Domenica sera, 11 maggio 2003: mi ritrovo a guardare alla giornata
trascorsa, a riflettere sulla celebrazione domenicale e ad ascoltare con paura
al TG gli inquietanti proclami di Berlusconi: "La sinistra non dovrà
mai andare al governo!". Ripenso al vangelo del giorno (il "Buon
Pastore", Gv. 10,11-18) e sfoglio una pagina di Repubblica che, con
un titolo cubitale, riporta una delirante affermazione dello stesso premier.
"La magistratura: un cancro da estirpare!"
Parola di Dio e misere parole di uomini: quale intreccio e quale punto
d'incontro trovare tra l'una e le altre se non nell'identità di un
Cristianesimo da collocare dentro un nucleo vitale di trascendenza e di storicità,
di annuncio del Regno e di denuncia delle sue distorsioni? Molte volte le
nostre assemblee liturgiche appaiono rifugi asettici dove ci si apparta una volta
la settimana per consumare un prodotto religioso, facendo di tutto, però,
perché queste virtuali oasi domenicali non si lascino sfiorare dal travaglio e
dalle contraddizioni del vivere quotidiano.
Mi permetto
brevemente di accostare, pur con molto disagio interiore e naturalmente con
tutte le inevitabili improprietà del discernimento, la liturgia domenicale
all'attuale pesantissima situazione di questi giorni, in cui infuria una
violenta campagna di Berlusconi contro i giudici, contro tutti coloro che
dissentono, contro i sempre più residui spazi di libertà nella TV, eccetera. Il
tutto, con l'arroganza di un uomo che, al grado massimo, concentra nelle sue
mani un immenso potere politico, mediatico ed economico.
Durante la messa di stamattina più volte ho rivolto l'invito: "La
pace sia con voi!", ad un'assemblea che, più o meno distratta,
rispondeva: "E con il tuo spirito"! Mi chiedo come siano state
percepite queste logorate formule rituali da un'assemblea composta da tanti (o
pochi?) berlusconiani. Mi chiedo anche che cosa questa "pace
liturgica" possa significare nel momento in cui la politica nazionale vive
una rissosità strumentalmente alimentata da una precisa parte politica nella
linea, eticamente molto scorretta, del "tanto peggio, tanto
meglio!".
Il fenomeno del
berlusconismo si presenta non solo come opzione di un partito ma anche come
particolare visione di vita che porta con sé una serie di elementi di carattere
sociale, culturale ed etico. Ultimamente, alcuni convulsi e inquietanti
interventi contro la giustizia e contro tutti coloro che dissentono dal
“pensiero unico”, promossi a tamburo battente da un signore che possiede o
controlla circa l’80-90% dell’informazione italiana, stanno logorando il sistema
istituzionale e democratico del paese.
Di fronte a
questa marea montante, che travolge giustizia e legalità, io chiedo
all’istituzione ecclesiale di dare un orientamento sui valori, all’interno di
un contesto politico in cui sono in pericolo non solo le regole democratiche ma
anche i riferimenti etici sui quali la Chiesa stessa da sempre si è proposta
come Mater et Magistra.
Perché non
gridare fino in fondo l’indignazione a causa dello scempio di leggi fatte su
misura a beneficio di un singolo individuo, nel silenzio colpevole di un
cattolicesimo italiano che, in questo specifico caso, appare sordo, silente e
latitante?
“Guai a voi
che fate leggi ingiuste per opprimere il mio popolo. Così negate la giustizia
ai poveri e li private dei loro diritti; sottraete alle vedove e agli orfani i
loro beni!.. ”. Non sono affermazioni arrabbiate di qualche “toga rossa milanese” ma
di un grande uomo religioso, fedele a Dio e al suo popolo, vissuto circa 2.700
anni fa nell’antica Palestina, di nome Isaia e profeta per vocazione (Is.
10,1). Come vorremmo che questo “Guai a voi!”, a partire appunto dalla
Bibbia e dalla Dottrina sociale cristiana, ogni tanto risuonasse profeticamente
sulle pagine del quotidiano cattolico o di una lettera episcopale o di uno dei
tanti documenti CEI!
Perché il cattolicissimo Antonio Socci,
militante CL, nuovo astro emergente della Tv pubblica ed esperto in
anticomunismo viscerale e in apparizioni di madonne, “non dice qualcosa di
cattolico” quando l’etica civile è palesemente calpestata e spogliata?
