Profilo di Ernesto Buonaiuti
di Arturo Carlo Jemolo ( introduzione a “Pellegrino di
Roma-La generazione dell’esodo” di E.Buonaiuti a cura di Mario Niccoli, Laterza
1964)
Pellegrino di Roma, pubblicato nel 1945 con il sottotitolo La generazione dell'esodo, è ad un tempo il racconto della vita di Buonaiuti, la sua confessione, l'illustrazione della visione del cristianesimo e della missione di questo nel mondo contemporaneo ch'egli ebbe; il libro ci dice lo sviluppo e gli approfondimenti del suo pensiero intorno a tale missione, a tale rinnovamento del mondo, assillo costante della sua vita, il modo con cui gli apparivano società civile e società religiosa.
C'è dentro tutto il pensiero di Buonaiuti; solo l'opera dello storico del cristianesimo resta appena accennata.
Il libro contiene anche un quadro – ritratto da un particolare punto di vista, ma da un uomo che sapeva sempre riconoscere la buona fede degli avversari, di quelli che operavano mossi da una concezione del bene della Chiesa antitetica alla sua – del mondo ecclesiastico romano dagli ultimissimi anni del secolo scorso al primo periodo del pontificato di Pio XII.
Libro quindi di somma importanza per chiunque nel tracciare la storia degli ultimi settant'anni non si attenga al deprecato schema che esclude quanto e movimento religioso, non menziona la Chiesa se non per le affermazioni politiche della S. Sede, i suoi contrasti con gli Stati; mentre quanto costituisce controversie religiose, graecum est, non legitur.
Ernesto Buonaiuti fu la figura saliente del modernismo italiano.
Ma chi conobbe Buonaiuti sa l'impossibilità di contenerlo entro i confini di un movimento, di una tendenza, di una scuola. Sa anche come quanti non lo avvicinarono non potranno mai rendersi conto di quel che fu il suo fascino, il suo potere di attrazione.
L'alta persona slanciata, magra ma non scarna, la nobilissima testa – sarebbe stato ottimo modello per un busto del pensatore –, gli occhi vivissimi, la voce calda, gradevole ad udire, suasiva. E mai un cenno di pesantezza, di stanchezza su quel volto, mai una sonnolenza, neppure nella devastazione della malattia. L'affabilità estrema, l'interesse che mostrava per le vicende, le preoccupazioni dell'interlocutore, trovando la parola più capace di giungere al suo cuore (la domanda sui tratti, sul peso del bambino, al neo‑padre).
Rispetto al danaro aveva il disinteresse assoluto; quando ne possedeva, lo largiva con estrema generosità, fino all'esaurimento; ma non conosceva l'orgoglio – non cristiano – di rifiutare l'aiuto di ricchi amici se in stato di bisogno. Fra uomo che dovunque, nel palazzo di un principe o nella capanna di un carbonaio, si trovava a suo agio e metteva gli altri all'unisono. Aveva vita semplicissima, ed anche alla tavola del gran signore non indulgeva ai piaceri della gola: frugalissimo sempre.
Scrittore efficacissimo – molte pagine della Storia del cristianesimo sono tra le più belle, le più dense, scritte nell'ultimo cinquantennio –, cultore profondo di quella storia, con approfondimenti ed intuizioni felici, era altresì un oratore unico, sulle cui labbra nessun tema era arido; non teneva un appunto dinanzi a sé, oltrepassava sempre la misura consueta dei conferenzieri, ma gli ascoltatori non avvertivano lo scorrere del tempo. Ed anche i più umili cercavano di comprenderlo, erano presi dal suo fascino; particolare quasi comico: negli anni del fascismo un agente di P.S. assisteva a tutte le sue conferenze; ed alla fine si avvicinava umile, dimentico del suo compito, a chiedere al professore qualche spiegazione; e le domande erano tali da escludere a priori ogni interesse poliziesco; dimostravano che quella evocazione del divino, dei lati profondi dell'animo umano, aveva trovato le vie del cuore anche nell'umile agente.
La personalità di Buonaiuti era d'incredibile ricchezza; sensibile come pochi al fascino della natura, della montagna, del bosco, delle sere trascorse in un rifugio alpino; appassionato di musica, aperto alla comprensione di ogni forma d'arte; attento ad ogni ramo del sapere. Ma soprattutto c'era in lui una straordinaria capacità di contatti umani; durante una gita in montagna sostava talora con un pecoraio ed intrecciava con lui una conversazione, ricca d'interesse per entrambi; poteva conquistare l'affetto di un bambino.
Quest'uomo così complesso e multiforme poteva tuttavia pur dirsi un semplice: nella vita familiare, nei rapporti con la madre, di cui restò sempre il figlio affettuosissimo, obbediente e devoto – ma la madre era donna di rara comprensione e delicatezza –; nella modestia delle abitudini, della casa, nei pochi bisogni, malgrado la malferma salute.
Restò sempre prete nell'intimo; non solo nella virtù – ebbe violenti ed acri oppositori, il padre Rosa della «Civiltà cattolica», non gli diede requie; nessuno poté però mai gettare dubbi sulla continenza serbata dal sacerdote –, ma anche nell'evitare nelle conversazioni temi audaci, pur se gl'interlocutori li trattassero nei termini più corretti. Palesemente certe questioni lo infastidivano, soprattutto se fossero presenti dei giovani; poteva discuterne solo con un amico sicuro, esperto della vita, a quattr'occhi. Serbo legami vivi con quelli tra i sacerdoti travolti dalla bufera antimodernista che, sottomettendosi o meno, avevano però rispettato gli obblighi del sacerdozio; anche per questo gli rimase sempre carissimo il devoto Nicola Turchi, egregio studioso di storia delle religioni (il terreno più prossimo per chi non poteva arrischiarsi a scrivere di storia del cristianesimo) e con lui don Brizio Casciola.
Aveva intorno a sé una cerchia di giovani cui era affezionatissimo; ma quel che desiderava per gli eletti era il celibato, la vita povera – una cattedra di scuola secondaria, preferibilmente –, con sole gioie qualche gita in montagna, qualche concerto, e lo studio: lo studio del cristianesimo dei primi secoli; alla società attuale non era dato tornarvi, ma certi valori, in particolare l'aspettativa del regno, occorreva averli sempre presenti. Chiamava coinonìa questa cerchia di cui era il maestro e la guida. Agostino Biamonti, che ricorda nel Pellegrino, era appunto quegli pronto a realizzare questo ideale di vita; più tardi qualche donna, così l'insegnante fedele cui morendo affidò le sue carte, gli parvero realizzare quella che per lui era la vita migliore.
