva come prima parola “Non avrai altro dei di fronte a me” (Es 20,2). Gesù rifiuta ogni forma di idolatria, e la smaschera. Così la ricchezza, il potere, la vanagloria, di cui la società del suo tempo, come la nostra, era intrisa. Gesù fu crocifisso perché i capi, i sommi sacerdoti, le guide spirituali, e chi stava al potere, non sopportarono la franchezza con cui Gesù smascherava la loro ipocrisia e la loro infedeltà all’alleanza (Mt 23,13-33).

Ma il sangue di Gesù così versato, per la fedeltà all’alleanza, fu riconosciuto dagli apostoli come il sangue del servo del Signore, di cui parla Isaia, che pure morì per fedeltà all’alleanza, e di cui si dice “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori…il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui..” ( Is 53,4-5). Gesù aveva portato i nostri pesi, e le conseguenze nefaste dei nostri peccati, che noi avremmo dovuto vivere, per le nostre infedeltà all’alleanza. Ne consegue che il sangue di Gesù, mentre è sangue della nuova alleanza, diventa anche il sangue del riscatto, secondo la tipica figura biblica del ‘goel’, il liberatore, il redentore, colui che riscattava dalla schiavitù, comprandolo, il parente caduto schiavo. “Foste comprati a prezzo; non diventate schiavi degli uomini.” (1Cor 7,23) “Ma quando giunse la pienezza del tempo, Dio inviò il Figlio suo…per riscattare quelli che erano sotto la legge, affinché ricevessimo l’adozione a figli.” ( Gal 4,4-5); “tu riscattasti per Dio, a prezzo del tuo sangue, uomini di ogni razza.” (Ap. 5,9).

 

Questo sangue di riscatto è sangue di liberazione, che allontana la giusta ira di Dio, come l’aveva allontanata in Egitto nella notte dell’uccisione dei primogeniti. Dice Paolo nella lettera ai romani (5,9) “A maggior ragione ora, resi giusti nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui”. Si capisce allora perché l’ultima cena di Gesù nei vangeli, che sono testi teologici più che storici, venga legata alla festa di Pasqua, festa dalla liberazione dalla schiavitù, non più da un potere terreno, come quello del faraone, ma da un potere ben più temibile, che è quello del ‘nemico di Dio’, “il grande dragone, il serpente antico quello che è chiamato diavolo o satana” ( Ap 12,9), che ha il potere di spingere la creatura lontana dal creatore in una via senza uscita. Giovanni ricorda due volte la presenza di satana all’ultima cena (Gv 13,2 e 27) e la sua influenza su Giuda, che emblematicamente ricorda tutti noi, sempre pronti a tradire il Cristo ed il suo vangelo.

Il sangue di Gesù, proprio perché lui è il goel, ha il potere di innescare in noi una dinamica di liberazione da satana e dalle conseguenze delle nostre infedeltà, instaurando in noi un nuovo atteggiamento interiore: è il cuore nuovo, di carne, non di pietra di cui parla Ezechiele. È la trasfigurazione interiore, la resurrezione interiore, la ‘vita eterna’ ricordata sopra.

 

 

Concludendo, secondo quanto la Parola di Dio ci rivela, possiamo dire che la celebrazione eucaristica è il convito della nuova alleanza, che il Padre appronta per i suoi figli, per dare loro la possibilità di entrare in un rapporto nuovo, intimo, con il Figlio. Tanto intimo che Matteo si rifarà all’immagine delle nozze (“e i due saranno una sola carne” Gen 2,24) e parlerà di un banchetto nuziale del figlio di un re (Mt 22,1-14). Allora il convito della nuova alleanza diventa anche il banchetto nuziale del Figlio di Dio, che vuole entrare in una comunione intima con la sua Chiesa e con ogni fedele, per trasferire in loro il suo Spirito, forza dinamica, capace di trasformare la realtà. Già qui sulla terra, con l’eucaristia, Il credente si immerge nel mistero della vita trinitaria[6], mistero gioioso di amore, di accoglienza, di dono, di servizio, di vita piena. Se è raro ‘sentire’ sensibilmente la presenza della Trinità in noi, come lo sperimentano i mistici, non è raro constatare i frutti che la partecipazione all’eucaristia dona a noi, attraverso i doni dello Spirito.

Ma per sperimentare questa nuova vita, è necessario partecipare al convito con l’abito di nozze (Mt 22,8), cioè esserne degno, perché è un invito che conduce, sempre, anche ad un giudizio. È possibile infatti una frequentazione quotidiana della celebrazione eucaristica che non porti frutti, e non trasformi interiormente, sia anzi di condanna (Mt 22, 13-14). L’eucaristia infatti non è un rito magico e la risurrezione interiore non avviene se non è desiderata ed attesa.

Come Cristo, prima di sperimentare una autentica risurrezione, bisogna essere capaci di pagare il prezzo della fedeltà all’alleanza, cioè della fedeltà alla Parola. Solo allora la beatitudine detta da uno dei commensali, “ Beato chi mangia il pane nel regno di Dio” (Lc 14,15) diventa realtà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Nicoletta Crosti

Fondação Betânia, Colares, Portogallo, 10 Settembre 2005

e-mail  nicolettacrosti@bluewin.ch

 



[1] Tragan P.R. ‘Culto e Scrittura:una dinamica ermeneutica’ in Corso di Teologia Sacramentarla vol 1, Queriniana, Brescia, 2000, 202.

[2] Il sacer romano era ben differente dal qadôs biblico. Il primo era una istituzione creata dagli uomini, l’altro era riferimento alla proprietà particolare del Dio di Israele, la santità. Sarà Dio a santificare il Tempio di Gerusalemme (1Re 8,10-11) con la sua gloria e non l’uomo a consacrarlo a Dio.

[3] La Torah è il Pentateuco, i primi 5libri della Bibbia.

[4] Anche se questo appare nelle traduzioni in lingua moderna.

[5] Lc 23,12 “Erode e Pilato, che prima erano nemici, da quel giorno diventarono amici”.

[6] Vedi i continui riferimenti al Padre, al Figlio ed alla Spirito Santo nello svolgersi del rito eucaristico.