Perché, se si vuole riascoltare il richiamo profetico di Isaia alla legalità,
bisogna, paradossalmente, chiedere soccorso alla cultura laica e ricorrere a
giornalisti come Eugenio Scalfari di Repubblica o Furio Colombo de l’Unità
oppure Paolo Flores d’Arcais di Micromega e alcuni altri?…
Perché il quotidiano Avvenire, di
fronte ad un crescente imbarazzo di molti cattolici italiani per un degrado del
senso del bene comune e del senso delle istituzioni democratiche, ogni tanto
non rispolvera qualche pagina di famosi e datati documenti della Cei, del tipo:
“La chiesa italiana e le prospettive del paese” (1981), “Educare alla
legalità” (1991), “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” (2001)?…
Perché la Chiesa
italiana, la Mater et Magistra che io amo, oggi sembra stia diventando
una nuova “Chiesa del silenzio”? Non si tratta certamente del silenzio imposto, ad
esempio, dalla persecuzione nell’Europa comunista di qualche decennio fa, ma di
un altro silenzio. Un silenzio e una latitanza della gerarchia e di
cristiani che, come gli zelanti uomini del tempio nella parabole del “Buon
samaritano” (Luca 10, 25-37), sono portati a girare lo sguardo da un’altra
parte per non sentire le grida e non vedere le ferite dell’uomo disteso lungo
la strada che da Gerusalemme porta a Gerico.
Evidentemente non
si chiede alla Chiesa di interferire nella politica nazionale ma solo di
annunciare ed eventualmente denunciare, cioè essere educatrice libera di
coscienze libere.
Durante il
ventennio fascista la gente se voleva lavorare doveva adeguarsi al progetto del
Partito Nazionale Fascista. La stragrande maggioranza degli italiani si adeguò,
accettando perfino la guerra coloniale del 1935 e le leggi razziali del 1938.
La chiesa stessa, di fronte a quelle due vergogne nazionali, mantenne purtroppo
un colpevole silenzio. Certamente, in quegli anni, non fu solo la chiesa a
rimanere in silenzio ma anche gran parte del mondo della cultura. Ad esempio, solo dodici docenti
universitari, su diverse centinaia, si ribellarono al “pensiero unico”
fascista.
Oggi, in un
contesto politico-culturale certamente molto diverso, sta crescendo un assopimento
etico che fa paura e che qualcuno chiama “dittatura morbida”. I
circa otto milioni di telespettatori, che per alcuni mesi hanno guardato tutti
i giorni “Grande Fratello”, un programma trash e becero costruito sul nulla,
in questo senso rappresentano un segnale allarmante che mette i brividi.
Un famoso scrittore
tedesco (B. Brecht), subito dopo l’orrore nazista del secondo conflitto
mondiale, scrisse: “Il sonno della ragione genera mostri!”. Per evitare
questa terribile e non impossibile eventualità si tratta di trovare spazi di
nuova pacifica “resistenza”, per tenere sveglia una coscienza etica e civile,
senza rassegnarsi.
Dietrich Bonhoeffer,
uno dei profeti del secolo XX, giustiziato dai nazisti a Flossemburg il 9
aprile del 1944, poco prima di morire scriveva dal carcere: “Disteso sul
tavolaccio fisso la parete grigia. Fuori, un mattino d’estate, ancora non mio,
esultando va verso la campagna. Fratelli, finché non giunge, dopo la lunga
notte, il nostro giorno, resistiamo”.
don Giorgio Morlin – Parroco
Parrocchia
di Mazzocco, Cuore Immacolato di Maria
Via Ronzinella, 224 – 31021 Mogliano Veneto (Tv)
Cari vescovi, perché
tanto silenzio sull’Italia?
L'onorevole Franco Monaco, vice-capogruppo della Margherita alla
Camera dei Deputati, ex presidente dell'Azione Cattolica di Milano nonché
autore della nostra rubrica Città dell'uomo, ci ha inviato questa lettera
aperta ai vescovi italiani, che volentieri pubblichiamo.
Le riflessioni di Monaco toccano alcuni punti fondamentali del dibattito
sociale e politico italiano. Nel prossimo numero, Jesus aprirà le sue pagine a
una serie di autorevoli ospiti per proseguire la discussione sul tema
Caro Padre, col rispetto che si deve a chi è pastore e guida della comunità cristiana e, insieme, con la sollecitudine e la passione che umilmente nutro per la Chiesa e la sua missione, cui insieme siamo chiamati nel segno di una comune, responsabile partecipazione, sento il dovere di metterla, a parte di una viva preoccupazione. Essa verte sulla condizione e sulla sorte del nostro Paese.
L'Italia sta attraversando una stagione singolarmente critica. Ansietà,
conflitti, divisioni, incertezza sul futuro dominano gli animi. In ispecie,
registro cinque punti di sofferenza che interpellano la nostra comune
responsabilità.
1) - Il principio-valore della legalità, già storicamente fragile nella
coscienza collettiva italiana, è oggetto, come mai in passato, di dispregio e
persino di aperte, sistematiche violazioni da parte di settori cospicui della
classe dirìgente. Come non rammentare che, nel 1991, la Cei levò la sua
profetica voce per ammonire ad "educare alla legalità"? Si trascurino
pure le leggi ad personam (Cirami, rogatone, Lodo Schifani), ma si considerino
leggi quali il falso in bilancio, il rientro superagevolato dei grandi capitali
illecitamente esportati, le sanatorie e i condoni di vana specie. Tutte
misure che veicolano un messaggio devastante: violare le leggi è possibile, non
è un gran problema, anzi fare i furbi a danno della comunità è conveniente.