Il modernismo è nome che copre movimenti diversi, con scarsi legami tra loro.
Molto approssimativamente si possono indicare tre filoni.
Un modernismo dottrinale o teologico, di cui il più noto campione, carissimo a Buonaiuti (vedasi come parla del loro incontro a Brighton nell'estate del 1907), fu Giorgio Tyrrell, e che si riconnette alla grande personalità del cardinale Newman; mira a scuotere la teologia tradizionale, o meglio la sua cristallizzazione. L'evolversi della umanità, i progressi dell'uomo, le sue conquiste, portano ad una sempre nuova comprensione della rivelazione, a scorgere in essa nuovi significati (la buona novella matura in seno alla umanità). I dogmi devono rispondere ad esigenze, inquietudini dello spirito umano, diverse da quelle dei secoli in cui furono definiti.
Nelle Lettere di un prete modernista, pubblicate nel 1908, Buonaiuti aveva scritto: «la dommatica e la disciplina cattolica rappresentano uno svolgimento posteriore nell'ordine teorico e nell'ordine pratico della primitiva esperienza cristiana, la quale le conteneva solo potenzialmente… Il cristianesimo primitivo, sorto fra i primi seguaci di Gesù all'annuncio della buona novella, ha fatto a meno di ogni speculazione riflessa… Quando la forte religiosità cristiana, guadagnando in diffusione, ha perduto di intensità, allora e solo allora, la formulazione dommatica è intervenuta per garantire la sopravvivenza del sentimento cristiano. La dogmatica, nel suo complesso, rappresenta appunto lo sforzo di tradurre in termini cosmologici e teologici gli elementi razionali capaci di guidare e alimentare l'esperienza religiosa dell'anima collettiva. Il dogma trinitario, quello cristologico e quello ecclesiastico costituiscono l'espressione intellettualistica di alcuni postulati religiosi racchiusi in germe nella prima esperienza cristiana». La nuova esperienza religiosa può abbandonare «i sostegni della vecchia mentalità cattolica»: «la nuova esperienza contiene e eminentemente tutte le esperienze che l'hanno preceduta»: il principio informatore unitario della prima esperienza cristiana racchiuso in quei dogmi è riconosciuto, pure negandosi dalla nuova esperienza di applicargli «nel senso tradizionale, la nozione astratta e antropomorfica della personalità».
Direi che da queste posizioni Buonaiuti non si sia sostanzialmente mai mosso, che sia sempre rimasto riluttante al concetto tradizionale di dogma.
Egli scrive che per l'antichità cristiana tra la ragione e la verità di Dio c'è un abisso, colmabile solo dalla grazia; mentre per la cristianità post‑scolastica quell'abisso è colmabile da una quantità di ponti di passaggio costituiti dal materiale fragile delle nostre argomentazioni e deduzioni. Paolo raffigurava Cristo in atto di distruggere tutti i dogmi delle prescrizioni politiche e scolastiche, per fare del suo corpo trafitto sulla croce l'unico dogma vero e palpitante, simbolo di riconciliazione e di fraternità fra gli uomini. Nella Lettera di Barnaba (I, 6), tre sono i dogmi del Signore, la speranza della vita, la giustizia, l'amore nella gioia e la letizia; non è eretico tornare a questi dogmi.
Altrove, pare peraltro giustificare l'esigenza di tali formulazioni: «l'uomo è sollecitato sempre dal bisogno di raggiungere il divino attraverso le vie misteriose della sua capacità di comunicazione subcosciente con l'universo, e dal bisogno di tradurre in formule razionali le intuizioni del suo senso sacrale delle cose e le percezioni supervisive delle sue pupille interiori». Ci sono momenti in cui l'equilibrio tra questi due gruppi di forze innate pare spezzarsi a vantaggio delle formulazioni concettuali e della disciplina burocratica; occorre allora avere l'audacia di «spezzare l'involucro delle formule, per ridare ritmo circolatorio alle virtù subcoscienti dell'istinto che l'uomo si porta verso la visione religiosa del mondo e della vita associata».
Egli aveva considerato sua prima consegna questa: «svecchiare tutti gli abiti mentali dell'insegnamento cattolico ufficiale; riportare le anime ad un recupero diretto dei valori genuini della primitiva predicazione cristiana, tutta accentrata negli assiomi dell'universale fraternità umana nella coscienza di un unico Padre, Dio». E nelle Lettere aveva scritto: «la funzione vera della religione è di nutrire lo spirito umano con i sentimenti della speranza e dell'amore fraterno».
In Buonaiuti c`è sempre, col vivo senso della Chiesa, che è veramente caratteristica saliente del suo pensiero, la tentazione del ritorno alle origini, corretta dalla riflessione che non si può rifarsi alle posizioni elementari da cui mossero la predicazione e la diffusione dei Vangeli, prescindendo dall’apporto di tutta la successiva esperienza associata cristiana.
In questo atteggiamento di fronte al concetto del dogma, al peso del dogma nella fede del cristiano, il modernismo aveva avuto precursori: ci sono pagine di Lambruschini e Capponi che paiono anticipazioni. Ed altre se ne potrebbero trovare.
Gli è che si dà un punto di arrivo quasi obbligato per chi non vuole rinunciare al dogma come elemento strutturale della religione, non vuole ridurre questa ad una serie di precetti morali, e d'altronde non crede legittimo il gettare dei ponti tra il razionale ed il numinoso (Buonaiuti nelle Lettere aveva parlato di «mania mostruosa di spiegare i misteri della vita divina e della spiritualità religiosa con la medesima disinvoltura con cui si definiscono gli elementi costitutivi di un corpo»), e pensa che dove non si dà il prosternarsi dinanzi alla luce di Dio, tacendo allora la ragione, questa debba poter comprendere appieno. Dove l'uomo non può intendere, non c'è posto per la formulazione del dogma; allora viene naturale pensare al dogma come adeguamento di verità religiose alla ragione; ma questa non è qualcosa di obiettivo e permanente, è strettamente legata alle esperienze, al sentire, agli stati d'animo di una civiltà e di un secolo; nell'adeguamento di un elemento costante, la verità religiosa, ad uno variabile, starebbe la evoluzione dei dogmi.
