Bose, 13 febbraio 2005
I domenica di Quaresima

“Quando un membro soffre” (1Cor 12,26)

Cari amici e ospiti,
l’itinerario quaresimale verso la Pasqua è cammino di conversione, è sequela rinnovata del Signore Gesù che sale a Gerusalemme per compiere il suo esodo da questo mondo al Padre, è assunzione della propria croce di discepoli per condividere con Cristo la passione e la morte ed essere così resi partecipi della sua risurrezione. Proprio per questo ci pare un tempo propizio a riflettere sul corpo di Cristo che è la chiesa e, in particolare, sulle sue membra che patiscono sofferenze e morte.

Da più parti in Italia e in Europa occidentale – in paesi cioè dove da decenni se non da secoli i cristiani vivono liberi e rispettati, cittadini con pieni diritti e totale libertà – si odono voci che lamentano ostracismi, disprezzo se non addirittura persecuzione nei confronti dei cristiani per ogni minima perdita di privilegi acquisiti, ogni mancata ricezione di istanze confessionali, ogni rifiuto di categorie di pensiero e di giudizio derivate dalla rivelazione biblica e dalla tradizione cristiana. Legittime rivendicazioni di laicità da parte dello stato e maldestri episodi di astio o rivalsa nei confronti della chiesa vengono indebitamente mescolati e interpretati come pericolosi rigurgiti di ostilità contro la fede cristiana, minacciosi presagi di discriminazione e preludi a sofferenze fisiche e morali per i cristiani. Ma non possiamo dimenticare che siamo ormai in una società plurale per religione, cultura, etica e che l’essenziale è che lo stato garantisca a ciascuno le libertà costituzionali e favorisca la loro espressione in uno spazio non solo privato ma pubblico, in cui possano svilupparsi un dialogo e un confronto con tutte le componenti religiose e non religiose della società per il bene dell’insieme della polis.

Come cristiani dovremmo piuttosto interrogarci se le accuse di inimicizia rivolte ai non-cristiani non siano un comodo paravento allo scoprirci minoranza, all’incertezza e alla mancanza di consapevolezza della nostra fede, a dubbi e timori sulla nostra effettiva capacità di trasmettere la fede cristiana alle generazioni future. Pur di non ammettere questo nostro raffreddamento nel vivere quotidianamente le esigenze del Vangelo, pur di non assumerci le nostre responsabilità per l’indebolimento del cristianesimo nelle terre che per prime lo hanno accolto, si preferisce allora accusare i laici, o magari l’islam, di sottrarci spazi vitali e di mettere in pericolo le nostre tradizioni. No, se i cristiani in occidente conoscono oggi una persecuzione è quella di cui già parlava Ilario di Poitiers nel iv secolo: “Dobbiamo combattere contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga... non ci flagella la schiena, ma ci accarezza la pancia; non ci confisca i beni dandoci così la vita  ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del nostro cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro e il potere” (Liber contra Constantium 5). Questa è la persecuzione di cui dovremmo essere consapevoli!

A noi pare anche che un atteggiamento di vittimismo a oltranza non solo sia quindi fuori luogo, ma che, ed è ancor più grave, suoni come un’offesa verso il corpo della chiesa nella sua unità e cattolicità, nel suo estendersi nel tempo e nello spazio, nel suo essere carne nella storia in luoghi precisi e in situazioni diverse. Con che coraggio possiamo parlare di persecuzione oggi nei nostri paesi quando sappiamo cosa hanno patito i nostri padri e le nostre madri in tempi meno recenti e cosa soffrono i nostri fratelli e le nostre sorelle nella fede in altre regioni del pianeta? Sì, “martirio”, la testimonianza fino al sangue, è parola troppo nobile, è vocazione troppo alta, è dono troppo prezioso perché possiamo abusarne per colorire la nostra insoddisfazione di fronte a un’egemonia che viene meno, a una semplice perdita di potere o di influenza nella società. Dobbiamo avere rispetto per quanti, ancora oggi, pagano con la vita la loro sequela del Signore, l’incarnazione dello spirito delle beatitudini, la fame e la sete di giustizia, la ricerca della pace, il farsi prossimo dei poveri, dei malati, dei carcerati, degli stranieri. Invece di accostare le rare, piccole contrarietà che può conoscere la nostra testimonianza cristiana alla “grande tribolazione” che vivono tuttora tanti nostri fratelli e sorelle, dovremmo imparare da loro la pazienza nella prova, la trasparenza dello sguardo, la purezza di cuore, la compassione per i più deboli, il perdono per i persecutori, l’amore per i nemici.