Eppure, da sempre e giustamente, la Chiesaha cura di distinguere tra ciò che,
pur legale, è tuttavia illecito e pone l'accento sulla valenza culturale ed
educativa della legge, sul messaggio che essa incorpora e trasmette.
2) - Secondo fronte crìtico: una lacerante divisione tra le istituzioni,
tra gli attori politici, tra le forze sociali. Un conflitto endemico che lacera
il tessuto sociale e intacca in radice gli stessi principi-valori costituzionali
e democratici.
3) - Terzo: una vistosa discontinuità nel ruolo e nell'azione dell'Italia
nello scenario intemazionale. Dal depotenziamento del suo storico europeismo,
cui non era estranea l'ispirazione cristiana dei "padri", al
principio internazionalista e della pace, con il fermo ripudio della guerra,
scolpito dai costituenti nell'ari. 11 della nostra Carta fondamentale.
4) - In quarto luogo, la dilagante "religione del mercato",
il pensiero unico, l'approccio aziendalistico ai problemi e ai bisogni delle
persone e delle comunità, mettono a rischio i diritti sociali dei soggetti più
deboli, generano smagliature nella rete di sicurezza sociale, mettono in discussione
l'idea stessa del carattere universalistico dei diritti di cittadinanza.
5) - Infine, la comunicazione e la cultura di massa. La concentrazione
patologica del potere mediatico in poche mani, fuori da ogni regola posta a
presidio dell'interesse generale e tutta informata all'imperativo dell'audience
e della pubblicità, rappresenta non solo un problema per libertà, pluralismo,
democrazia, ma anche un decisivo fattore di degrado morale e del costume, cui
la comunità cristiana - un tempo sensibilissima - oggi sembra acconciarsi con
colpevole rassegnazione.
Difficile tacere la circostanza che questi "punti di
sofferenza" siano riconducibili a precise, imputabili responsabilità politiche.
Con i loro nomi e cognomi. È ingeneroso notare un certo silenzio delle nostre
Chiese su sfide di tale portata? Un vistoso deficit nell'esercizio di una indeclinabile
responsabilità nell'opera di discernimento e di illumi-nazione delle coscienze?
Qua e là fa capolino un disagio diffuso, ma esso non prende forma, non
prende parola in pubblico. Né si può confondere la doverosa alterità,
l'irrinunciabile spirito universalistico della Chiesa, per natura e per
missione al di sopra delle parti politiche, con l'ossessione dell'equidistanza,
con l'accidia, con una equivoca neutralità rispetto a principi-valori umani e
cristiani non negoziabili.
In passato, in frangenti meno drammatici di questi, si sono levate alte e forti le voci di coscienze cristiane limpide e illuminate, da Lazzati a Dossetti. Ma non sono mancati moniti da parte degli stessi pastori. A mio modesto avviso, l'urgenza dell'ora ci chiede di "mettere fuori la faccia", di non cedere alla paralizzante ossessione di non essere percepiti come uomini "di parte". Perché, dentro un'emergenza, "starsene fuori" può corrispondere al massimo di appiattimento sulla parte che porta la responsabilità di quell'emergenza.
Mi
permetto di porre il problema, con animo filiale, dunque con umiltà ma, insieme,
col senso di responsabilità che è prescrìtto dall'amore che portiamo alla
Chiesa e al nostro Paese. Perché mi è chiara la distinzione dei compiti e delle
responsabilità sia tra la Chiesa e la comunità politica, sia, dentro la
comunità cristiana, tra pastorì e laici. Ma quando - come, a mio avviso,
manifestamente in questo caso - sono minacciati prìncipi-valori essenziali,
di natura etica, della convivenza, in passato i pastori non si sono sottratti
al dovere di orientare, ammonire, correggere. Perché la sorte della città
dell'uomo, i diritti fondamentali delle persone e della comunità sono parte
integrante della missione della Chiesa. E l'ora lo prescrìve tanto più, in
quanto si tratta di minacce abilmente mascherate che più facilmente fanno
breccia in coscienze distratte o assopite.
Questo sentivo e sento il dovere di parteciparle, con animo rìspettoso e filiale, privo di ogni sottinteso polemico, disponibile a correggermi se sto sbagliando
IL
MONASTERO DI BOSE E’:
- una
comunità monastica di uomini e donne provenienti da chiese cristiane diverse.
- una
comunità monastica in ricerca di Dio nel celibato, nella comunione fraterna e
nell’obbedienza all’evangelo.
- una
comunità monastica presente nella compagnia degli uomini e al loro servizio.