Si dà poi un modernismo storico, revisione della storia ecclesiastica, ricerca di quelle che furono la fede, le aspettative delle prime generazioni cristiane; analisi dei testi condotta spassionatamente, senza paura d'indicare interpolazioni nei libri sacri, di posticipare di qualche secolo la datazione di qualche parte del Vecchio Testamento, d'insegnare che qualche parte di questo, anziché essere dell'autore indicato dalla tradizione, risulterebbe fusione di due testi di epoche diverse.
Ricerca spassionata di storico, per alcuni; per altri, ricerca mossa da quel desiderio di ritorno alle origini, che è una delle vene del modernismo, in contrasto con l'altra, la preoccupazione di concedere ai bisogni di ogni generazione, di dare risposta alle sempre nuove esigenze.
Di questo modernismo storico la figura di maggior fama fu Loisy, che deluse Buonaiuti per la sua aridità (della delusione non è alcun indizio nelle Lettere, ma probabilmente c'era lì un intento apologetico, esaltare una grande figura del modernismo): un'aridità, una intellettualità, che contrastavano con il fervore, l'empito di vita del giovane sacerdote romano. Non si può non sorridere leggendo nelle memorie di Loisy che quando Buonaiuti venne a visitarlo nel 1906 a Garnay ebbe il torto di non ammirare le sue galline nere (Buonaiuti nelle Lettere dice che le trovò bruttissime); s'immagina il giovane prete entusiasta ed il gelo che l'invade quando quegli in cui si attendeva di trovare il fratello maggiore, il sostegno, gli fa ammirare la proprietà ed il pollaio.
Non sembra che quest'opera del modernismo, volta a ricostruire le origini cristiane prescindendo dalla tradizione, passando sopra alle definizioni della Commissione biblica, si proponesse come scopo anche quello di purificare da superstizioni la religione delle masse, partisse in guerra contro le pie pratiche, le fedi religiose basate sui miracoli, sulle apparizioni, le rivelazioni di santi. Direi anzi che si disinteressasse della religione dei più, forse pensando che anche gli umili sarebbero stati attratti, aspirati, dal rinnovamento religioso, che il modernismo si proponeva. Mons. Lanzoni, che attende – e trova egli pure amarezze e spine – a quest'opera di purificazione, appare piuttosto sulla scìa di un Muratori, che dei modernisti suoi contemporanei. l: vero che nelle Lettere di Buonaiuti si trovano parole roventi contro la superstizione che inquina la religione del popolo, e si legge anche: «oggi non è più il caso di rispettare le esigenze della pietà popolare»; ma qui l'uomo dovette mutare, passata la prima giovinezza; ché di quella pietà lo vedemmo sempre rispettosissimo (anche a prescindere dalla recitazione del Rosario con la mamma).
A ben guardare, questi modernisti erano degli aristocratici; il campo in cui si proponevano di seminare e mietere era l'ambito degli uomini di cultura; la religione del popolo, se mai, sarebbe stata modificata di riflesso.
Buonaiuti, con una delle tante contraddizioni inevitabili in un temperamento della sua ricchezza, lo vedevamo non indignarsi neppure di forme di religiosità popolare che avessero in sé qualcosa di superstizioso, e nelle manifestazioni collettive del popolo scorgeva un lato essenziale della cristianità, il senso corale, l'unità del popolo dei credenti (non c'era per lui religione senza vita associata). Fino all'ultimo gli fu caro partecipare col popolo, cantando in coro l'inno secolare, al pellegrinaggio del Monte Autore.
E si dà anche un modernismo politico, che accoglie le istanze socialiste, ma non quelle liberali.
A quest'ultimo, ch'ebbe in Italia nel Murri il suo capo, Buonaiuti restò estraneo. In Pellegrino di Roma spiega chiaramente la sua posizione: errore del Murri voler dare l'etichetta cristiana ad un partito politico; «il cristiano non si diversifica dai suoi concittadini nel nome di una partecipazione qualsiasi a determinate posizioni politiche o a frammentarie organizzazioni economico‑sociali. Il cristiano è l'uomo che al di sopra e al di là di tutte le specificazioni politiche correnti si sente cittadino di una città superiore e questa sua anagrafica iscrizione in una città superiore traduce in forme di bontà, di temperanza, di mitezza, di condiscendenza, di perdono, da esercitarsi a favore indistintamente di tutti i fratelli che sono suoi compagni di pellegrinaggio e di pena».
Come la predicazione di Cristo aveva infranto ad un tempo la concezione statolatra di Roma e il nazionalismo d'Israele, così occorreva risuscitare il cristianesimo delle origini e sopprimere le barriere nazionali.
Se il Programma dei modernisti guardava alla società terrena per deprecare le iatture che avrebbero recato le contese tra nazioni, il culto della forza, la politica delle democrazie atee ed epicuree, e se si augurava che la Chiesa potesse scongiurare queste iatture, era sempre con un'azione dal di fuori, senza mescolanze, che avrebbe dovuto agire, con un'opera di educazione evangelica. Il cittadino doveva cedere il passo al credente.
Era un nuovo modo di concepire la superiorità della Chiesa sullo Stato; ma la contrapposizione all'idea dello Stato liberale, dello Stato etico, era nettissima.
La città terrena era al di fuori delle preoccupazioni sostanziali di Buonaiuti; i giudizi che talora nel libro si leggono sulla politica italiana e gli uomini di questa, sono sempre dati sulla bilancia dei valori religiosi. Gli era caro ripetere il brano di Tertulliano che mostra l'inconciliabilità del cristianesimo con l'impero; non solo ogni commistione di potere religioso e potere politico gli appariva deleteria per la Chiesa, ma il vero cristiano doveva restare distaccato; non si servono due padroni. Nella sua interpretazione del date a Cesare, Cristo aveva posto una nota di disprezzo per ciò ch'è la moneta, per quella ch'è la parte di Cesare.
L'aberrazione era la mescolanza della Chiesa con lo Stato; ma Buonaiuti non era un liberale cui dispiacesse l'abbandono del canone separatista; a lui doleva la degradazione della Chiesa in quel contatto.
Buonaiuti fu inconciliabile con Croce, Gentile, l'idealismo.
Anche quando nel periodo della persecuzione fascista ebbe qualche superficiale
rapporto con Croce, non riuscì mai a perdonargli l'insensibilità per il
movimento modernista, quel ch'egli aveva scritto all'indomani della Pascendi.