Per i cristiani, ricordare chi ha testimoniato e testimonia fino al sangue la sua fede in Cristo e la sua carità agli ultimi in nome di Cristo non significa additare all’esecrazione i carnefici ma piuttosto – quali discepoli di un Maestro che è morto perdonando i persecutori, e condiscepoli di milioni di martiri uccisi mentre imploravano il perdono di Dio sui carnefici – proclamare con il linguaggio della santità e del martirio l’annuncio del perdono offerto da Dio. Nel nostro secolo questa voce è tornata a levarsi sempre più distinta dai sotterranei della storia: dal Salvador all’Algeria, dalla Russia a Timor Est, dall’Alto Egitto alla regione dei Grandi Laghi, dal Sudan alla Cina, dalla ex-Jugoslavia alla Birmania, sempre più numerose sono state e sono le zone del mondo in cui cristiani di tutte le confessioni (cattolici, ortodossi, anglicani, copti, protestanti…) sono davvero osteggiati, discriminati, perseguitati, incarcerati, torturati e uccisi. Essi costituiscono un tesoro prezioso per la chiesa e per l’umanità tutta: è una moltitudine di seguaci dell’Agnello che nessuno può contare, eppure tutti insieme sono già un solo corpo e il nome di ciascuno di loro, nome magari a noi sconosciuto, è già stato pronunciato da Dio quando l’ha chiamato a sé dalle tribolazioni: “Vieni al Padre!”. Allora la custodia della memoria, l’ascolto delle loro “passioni”, il pregare con loro e per loro è un invito pressante a fare propria la consapevolezza che ogni martire ha di appartenere a un’unica comunità di fratelli e sorelle, nella quale e in nome della quale dà la propria “bella testimonianza” di fronte al mondo.

Sì, in questi ultimi decenni l’intrinseco legame tra vita cristiana quotidiana e testimonianza fino al martirio è tornato presente al cuore stesso della chiesa: uomini e donne forti solo del loro battesimo, catechisti, religiose, monaci, vescovi, seminaristi hanno testimoniato fino al compimento della “vita donata” la radicalità della loro sequela del Signore Gesù. Certo l’irrompere del martirio in una chiesa che si scopre minoranza senza più garanzie fornitele da una società cristiana provoca timore, sbandamento, insicurezza… Ma sono questi i sentimenti che devono abitare quanti non desiderano più nulla per se stessi e hanno a cuore l’annuncio dell’evangelo? Così scriveva fr. Christian, il priore del monastero dell’Atlas che finirà sgozzato assieme ai suoi sei confratelli: “Insicurezza? È una grazia di fede. La più scomoda per chi pensa solo a dormire. La più adatta alla vigilanza… A Cristo è stato proposto di scegliere tra due stabilità: il trono o la croce. Cristo ha scelto la croce: ne ha fatto il suo trono, lo sgabello del suo regno. Purtroppo nel corso della storia la chiesa ha spesso preferito il trono. Soprattutto dopo che l’editto di Costantino ha reso la croce più diffusa e il trono più complice”. Davvero questa “insicurezza”, questo ritorno della possibilità del martirio è un grande segno per tutti, dentro e accanto alla chiesa: cristiani di ogni latitudine e confessione mostrano ai loro fratelli in umanità che vale la pena di vivere perché vale la pena di morire per Gesù Cristo e che essere battezzati è una cosa seria, il “caso serio” che arriva a determinare la stessa morte fisica. La sofferenza fino alla morte, accettata nell’amore anche per il nemico, è l’estremo rifiuto della logica dell’inimicizia, l’unico atto che può porre fine alla catena delle rivalse e delle vendette. Con il martirio, un cristianesimo che sembra in difficoltà nel comunicare con gli uomini di oggi ritrova, in una “grazia a caro prezzo”, la capacità di suscitare domande e di inquietare le coscienze. Sì, per il ritrovamento di questa ricchezza perduta dobbiamo essere grati alla folla di testimoni di ogni lingua, razza, popolo e nazione il cui sacrificio suona anche giudizio per noi: siamo consapevoli che questi fratelli, nostri contemporanei, affrontano per amore di Cristo le sofferenze, la tortura, la morte violenta proprio mentre noi siamo tentati di accondiscendere alle lusinghe della mondanità e cerchiamo di rendere il cristianesimo più comodo, finendo a volte per depauperare quella fede che sola vince il mondo?