Scriveva il 1° gennaio del 1970 padre
Ernesto Balducci, nel suo Diario dell’esodo:
Su di una
collina, nei pressi di Biella, un gruppo di cristiani di diversa confessione ha
occupato, da due anni, le poche casupole lasciate vuote dal piccolo nucleo di
abitanti migrati in città. Sono case per modo di dire: il vento fischia tra le
fessure e la nebbia che le avvolge sembra quasi dipanarle e portarsele via. Non
c’è nemmeno la luce elettrica. C’è la fede paradossale di questi amici
che si propongono di preparare, in assoluta povertà, il cristianesimo di domani – (VEDI IL SITO INTERNET: http://www-1.monasterodibose.it/)
È
il fascino di un cristianesimo visto innanzitutto come cultura di un popolo,
addirittura di un’identità nazionale, che assicura il ricompattarsi della
società e che si ammanta di evidenti risultati culturali: una presenza
cristiana che inevitabilmente apparirà sempre più come declinazione
dell’equazione “cristianesimo uguale occidente”. Va riconosciuto che
oggi la politica avverte il bisogno di utilizzare il codice religioso e
pertanto è pronta al riconoscimento dell’utilità sociale della religione. Ma
è un atteggiamento estraneo in radice alla tradizione cattolica: si
configura piuttosto come la deriva di un certo protestantesimo settario e
fondamentalista (non il protestantesimo della Riforma!) – curiosamente, però,
annovera tra i suoi sostenitori quanti accusano il Vaticano II di aver
“protestantizzato” la chiesa! – eppure viene incoraggiato, forse per nostalgia
di una riedizione del mito della cristianità, e salutato come necessario per la
nostra società sempre più frammentata e smarrita. C’è una richiesta –
soprattutto da parte di quanti, politici o intellettuali, in massima parte
estranei alla vita cristiana, ritengono di dover guidare le trasformazioni – di
poter disporre dei cosiddetti valori cristiani come di una sorta di “vaso degli
dèi” cui attingere per mantenere in buona salute la società, per darle unità di
fronte ai pericoli esterni, per fornire coesione e ragioni trascendenti di
fronte al nemico che si profila all’orizzonte o che viene creato! E così la
chiesa viene ridotta a una potente lobby etico-sociale. E l’invito
rivoltole in questo senso da intellettuali non cristiani trova purtroppo accoglienza
favorevole anche da parte di autorevoli ecclesiastici che desiderano apprestare
una chiesa forte, massicciamente visibile e presente negli spazi lasciati vuoti
dal crollo delle ideologie, una chiesa che sappia essere forza di pressione in
società dove pure è diventata numericamente minoranza. Non dicono nulla in
questo senso i risultati di una seria inchiesta sociologica da cui emerge che l’80%
degli italiani si dichiara cattolico e solo il 40% afferma di credere nella
risurrezione di Gesù Cristo? Così la chiesa è applaudita, riconosciuta e, a
volte, perfino ricompensata da Cesare per il bene che fa, per il cemento etico
che appresta a una società disgregata, ma la comunità dei discepoli di Gesù
resta incapace di essere profezia e si identifica sempre più con l’occidente
ricco e potente. Cedere a questa tentazione significherebbe svuotare la
debolezza e la povertà della “parola della croce”, svuotare di ogni forza che
viene da Dio l’annuncio dell’evangelo. Purtroppo, come denunciava alla
vigilia della sua morte Giuseppe Dossetti, oggi
sono aumentati “quanti pensano che la fede non possa sostenersi senza
l’appoggio dei poteri, senza politiche culturali, senza organicità sociale che
la presidi e la difenda”, senza, insomma, diventare civiltà cristiana,
“religione civile”. Che tristezza, nei giorni scorsi, la misère del
dibattito sul crocifisso ridotto a simbolo ed emblema della cultura nazionale; che
tristezza la collusione tra religione e nazione durante il lutto e il dolore
per le povere vittime italiane barbaramente uccise in Iraq. Sembra che
molti cristiani non sappiano essere cittadini leali e responsabili nella polis
e nel contempo appartenenti a quella patria che è nei cieli (Fil 3,20), che non
sappiano dare a Cesare quel che è di Cesare e lo vogliano dare a Dio.
È
questo l’ineluttabile futuro che attende il cristianesimo? Crediamo stia a ciascuno
di noi rispondere aprendo altre prospettive. Certo, qualcosa conosce
inesorabilmente la fine, qualcosa muore e non sappiamo fin dove questa morte
scende in noi: è la fine di un sistema religioso, legato all’età moderna
dell’occidente da un rapporto di interdipendenza. Ma con questa morte si arriva
come a un bivio e la strada che ci attende dipende in massima parte da noi.