Si può ammettere una certa opacità di Croce per quanto è vita religiosa: lo lasciavano indifferente anche gli studi dell'amico Ruffini sul pensiero e le distinzioni teologiche di giansenisti e riformati; e non mi consta che nella cerchia dei fidi, dei carissimi di Croce, ci fosse alcun praticante. Ma Croce non è quel che potrebbe apparire all'ignaro che lo conoscesse solo attraverso Buonaiuti. E quanto a ciò ch'egli scriveva nel 1907 può ben dirsi ch'era sano senso realistico quello che lo portava a comprendere come – trascorso da secoli il periodo delle eresie e del sorgere di chiese separate – non potesse essere incoraggiato un movimento ecclesiastico condannato dalla Chiesa. La ragione, fosse pure crudele, portava a dire: – chi vuole restare si sottometta, chi non può sottomettersi esca, e scriva senza preoccupazioni di censure, con la libertà che regna nella società civile italiana (chi avrebbe potuto nel 1907 presagire il Concordato e l'iniquo art. 5?).
Alternativa impossibile per Buonaiuti, che si paragonava talora all'uccello di Renan che non può allontanarsi dal tempio; che anche nelle redazioni romane del «Tempo» e del «Mondo», restava sempre a sé; che poteva avere amici cari anche tra non credenti – Tilgher e Salvatorelli –, ma che l'essenza delle sue preoccupazioni, del suo pensiero, dava ognora ai problemi religiosi, e solo attraverso lo schermo di questi poteva vedere quelli di politica mondiale od interna. Il mondo laico restava per lui quale gli era apparso al tempo della rivista «Rinnovamento», allorché scriveva: «…il terrore oscuro che mi incoglieva nel cuore, alla prospettiva di un esodo ufficiale dalla Chiesa che mi avrebbe lasciato abbandonato al risucchio vertiginoso di un mondo laico, vuoto ormai di qualsiasi salda consistenza spirituale e di qualsiasi vera idealità cristiana».
Ed occorreva altresì dire che, anche se il periodo degli scismi non fosse ormai chiuso da secoli – rapida decadenza dei vecchi cattolici, pur capitanati da uomini della tempra di un Döllinger, e radicati sul saldo terreno teorico del rifiuto di un nuovo dogma – sarebbe stato ben arduo, anche in un altro secolo, far sorgere una chiesa su principii cosi aerei, mal definibili, che rispondevano piuttosto alla sensibilità dell'uno o dell'altro degli assertori, che ad un sentire comune, propri al modernismo.
Buonaiuti ammette che questo era allo stato fluido della sua prima espansione, ma aggiunge che sarebbe un giorno passato ad una forma schematizzata di sistema filosofico. Ma non era forse quella forma fluida la sua essenza, ed avrebbe potuto schematizzarsi senza tradirsi?
Afferma Buonaiuti che allorché comparve la Pascendi «il problema della religiosità, del suo contenuto sostanziale, delle sue concrete espressioni storiche, della sua realizzazione suprema nella forma datale dalla rivelazione del Cristo e dalla disciplina della Chiesa, cominciava ad uscire dai chiusi recinti del monopolio teologale, per diventare alimento e pungolo di ogni spirito senziente, consapevole dei compiti e delle esigenze della moralità associata».
E se davvero questo fosse stato, la Pascendi dovrebbe dirsi deleteria per la vita spirituale del nostro popolo. Ma chi ricorda l'Italia del 1907 sa che solo ben strette cerchie sentivano intensamente i problemi della vita religiosa, e queste non andarono mai disperse; fuori di esse non si scorgeva che lo stretto conformismo, la religione che non da inquietudini, perché tutto è vero quel che insegnano i pastori, e se sorge un dubbio è il confessore a risolverlo; oppure l'indifferenza, l'avere escluso ogni problema religioso dai propri interessamenti. Anche cenacoli non confessionali, come Coenobium di Lugano, raccoglievano spiriti eletti, ma restavano ignoti alle masse. In seno a queste, se i più giovani cominciavano a ribellarsi agli spunti dell'anticlericalismo becero, era piuttosto l'influenza, diretta od indiretta, della «Critica», di Croce che agiva su loro.
In Pellegrino Buonaiuti (che nelle Lettere appare violentissimo contro il neo‑tomismo, camicia di Nesso imposta al pensiero moderno, e scrive che «la filosofia comincia ad avere un nuovo concetto di se stessa, e non appare più come forma di conoscenza, la più universale fra tutte, dell'universo, bensì come una maniera particolare in cui si esplica l'attività interiore dell'uomo ») afferma di essere rimasto per tutta la sua esistenza «un aderente alla filosofia tradizionale della civiltà mediterranea, edificata da Aristotile nel mondo classico, e da San Tommaso nel mondo cristiano».
Sempre sincero, Buonaiuti lo credeva fermamente; ma è lecito pensare che più della impronta dell'Aquinate si sentisse in lui quella di Schleiermacher, di Newman, di Blondel (questi protestò sempre contro ogni sua connessione al modernismo; ma nessun maestro sa quali piante nasceranno dai semi che ha gettato). E quel suo «principio divino che, attraverso la nostra minuscola ma indispensabile contribuzione all'opera del bene, realizza in ogni istante l'ideale del Suo Regno», quel «programma mistico di realizzazione divina nello sviluppo della vita umana associata», a chi guardasse da un'altra sponda, essendo negato al mistero sacrale dell'universo di cui Buonaiuti era pervaso, avrebbe anche potuto essere accomunato a postulati idealisti‑storicistici.
Cosa rappresentò il movimento modernista nella storia della Chiesa?
Domanda spontanea e che tuttavia e dubbio se consenta risposta: giacché nessuno può sapere se il mutare dell'atteggiamento della Chiesa non sarebbe stato lo stesso senza il moto modernista, se questo abbia accelerato o ritardato (la reazione che suole aversi al prospettarsi di un pericolo, e che suole eccedere per dimensioni il pericolo stesso) quel mutamento.
Il modernismo nasceva dalla esigenza di quella parte delle classi colte non distaccata dalla religione, di averne una meno ancorata a risposte date molti molti secoli addietro, magari nel mondo degl'imperatori cristiani di Bisanzio, meno legata a problemi, a preoccupazioni scomparse dall'orizzonte dell'uomo europeo da qualche secolo; dalla esigenza di una religione fatta per gli uomini e che non può prescindere dall'uomo storico qual e in un dato momento, né pretendere di dare agli adulti il pane degl'infanti.
Ma sorgeva altresì da una posizione particolare dell'ultimo ottocento, la grande fede nella scienza, nella risposta definitiva che questa in ogni ambito poteva dare. La storia della creazione, i libri sacri, la tradizione, andavano coordinati con la scienza; questa non poteva errare (perché non si dubitava delle risposte definitive della scienza, ne si pensava che un'altra generazione avrebbe potuto modificarle od annullarle).
Intorno al 1900 nel mondo della cultura laica gia cominciava la crisi di questa fede nella scienza; ma era naturale che nei seminari, tra il giovane clero, giungesse col ritardo di una generazione. E quel problema della conciliazione di scienza e fede, che per le generazioni attuali non è più tale (anche per l'ampia libertà lasciata dagli ultimi Papi di opinare in tutto ciò che non è strettamente articolo di fede), appariva assillante in anni ov'era diffusa una forma mentale per cui sembrava possibile perdere la fede se un iota di ciò che si riteneva dogma apparisse inaccettabile. Non si può comprendere questa storia pur recente senza ricordare tale diffuso sentire: se un solo punto della Rivelazione crolla (o pare crollare), tutto si dissolve. Positivismo, mentalità scientifica, davano ai credenti l'assillo di una religione con stretto sistema logico, ove, rivelatosi falso un passaggio, perdono valore tutte le conclusioni successive.
Per Buonaiuti era compito essenziale dei sacerdoti della sua generazione eliminare il «contrasto fra le conclusioni delle discipline morali e storiche applicate al fatto religioso e al fatto cristiano, e le proclamazioni cosiddette infallibili degli ultimi concili ecumenici, di Trento e del Vaticano ».
Sulla formazione dei modernisti influiva anche quella reazione all'immobilismo, quel culto dell'azione, del rinnovamento, ch'era pur esso nello spirito del tempo.
È oggi opinione pur di ecclesiastici d'indubbia ortodossia che la reazione antimodernista tagliò ad un tempo il grano ed il loglio (qualcosa di simile era avvenuto anche alla controriforma). E se la naturale ripugnanza della Chiesa a tutto ciò che possa avere l'aspetto di una resipiscenza fa sì che si continui ad imporre il giuramento antimodernista, sta che oggi sono tesi comunemente accolte quelle che nel decennio posteriore al 1907 sarebbero state esposte a sicura condanna. La parte più sana del modernismo – soprattutto del filone storico e politico – è oggi accettata.
Forse la miglior giustificazione delle condanne pontificie sta
in quel che la dottrina modernista aveva di vago, di
suscettibile d'interpretazioni individuali: la Chiesa non può
non preoccuparsi che la massa dei credenti conosca ad ogni
ora concretamente ciò che deve credere, ciò che è di fede.
Quel che non si riuscirà mai a giustificare è la caccia ai modernisti sulla base di sospetti, di delazioni, di abusi di fiducia a danno di amici; in cui emersero ambigui personaggi, non certo onore dell'abito talare. Per anni nel clero si respiro un'aria avvelenata; ogni parola, ogni riga, poteva, male interpretata, dare luogo ad un'accusa. Anche eminenti cardinali avvertirono quel malessere.
Ho sempre scorto una certa armonia di ritmo (sarebbe troppo dire parallelismo) tra la controversia fra giansenisti e gesuiti nel sec. XVII e quella tra gesuiti e modernisti all'inizio di questo secolo. I giansenisti erano per l'immobilismo; la Chiesa non doveva preoccuparsi dei nuovi atteggiamenti dello spirito europeo dopo il rinascimento, non della ripugnanza che l'uomo moderno poteva provare per certi insegnamenti: la dannazione con pena sensibile dei bambini morti senza battesimo, il diniego della grazia ai non eletti, l'umanità massa dannata con pochi salvi. Gl'insegnamenti di Sant'Agostino dovevano valere per ogni secolo; diffidavano anche della critica storica, di Richard Simon.
La teologia gesuitica rispondeva alle esigenze del tempo, rendeva la giustizia di Dio comprensibile, comunque non ripugnante, agli occhi umani. Potevano esserci rilassamenti soverchi nella morale; peraltro i casisti erano fini analizzatori del cuore umano, comprendevano l'impossibilità di rinchiudere entro rigide categorie, entro poche leggi generali, l'infinita varietà dei casi, le infinite scelte dell'uomo.
Quest'opera di rendere la fede accetta all'uomo contemporaneo, da lui assimilabile, volle essere pure l'impresa dei modernisti; e le voci di diniego e d'immobilismo, che partivano dalla «Civiltà cattolica », echeggiavano quelle dei giansenisti.
Non si suole riflettere che in una religione immobile, in cui tutto sia stato detto una volta per sempre, in dommatica ed in morale, un capo infallibile, autorità suprema ed inappellabile, apparirebbe superfluo. Mentre più necessario che mai sembra là dove la religione, pure arroccata ad un certo numero di verità supreme, deve spiegare queste con parole nuove ad ogni generazione, deve rispondere alle inquietudini, agli assilli di ogni secolo, deve tener presente che nuovi dubbi sorgono, nuovi problemi morali si pongono.
I giansenisti erano logici nel ritenere che nella religione immobile da loro asserita al Papa poteva bastare un mero primato d'onore; i modernisti avrebbero dovuto logicamente essere calorosi assertori dell'autorità pontificia.
Ma che rispondere alla domanda di ciò che abbia rappresentato nella storia della Chiesa il modernismo?
Direi sicuramente un memento di esigenze intellettuali di una parte, poco numerosa, ma qualificata intellettualmente, della cattolicità. Dal punto di vista cristiano l'intellettuale non ha diritto a particolari riguardi: il perfetto cristiano si trova più sovente tra gli umili, gl'incolti. Sia nei rapporti della Chiesa con la società le classi colte non possono venire trascurate, per l'influenza ch'esercitano.
Negherei tuttavia che nel mutato indirizzo che già trapela negli ultimi anni del pontificato di Pio XII, ed appare chiaro durante quello di Giovanni XXIII e continua con Paolo VI, debba vedersi un effetto ritardato del modernismo.
L'esigenza che presiede a questo mutato indirizzo è la riconquista di una società scristianizzata in tutte le sue classi (ma la preoccupazione è soprattutto per quelle più umili, che in altri secoli si erano conservate fedeli alla religione; allorché la borghesia se ne allontanava), e per tale riconquista occorreva la mano tesa, il colloquio, non la condanna a priori di quanto fosse fuori degli schemi della ortodossia; ed intraprendere il colloquio su un terreno piano, non su dati teologici ostici alla mentalità di quasi tutti i contemporanei.
Un superstite della generazione modernista potrebbe qui osservare che se all'indomani della seconda guerra mondiale la società appariva scristianizzata, questo era un effetto della vittoriosa offensiva condotta quarant'anni prima contro il modernismo.