Allora l’interrogativo brutale – “Cristo ha un futuro?” – rimane, ma
assume i connotati di una domanda ricca di speranza: in questo luogo di un
nuovo inizio, in questa sorta di ground zero, l’evangelo, secondo le parole del
cristiano Maurice Bellet, “può davvero apparire come evangelo, cioè la parola
inaugurale che apre lo spazio di vita? Il paradosso è grande, perché l’evangelo
è vecchio... Ma forse il tempo delle cose capitali non è retto dalla
cronologia; forse la ripetizione può essere ripetizione dell’inaudito, così
come, dopo tutto, ogni nascita di un uomo è una ripetizione banale e, ogni
volta, l’inaudito”.
Restiamo convinti che un cristianesimo che sappia rinunciare a ogni
forma di potere diverso dalla Parola disarmata, che faccia prevalere la
compassione sulla legge, che riesca a parlare al cuore di ogni uomo facendogli
intravedere che la morte non è l’ultima parola, potrà essere un canto, una voce
sempre più ascoltata. Ma questo richiede che i cristiani si esercitino a essere
quelle “sentinelle della libertà, della giustizia e della pace” che Giovanni
Paolo II ha più volte evocato nella sua chiaroveggenza sul futuro del cristianesimo
nel mondo. Certo, non va percorsa la strada di quanti, nella loro
fede incerta, si aggrappano a false certezze, ricercano un’identità
cristiana contro altre vie religiose, sperano in forti mobilitazioni e
preferiscono annunciare una babele prossima ventura dovuta all’incontro e al
dialogo delle religioni, piuttosto che operare affinché ci sia una nuova pentecoste
in cui lo Spirito santo porta comunione tra lingue e culture diverse.
Sì,
in un mondo e in una società in cui, quando si ripete che “nulla sarà più come
prima” e che si vedranno “scenari mai visti”, sempre ci si riferisce a eventi
tragici, a tragedie immani, a un dispiegarsi di forze di morte, forse c’è
ancora posto per un cristianesimo che sappia ripresentare l’inaudito di una
buona notizia, l’inatteso ritrovamento di un senso non solo per le singole vite
ma per la stessa convivenza civile, forse c’è ancora spazio per cristiani liberati
dalle paure e aperti a una speranza per tutti. Perché il Signore è venuto,
viene e tornerà per tutti!
Buon
Natale a tutti!
IL MONASTERO DI BOSE
Bartolomeo Sorge S.I.: Il silenzio dei vescovi
sull’Italia – da “Aggiornamenti sociali” - Editoriale - marzo 2004
Non c’è
dubbio che alla base della Chiesa italiana vi sia un certo malessere per il
silenzio dei vescovi sulla grave situazione del Paese. Di quando in quando
questo disagio è affiorato sulle pagine dei giornali, finché ultimamente è esploso
anche sulla stampa cattolica. Nel numero di ottobre 2003 di Jesus, il mensile
di cultura e attualità edito dai Periodici San Paolo, è apparsa una lettera
aperta dell’on. Franco Monaco, già presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana
dal 1986 al 1992 e attualmente vice-capogruppo della Margherita alla Camera dei
Deputati: «Cari vescovi, perché tanto silenzio sull’Italia?»(Jesus, 10
[2003] 6 s.).
Dando voce
a uno stato d’animo diffuso, Franco Monaco evidenzia «cinque punti di
sofferenza» che rendono critica la situazione attuale del Paese, ne rendono
incerto il futuro e, proprio per questo, esigerebbero una chiara parola dei
vescovi. Questi «punti» sono: il disprezzo aperto della legalità; il rischio di
un conflitto senza sbocco tra istituzioni e parti sociali; il venir meno del
ruolo europeista e di promozione della pace che l’Italia finora ha sempre
svolto; l’egemonia del «pensiero unico» neoliberista, cioè di una visione
puramente mercantile della politica; la concentrazione patologica dei mass
media e dell’informazione in poche mani. Perché su questi punti i vescovi
tacciono? Nessuno chiede loro di darne un giudizio politico, che spetta al
laicato, ma una chiara valutazione etica. Ai vescovi si chiede cioè che
illuminino le coscienze sia dei politici, sia dei fedeli affinché le riforme
necessarie si compiano in modo responsabile, nel rispetto dei valori etici e
del bene comune. Ciò è tanto più importante oggi, quando chi governa non cessa
di ripetere che vuole «cambiare il Paese». Nulla da dire sul come?
Per
comprendere il senso del dibattito, occorre chiarirne gli elementi principali: 1)
il silenzio dei vescovi oggi; 2) i loro insegnamenti di ieri; 3) il ruolo del
laicato.
1. Il silenzio dei vescovi oggi.
Tutti
sappiamo come, alla vigilia delle consultazioni elettorali, giungesse
immancabile e puntuale il comunicato dei vescovi per ricordare ai cattolici il
grave dovere di andare a votare, di votare «bene» e di votare «uniti». Gli interventi
della CEI cominciarono a rarefarsi sotto i pontificati di Giovanni XXIII e di
Paolo VI. In seguito si fecero sempre più radi e sfumati, a misura che cresceva
di intensità e di visibilità il servizio apostolico di Giovanni Paolo II.