Nessuno può dire ciò che sarebbe seguito se un certo evento non si fosse prodotto; ma è difficile credere che un rinnovamento della Chiesa secondo le direttive dei modernisti avrebbe potuto sbarrare la via vuoi al comunismo, vuoi alla sete di agi, di godimento, verme distruttore del senso religioso.
Le pagine del Pellegrino dicono cosa fosse per Buonaiuti, per cui la vita non poteva essere che vita associata, dialogo col fratello o partecipazione al coro dei cristiani oranti, la cattedra universitaria.
Raramente una cattedra fu tenuta in modo più degno, raramente un maestro possedette maggiori capacità formative, raramente si ebbe quell'armonia di ogni momento tra maestro e discepoli, e lo studente universitario trovò nel professore l'amico, il confidente.
Splendide lezioni; il grande oratore non diceva mai parole vuote, mai si ripeteva; il pensiero si sviluppava in anelli concentrici, affinandosi. Non un appunto davanti e non una divagazione.
Non il pubblico mondano di qualche professore letterato, ma accanto agli allievi alcuni amici; ricordo in prima fila, assiduo, il vecchio senatore Luigi Bodio, il creatore dell'organizzazione statistica italiana.
Togliergli la cattedra fu la prima ferita che lo colpì in modo tale da turbarlo nel profondo, da mutarlo (l'altra fu la spogliazione coattiva dell'abito sacerdotale).
Il Concordato non aveva effetti retroattivi, come aveva dichiarato Mussolini, e tutti gli altri professori ex‑preti, incorsi in censure, vennero lasciati ai loro posti. A Buonaiuti l'insegnamento effettivo era stato tolto, in forma non legale, prima del Concordato, come egli narra – e certo non era stato il suo collega di facoltà ministro Pietro Fedele, assertore della Conciliazione e desideroso di avere in essa il suo posto, a sostenere Buonaiuti –; questi, allontanato temporaneamente con un incarico di studio, restava però sempre il titolare della cattedra romana di storia del cristianesimo. Che il fascismo schiacciasse un ribelle come Buonaiuti, senza preoccupazioni di legalità, non è a stupire. Ma fu veramente grave che i ministri della Liberazione – passarono alla Istruzione De Ruggiero, Arangio Ruiz, Molé, che ricordo poi ai funerali di Buonaiuti – non si curassero di ridare la cattedra a Buonaiuti. Sarebbero stati in una botte di ferro sul terreno giuridico. Buonaiuti era rimasto professore di ruolo, titolare della cattedra (sia pure dispensato dall'obbligo dell'insegnamento per attendere ad incarichi di studio) fino al 1931, allorché si era rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al regime, ed era stato dimesso; senza aver maturato diritto a pensione; c'era la dichiarazione Mussolini, negli Atti parlamentari, di non retroattività del Concordato, c'era il dato positivo che tutti i professori ex‑preti, quasi tutti naufraghi della crisi modernista, erano rimasti in cattedra, senza proteste della S. Sede. La tesi giuridica degli amici di Buonaiuti era inattaccabile. Che questi ministri non osassero porre l'alternativa ‑ od il ritorno di Buonaiuti alla cattedra o le nostre dimissioni – mostra come subito all'indomani della Liberazione si entrasse nella via delle transazioni, degli accordi di partito: già mancava il senso delle grandi questioni ideali, nel cui ambito nessun interesse pratico consente compromessi; è un segno rivelatore di quello che fu il rapido spegnersi del roveto ardente ch'era stata la Resistenza.
Ad ogni pronuncia del S. Ufficio si discusse appassionatamente tra gli amici ed allievi di Buonaiuti della giustizia di queste condanne.
Problema inesistente.
Anche chi non sia cattolico e sia disposto a giudicare qualsiasi atto della suprema autorità della Chiesa, riflette che in ogni religione gli organi che devono dirigerne l'indirizzo e mantenere la continuità hanno il potere di formare giudizi insindacabili su quello che il bene della religione esiga.
E non c'è nessuno che dal di fuori possa sovrapporre un suo giudizio.
Le opere degli uomini politici sono ancora suscettibili di venire valutate con il termometro, sia pure incerto, del successo.
Ma questo non e applicabile ai capi di una religione. Se anche certi loro atteggiamenti, certi loro atti, provocassero reazioni nelle masse ed avessero per effetto larghe diserzioni di credenti, sarebbe sempre possibile sostenere ch'essi hanno salvato la purezza della religione, hanno saputo interpretare la parola di Dio e distinguere i veri dai falsi credenti.
Soprattutto chi si ponga dal punto di vista modernista, di dover adeguare la verità religiosa alle esperienze, alle aspettative di ogni generazione, si rende conto di come questo adeguamento possa essere compiuto secondo apprezzamenti discrezionali diversissimi.
Soltanto chi concepisse una religione come una serie di norme giuridiche da cui si debbono trarre i corollari, potrebbe assumersi la funzione del giudice, che sulla base degli articoli di codice conchiude se un'azione sia lecita o meno.
Può solo farsi qualche osservazione estrinseca.
Buonaiuti ricorda che mons. C. Perosi, segretario del S. Ufficio, lo congedò, in quell'incontro del 1924 che precedette la scomunica, dicendogli: «Non c'è nulla da fare, avete un cervello troppo diverso dal nostro ». Rammento che una volta, evocando Buonaiuti col card. G. B. Nasalli Rocca, questi mi disse: «Se parlasse il linguaggio di tutti gli altri, quanti guai si sarebbe evitati ».
Non si trattava certamente di linguaggio, e forse neppure di cervello, ma di concezioni profondamente diverse intorno all'essenza del cristianesimo e, a ben vedere, intorno al modo migliore per condurre gli uomini a quel fine che certamente così Buonaiuti come mons. Perosi volevano: renderli obbedienti alla legge cristiana.
In fondo il pessimismo che Buonaiuti ricorda espresso in modo drastico nelle parole di mons. U. Benigni – gli uomini non essere capaci di nulla di bene nel mondo, la storia essere un continuo e disperato conato di vomito, occorrere per questa umanità l'Inquisizione – era ed è pure alla base dell'atteggiamento degli uomini di Chiesa che considerano suprema virtù l'obbedienza.
Buonaiuti era invece un ottimista; credeva l'uomo suscettibile di salire, scaldato solo dalla legge di amore che è nella parola di Cristo.
Come ho già detto, né lui né altri modernisti combatterono le forme di devozione popolare, diedero opera a modificare la religione degli umili; non mi consta che pensassero neppure a toccare il rito. Non so se sia immaginazione di nemico la descrizione di una messa modernista in un romanzo di P. Bourget, Le démon du midi; in Italia nessuno vide nulla di simile. E la celebrazione della messa da parte di Buonaiuti non poteva essere più edificante: spirava reverenza da ogni suo atto, dal suo volto; tutto il rito era compiuto a perfezione in un'epoca in cui purtroppo nelle chiese non di rado la messa era sbrigata in meno di venti minuti.
Tuttavia la dottrina modernista veniva a scavare un iato più grande che mai tra la religione degl'intellettuali e quella degli umili.
La Chiesa è in continuo movimento; peraltro ha sempre evitato i passi troppo bruschi, le lacerazioni. Alcune enunciazioni potevano in effetto scandalizzare chi non riuscisse a seguire tutto l'iter mentale di Buonaiuti – un cammino tracciato piuttosto da una logica sentimentale che da una logica scolastica –, il quale le riconnetteva a proposizioni di perfetta ortodossia.
Affermazioni come quella, che per Paolo c'è «un parallelismo perfetto, meglio una identificazione paradossalmente sublime, fra il corpo del Signore consumato nel pasto agapico e il corpo mistico del Signore medesimo rappresentato dalla comunità dei fedeli. San Paolo giungeva così ad immaginare e a dire, in tutte lettere, che, affinché il pane consumato fosse veramente il corpo del Signore, bisognava perentoriamente che i partecipi al pasto, i fratelli, si sentissero e si mostrassero così intimamente e così integralmente fusi in unità, da avallare con la loro solidarietà mistica, che costituiva anch'essa il corpo del Signore, la prodigiosa trasformazione del pane fisico in pane divino» (riecheggiano le parole delle Lettere: «col tempo si e venuta formando la dottrina della presenza reale, e più tardi della transustanziazione. Si è smarrito, attraverso a questa trasformazione, il valore etico primitivo del rito»): non potevano non apparire in contrasto con insegnamenti millenari, radicati nelle coscienze dei fedeli, ed insinuare dubbi tormentosi.
Ma lo storico che non entra nel merito delle condanne e si rende conto di ciò che il modernismo aveva di conturbante, deve aggiungere questo: che nella lotta antimodernista non si separò il grano dal loglio, e furono sospettati e soffrirono anche ottimi, impeccabili preti, il cui ricordo è oggi evocato con rispetto da cardinali e vescovi; così un mons. Lanzoni che dovette restringere, soffocare la sua opera di storico. Sappiamo oggi ch'ebbero a soffrire pure porporati della statura di Ferrari e Maffi.
Furono seguiti metodi che parevano caduti in disuso, che alcuni decenni più tardi sarebbero apparsi impossibili (vorrei dire usciti per sempre dalla vita della Chiesa: ma sono troppo ardite le affermazioni che impegnano l'avvenire).
Non solo richiamato il dovere di denunciare l'eretico, o quegli che fosse sospetto, ma giovani preti furono fatti strumento di spionaggio, senza riguardo allo scandalo che poteva venire ai più dal vedere un tal uso‑dell'abito talare. L'episodio narrato in Pellegrino di Roma, del prete che a Ginevra, ottenuta l'ospitalità di Antonino De Stefano, ne fotografa la corrispondenza (e così una lettera di Buonaiuti) per porla a disposizione del S. Ufficio, non è che uno dei tanti del tempo.
In questa vicenda, e così non soltanto all'epoca della Pascendi, ma fino alla morte di Buonaiuti, la Chiesa si attenne alla regola ch'essa, che possiede la verità, non può scendere al colloquio, ma deve preservare i fedeli dall'errore, e pertanto ricorrere ad ogni mezzo per chiudere la bocca a chi diffonda dottrine erronee.
All'indomani della morte di Buonaiuti l'«Osservatore romano», rispondendo alle deplorazioni per ciò che la S. Sede non aveva permesso ch'egli risalisse la cattedra romana, scriveva: dover la Chiesa invocare ogni salvaguardia per attingere il suo ultimo fine, «ed una di queste salvaguardie è l'impedire che chi erra, chi devia cioè dalla strada che alla mèta suprema conduce compromettendo così anche i benefici che da tal mèta derivano sullo stesso cammino temporale che ce l'assicura, possa indurre altre anime ad errare e a deviare».
Questa, del rifiuto della discussione e del bavaglio posto all'errante, era tradizione secolare; ma venne seguìto altresì il criterio, pur questo tradizionale, di condannare tutto in blocco quanto venisse dall'errante (per isolarlo dai fedeli, per timore di un veleno insito nelle sue pagine, che potesse sfuggire pure al più acuto censore, sicché furono condannati anche scritti irreprensibili, di apologetica cattolica). L'episodio di padre Gemelli, che pretende non veda la luce Lutero, senza volerne conoscere il contenuto, è in linea con tutta la condotta che fu tenuta con Buonaiuti; si voleva tacesse, il suo nome fosse dimenticato.
Nel mondo ecclesiastico si era riusciti a rendere quasi pauroso il nome di Buonaiuti. Occorreva il sereno coraggio, la tranquilla coscienza di Nicola Turchi, per confessare la persistente amicizia per Buonaiuti. Ho un ricordo tra doloroso e comico; una volta che Buonaiuti era nostro ospite a Bologna, nella casa isolata, fuori porta, che abitavamo, telefonò un misterioso Timoteo che desiderava vederlo; venne (lo rivedo col cappello duro, intabarrato) e s'intrattenne con lui. Non ho mai conosciuto il suo nome; so ch'era un sacerdote, cappellano dei Balilla. Per una visita allo scomunicato, le precauzioni non erano mai troppe. E quanti laici che gli erano stati sinceramente amici, che gli volevano bene, stentavano a superare il diaframma dello scomunicato vitando.
È ancora nella tradizione che la Chiesa invocasse il braccio secolare; ma l'uso di questo strumento non ripugna soltanto al cittadino che qualcosa abbia assorbito della tradizione liberale, e che creda nel principio, scritto nella costituzione del suo Paese, del diritto di ciascuno di professare liberamente e di far propaganda delle sue idee, quali si siano; ma dispiace altresì al credente. Il ricorso al braccio secolare nella coscienza d'oggi umilia la Chiesa; e pare avvilente per questa l'episodio del ministro Fedele che, per indurre la S. Sede a cedere nella controversia intorno agli esploratori cattolici, adopera non infruttuosamente il mezzo di avvertire un padre gesuita che, se la controversia non verrà composta, si permetterà a Buonaiuti di riprendere le sue lezioni.