Finché si finì col lasciare praticamente al Papa il compito di intervenire. Ciò
apparve in modo evidente al Convegno ecclesiale di Loreto (1985), quando fu
Giovanni Paolo II (e non i vescovi) a richiamare i cattolici italiani alla
storia del Paese e a esortarli a rimanere fedeli all’«impegno unitario» in
politica (cfr L’Osservatore Romano, 12 aprile 1985, n. 8). Dopo di allora, il
Papa intervenne più volte sull’impegno sociale dei cattolici italiani, affrontando
il tema perfino in una lettera scritta ad hoc ai vescovi («Le responsabilità
dei cattolici di fronte alle sfide dell’attuale momento storico», in
L’Osservatore Romano, 13 gennaio 1994).
Solamente
nel 1995, in occasione del Convegno ecclesiale di Palermo, furono dette —
ancora una volta dal Papa — le parole che molti avrebbero desiderato ascoltare
dai vescovi qualche anno prima, quando l’unità dei cattolici nella DC già era
divenuta anacronistica sia sul piano storico (a causa delle trasformazioni avvenute
nel Paese), sia sul piano teologico (dopo le acquisizioni teologiche e
pastorali del Concilio Vaticano II). «La Chiesa — disse Giovanni Paolo II a
Palermo — non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento
politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o per
l’altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa
dell’autentica democrazia» («Allocuzione ai Convegnisti», in L’Osservatore
Romano, 24 novembre 1995, n. 10). Con queste parole il Papa di per sé richiamò
un principio generale, universalmente valido; tuttavia quel monito autorevole,
rivolto direttamente alla Chiesa italiana dopo 50 anni di «collateralismo» con
la DC, assumeva evidentemente un significato particolare. Si trattava, dunque,
di applicare alla mutata situazione del Paese il principio generale enunciato
dal Papa. A Palermo però nessuno ci provò. Ci si limitò a ripetere le sue
parole, senza fare commenti. Fu il card. Martini — qualche giorno dopo — a
intervenire sul silenzio dei vescovi, richiamandosi appunto al monito del Papa.
Il 6 dicembre 1995, nel discorso di sant’Ambrogio (C’è un tempo per tacere e un
tempo per parlare), disse testualmente: «la Chiesa non deve tacere perché [in
Italia] è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come
tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della
democrazia». E il Cardinale indicò esplicitamente i principali pericoli che la
democrazia oggi corre nel nostro Paese, di fronte ai quali — ribadì — i vescovi
non possono tacere. La Chiesa — esemplificò il Cardinale — non può rimanere
neutrale o muta nei confronti di una cultura politica che contesta la funzione
dello Stato nella tutela dei più deboli; nei confronti di una logica
decisionistica che cerca di estorcere il consenso per via plebiscitaria;
dinanzi al diffondersi di un liberismo utilitaristico che fa del profitto, della
efficienza e della competitività un fine, a cui subordina le ragioni della
solidarietà; in presenza di una politica che si rifà a una logica conflittuale
inaccettabile, secondo cui chi vince piglia tutto e chi perde è solo un nemico
da eliminare (cfr MARTINI C. M., «Chiesa e comunità politica», in Aggiornamenti
Sociali, 2 [1996] 170).
Quel
discorso dell’Arcivescovo di Milano è un chiaro esempio di come, senza
compromettersi in scelte di parte, estranee alla loro missione religiosa, i
vescovi devono e possono intervenire a formare la coscienza dei fedeli, esprimendo
un giudizio morale sui «punti di sofferenza» della democrazia nel nostro Paese.
«Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio — concludeva il
Cardinale — e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza.
Non basta dire che non si è né l’uno né l’altro, per essere a posto; non è
lecito pensare di poter scegliere indifferentemente, al momento opportuno,
l’uno o l’altro a seconda dei vantaggi che vengono offerti. È questo un tempo
in cui occorre aiutare a discernere la qualità morale insita non solo nelle
singole scelte politiche, bensì anche nel modo generale di farle e nella
concezione dell’agire politico che esse implicano. Non è in gioco la libertà
della Chiesa, è in gioco la libertà dell’uomo; non è in gioco il futuro della
Chiesa, è in gioco il futuro della democrazia» (ivi, 171).Certo, giustamente i
vescovi si preoccupano di mantenersi equidistanti da ogni schieramento
politico, non solo perché ciò è richiesto dalla natura religiosa della loro missione,
ma anche per evitare che il pluralismo dei cattolici, legittimo in politica,
produca lacerazioni e divisioni nella vita della comunità ecclesiale. Tuttavia,
la necessaria equidistanza dagli schieramenti partitici non significa
neutralità di fronte alle implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi
politici. Infatti, il silenzio in tal caso potrebbe indurre i fedeli a credere
che tutti i modelli di società, per il solo fatto di essere formalmente
«democratici», si equivalgano e che i cristiani possano indifferentemente
aderire all’uno o all’altro, purché si comportino con coerenza di fronte alle
singole scelte. Ora, le cose non stanno così. La coerenza dell’agire cristiano
non riguarda soltanto il comportamento personale di fronte alle singole scelte;
il cristiano dovrà anche interrogarsi sulla coerenza oggettiva di un progetto
politico, preso nel suo insieme. Infatti, — disse Giovanni Paolo II a Palermo —
non si può «ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede», né
si può dare «una facile adesione a forze politiche o sociali che si oppongano,
o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della Dottrina sociale della
Chiesa» («Allocuzione ai Convegnisti», cit., 10).