Pochi uomini resisterebbero senza esserne se non stroncati, trasformati, ad una persecuzione che si prolungasse lungo tutto il corso della loro vita; cominciando allorché hanno venticinque anni e non rallentandosi mai.
Ma per Buonaiuti che aveva il senso corale della vita, che non concepiva la religione se non in forma associata, ch'era nato maestro, ch'era convinto di avere una sua missione, parole di vita, un messaggio da trasmettere, il bavaglio era insopportabile.
Toltagli la cattedra, sottrattegli le sedi in cui teneva conferenze, rese da ultimo impossibili queste, negatogli il passaporto perché non potesse tenere il corso a Losanna, create difficoltà su difficoltà per le sue riviste, fino al diniego della carta, strappatogli dal braccio secolare l'abito talare.
Bisogna ricordare tutto questo per rendersi conto di alcuni
giudizi non equanimi contenuti in Pellegrino
di Roma.
Così nessuno può credere che ci sia una qualunque connessione tra i successi della filosofia idealista e la politica estera dell'Italia, l'asse Roma‑Berlino. Non è chi non sappia che quei successi non andavano oltre la cerchia della università, e gl'indirizzi delle nostre facoltà filosofiche non hanno mai esercitato alcuna influenza sulle scelte politiche del Paese. Se le cattedre fossero ancora state occupate da allievi di Ardigò, questo non avrebbe davvero recato alcuna remora alla politica estera del fascismo. Del resto, forse che dopo il 1871 un'Italia positivista ed anticlericale non aveva plaudito al prussianesimo trionfante, alla politica di Bismarck? in quale clima era maturata la triplice alleanza?
Del pari è difficile trovare giuste le riserve che nel libro si muovono all'accorato, commosso discorso tenuto da Pio XII il 12 marzo 1944 al popolo adunato in piazza S. Pietro; il cristiano accetta il dolore, accetta la pena; ma non viene meno alla sua fede se prega Dio di risparmiarglieli. E troppi italiani che avevano detestato il fascismo, giudicata pazzesca la sua politica estera, non potevano sentirsi responsabili; non certo Buonaiuti, nemico di ogni violenza, avrebbe mai rimproverato loro di non essere insorti.
Qualche riserva farei anche alla pagina che segue, dedicata agli ebrei: accanto ai pochi che «si erano dati a speculare sui cavalli e sui carri dei popoli in mezzo a cui vivevano», quanti, in Italia soprattutto, dignitosi, semplici insegnanti, uomini e donne, in ogni ordine di scuole (Mondolfo, Castelnuovo, Falco, Fanno), eccellenti maestri che non avevano mai inneggiato agli idoli del tempo, quanti buoni magistrati, impiegati, ufficiali.
Una bella pagina di P.P. Trompeo nel volumetto Preti descrive la messa di suffragio per Romolo Murri celebrata da don Brizio Casciola; e menzionando i molti presenti, quasi tutti superstiti della bufera modernista, scrive: era un grande ritorno.
Veramente un grande ritorno. Da molto tempo era rientrato nei ranghi Guglielmo Quadrotta, vi sarebbe pure ritornato, in avanzata vecchiaia, Antonino De Stefano.
È sempre arbitrario affermare ciò che avrebbe compiuto
qualcuno se il corso della sua vita si fosse protratto; Buonaiuti, tutto preso
nella sua visione di radicale rinnovamento cristiano, non giunse a vedere
alcuni mutamenti – nel senso di più larga libertà concessa dalla Chiesa
alla critica storica, anche in punti fondamentali – che si verificarono poco
dopo la sua morte: così la lettera al card. E. C. Suhard della Commissione
biblica pontificia sull'epoca del Pentateuco e sul genere letterario dei primi
libri del Genesi del 16 gennaio 1948; documento semplicemente impensabile al
tempo della Pascendi.
È lecito tuttavia pensare che se fosse giunto a vedere il pontificato del suo coetaneo Angelo Roncalli, l'indizione del Concilio ecumenico, ci sarebbe stato anche per lui il ritorno.
Si legge in Pellegrino di Roma ch'egli ebbe un giorno a dire al cardinal F. Marmaggi che avrebbe compiuto la completa adesione desiderata dalla Chiesa, l'accettazione di tutte le condizioni, pur di essere agnello nel gregge di Pietro, se un uomo come il Marmaggi fosse stato elevato al soglio pontificio. Non penso che avrebbe rifiutato a Giovanni XXIII quel ch'era disposto a concedere al suo antico prefetto di seminario, a cui lo sospingeva il profondo senso della Chiesa, ch'è alla base di tutta la sua opera: Cristo non si dà al singolo, ma si palesa ai fratelli, la religione è vita associata, si alimenta nella comunità.
Certo Buonaiuti avrebbe allora riconosciuto la vanità di ogni giudizio che suonasse agonia del cattolicesimo, avrebbe cancellato le righe in cui parla dell'«alone di luce di quel pontificato di Leone XIII, che probabilmente passerà nella storia come l'ultimo bagliore di un sole tramontante».
Nel libro si parla del tentativo di conciliazione compiuto da padre Agostino Gemelli dopo la lettera inviata da Buonaiuti a Pio XI.
Nessun dubbio che padre Gemelli fosse l'uomo meno adatto per quel passo. Sinceramente, illimitatamente devoto alla Chiesa, la sua visione del bene di questa era antitetica a quella di Buonaiuti. Era un realizzatore, non pensava ad un trionfo della Chiesa che non fosse visibile, estrinsecantesi in istituti umani, non aveva ripugnanze per gli accordi ed anche le transazioni con Cesare.
Padre Gemelli mi raccontava un giorno di aver riferito a Pio XI dell'insuccesso della sua missione; e soggiungeva che il Papa si era commosso ed aveva detto: possa Dio essere più misericordioso di quel che a Noi non e consentito di essere.
Quanti credono nella vita futura, in una forma imperscrutabile ai nostri sensi umani, e ricordano quel che Buonaiuti fu, il suo amore per gli uomini tutti, il suo desiderio di bene, l'aiuto che diede a quanti trovo sulla sua strada ed avessero bisogno di lui, il suo costante anelito alla realizzazione della parola di Cristo – confidano ch'egli sia tra gli eletti.
Arturo Carlo Jemolo