Dunque,
oggi, il rimanere in silenzio di fronte alla gravità della situazione italiana
non appare motivato. I vescovi non possono esimersi dall’illuminare le
coscienze dei fedeli sulla coerenza o meno con la Dottrina sociale della Chiesa
dei programmi politici che nel Paese si confrontano. È sempre valido
l’ammonimento di san Gregorio Magno: come «un discorso imprudente trascina
nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro
che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il
favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto» (in Regola
pastorale, Lib. 2, 4; PL 77, 30).
2. Gli insegnamenti di ieri.
Mentre si
avverte il peso del silenzio di oggi, è opportuno però richiamare i numerosi
interventi passati della CEI sulla situazione italiana. Alcuni di essi,
nonostante risalgano a vari anni fa, mantengono una straordinaria attualità. Perciò,
bisogna riconoscere che il silenzio dei vescovi, in ogni caso, è relativo. Come
non ricordare — per esempio — il documento del Consiglio Permanente della CEI:
La Chiesa italiana e le prospettive del Paese (23 ottobre 1981), quello firmato
dall’intero episcopato italiano su Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana
e Mezzogiorno (18 ottobre 1989) o il messaggio della Presidenza della CEI sulla
Presenza unita dei cristiani nella vita sociale e politica (30 giugno 1993)?
Soprattutto
appare di straordinaria attualità la Nota pastorale della Commissione
ecclesiale «Giustizia e Pace»: Educare alla legalità, del 4 ottobre 1991. Si
direbbe scritta oggi. Dopo aver richiamato sommariamente le ragioni della crisi
della politica italiana (n. 7), la Nota denuncia i pericoli che la democrazia
corre nel nostro Paese, a motivo della perdita di tensione etica. Il primo
rischio — essa afferma — è che «le leggi, che dovrebbero nascere come
espressione di giustizia, e dunque di difesa e di promozione dei diritti della
persona, e da una superiore sintesi degli interessi comuni», a causa del
prevalere di poteri e interessi forti, finiscano col trasformarsi in «leggi
“particolaristiche” (cioè in favore di qualcuno)» (n. 8). Come non pensare
all’abuso al quale oggi assistiamo, da parte di chi ha il potere, di emanare
leggi destinate chiaramente a tutelare interessi particolari (o addirittura
personali) del leader e dei suoi sostenitori?
In secondo
luogo, la Nota denuncia il pericolo che la democrazia in Italia degeneri in
«populismo», per cui «il parlamento corre il rischio di essere ridotto a
strumento di semplice ratifica di intese realizzate al suo esterno, con il
conseguente impoverimento della funzione delle assemblee legislative» (ivi). È
esattamente quanto sta accadendo oggi. Come non pensare alla presente
delegittimazione dell’attività parlamentare (spesso bloccata da disegni di
legge blindati e sottratti al necessario dibattito), e anche di altre
fondamentali istituzioni dello Stato, in seguito ai continui attacchi alla Magistratura,
alla Corte costituzionale, alla stessa Presidenza della Repubblica? E che dire
della delegittimazione di altre essenziali forme di rappresentanza democratica,
come nel caso dei sindacati?
Infine, la
Nota punta il dito contro una classe politica che, «con il suo frequente
ricorso alle amnistie e ai condoni, […] annulla reati e sanzioni e favorisce
nei cittadini l’opinione che si possa disobbedire alle leggi dello Stato. Chi
si è invece comportato in maniera onesta può sentirsi giudicato poco accorto
per non aver fatto il proprio comodo come gli altri, che vedono impunita o
persino premiata la loro trasgressione della legge» (n. 9). Come non pensare a
quanto accade oggi, quando l’attuale classe dirigente si serve del potere
legislativo per sottrarsi alla giustizia, emanando leggi ad hoc per garantirsi
l’immunità (come la legge che depenalizza il falso in bilancio e il «lodo
Schifani» per sospendere i processi alle più alte cariche dello Stato)? Quale
senso della legalità e dello Stato si potrà mai diffondere nel Paese, di fronte
a simili comportamenti della classe politica?
Perché non
richiamare quegli insegnamenti, oggi che le storture allora denunciate si sono
ulteriormente accentuate, come già fece la Commissione ecclesiale «Giustizia e
Pace» in occasione di Tangentopoli, con la Nota: Legalità, giustizia e
moralità, del 20 dicembre 1993? Il silenzio sui «punti di sofferenza» appare
dunque inspiegabile ed è difficile controbattere a quanti avanzano il sospetto
che la profezia sia frenata dalla diplomazia, cioè dalla speranza di
vantaggiose contropartite per il bene della comunità ecclesiale e in difesa di
alcuni valori etici (si tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei
finanziamenti agli oratori o dei buoni-famiglia).
3. Il ruolo del laicato.
In ogni
caso, anche nell’ipotesi che i vescovi escano dalla loro afasia, ben poco
servirebbero le loro parole senza la presenza in Italia di un laicato
consapevole delle proprie responsabilità. Gli stessi laici, mentre giustamente
chiedono ai Pastori di non tacere di fronte ai gravi interrogativi suscitati
dell’attuale situazione del Paese, si interroghino però seriamente per vedere
che cosa essi stessi possono e devono fare. Infatti — spiega il Concilio
Vaticano II — dai loro Pastori «i laici si aspettino luce e forza spirituale.
Non si aspettino, però, che i loro Pastori siano sempre esperti a tal punto
che, a ogni nuovo problema, anche a quelli più gravi, possano avere pronta una
soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano
invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza
cristiana e prestando fedele attenzione alla dottrina del Magistero» (Gaudium
et spes, n. 43).
In altre
parole, l’orientamento dei Pastori è sì necessario, ma non potrà mai supplire
alla mancanza di maturità spirituale e di competenza professionale dei laici
impegnati in politica. Dopo oltre cent’anni di Dottrina sociale della Chiesa e
dopo oltre cinquant’anni di vita democratica in Italia, non dovrebbe essere
difficile distinguere un programma politico dall’altro, coglierne la differente
ispirazione ideale e le implicazioni etiche, giudicarne la consonanza o meno
con gli ideali cristiani.
D’altra
parte, i criteri fondamentali dell’agire cristiano in politica dovrebbero
essere noti a tutti. Non è certamente necessario che i vescovi ribadiscano la
legittimità del pluralismo politico dei cattolici, dopo che Paolo VI —
rifacendosi al Concilio Vaticano II — ha insegnato a chiare lettere che «nelle
situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno,
bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima
fede cristiana può condurre a impegni diversi» (Lettera apostolica Octogesima
adveniens, n. 50). Parimenti, i fedeli laici dovrebbero sapere bene che
pluralismo non è sinonimo di indifferentismo; che i diversi programmi politici
non si equivalgono; che l’ispirazione cristiana non funge solo da coscienza
critica, respingendo quanto vi può essere di negativo in una cultura politica o
in un programma di partito, ma funge soprattutto da stimolo propositivo e
creativo, spingendo cioè alla realizzazione di una società ispirata alla
visione cristiana della vita e della storia.
Applicando
questi criteri alla situazione italiana di oggi, i fedeli laici responsabili
possono già da soli trarne le conclusioni operative. Non c’è dubbio, invece,
che sia necessario un chiarimento da parte dei vescovi sulle implicazioni
etiche e sociali delle filosofie politiche dei due poli. Di fronte al dilagare
della cultura neoliberista (che è all’origine dei «punti di sofferenza»
ricordati all’inizio), come esimersi dallo spiegare le ragioni per cui essa è
lontana dall’insegnamento sociale della Chiesa? Perché tacere sulla
responsabilità morale e storica di quei cattolici che, pur soffrendo e
sforzandosi di «migliorare» leggi che sono in contrasto con la cultura
cristiana, finiscono poi col votare il programma neoliberista, contribuendo
così a costruire un modello di società, non solo difforme dalla Dottrina
sociale della Chiesa, ma incapace di risolvere i problemi di una Italia «a due
velocità», perché fa ricadere sui più deboli il peso maggiore di riforme
destinate a premiare i più forti? I dati più recenti dimostrano che non si
tratta affatto di un pregiudizio dei «comunisti», come si vuole far credere.
Secondo l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes, le famiglie italiane che non ce
la fanno ad arrivare alla fine del mese, un anno fa erano il 38,7%, oggi sono
il 51,2%.
Perché,
infine, i vescovi non intervengono a sostenere tanti fedeli laici impegnati
(anche attraverso significative esperienze di formazione sociale e politica) a
trovare una forma nuova di presenza adeguata alle sfide attuali, senza
rimpianti per il passato, per edificare insieme con tutti i «liberi e forti» una
democrazia compiuta? In conclusione, il dibattito sul silenzio dei vescovi,
affrontato nei suoi veri termini, non solo non è irrispettoso, ma anzi può
risultare proficuo e può suscitare quel soprassalto di coraggio evangelico di
cui oggi ha bisogno tutta la Chiesa italiana, Pastori e laici insieme.
Bartolomeo Sorge S.I
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