Riti, berlusconismo, cattolicesimo e tanti perché

 


Domenica sera, 11 maggio 2003: mi ritrovo a guardare alla giornata trascorsa, a riflettere sulla celebrazione domenicale e ad ascoltare con paura al TG gli inquietanti proclami di Berlusconi: "La sinistra non dovrà mai andare al governo!". Ripenso al vangelo del giorno (il "Buon Pastore", Gv. 10,11-18) e sfoglio una pagina di Repubblica che, con un titolo cubitale, riporta una delirante affermazione dello stesso premier. "La magistratura: un cancro da estirpare!"

Parola di Dio e misere parole di uomini: quale intreccio e quale punto d'incontro trovare tra l'una e le altre se non nell'identità di un Cristianesimo da collocare dentro un nucleo vitale di trascendenza e di storicità, di annuncio del Regno e di denuncia delle sue distorsioni? Molte volte le nostre assemblee liturgiche appaiono rifugi asettici dove ci si apparta una volta la settimana per consumare un prodotto religioso, facendo di tutto, però, perché queste virtuali oasi domenicali non si lascino sfiorare dal travaglio e dalle contraddizioni del vivere quotidiano.

Mi permetto brevemente di accostare, pur con molto disagio interiore e naturalmente con tutte le inevitabili improprietà del discernimento, la liturgia domenicale all'attuale pesantissima situazione di questi giorni, in cui infuria una violenta campagna di Berlusconi contro i giudici, contro tutti coloro che dissentono, contro i sempre più residui spazi di libertà nella TV, eccetera. Il tutto, con l'arroganza di un uomo che, al grado massimo, concentra nelle sue mani un immenso potere politico, mediatico ed economico.

Durante la messa di stamattina più volte ho rivolto l'invito: "La pace sia con voi!", ad un'assemblea che, più o meno distratta, rispondeva: "E con il tuo spirito"! Mi chiedo come siano state percepite queste logorate formule rituali da un'assemblea composta da tanti (o pochi?) berlusconiani. Mi chiedo anche che cosa questa "pace liturgica" possa significare nel momento in cui la politica nazionale vive una rissosità strumentalmente alimentata da una precisa parte politica nella linea, eticamente molto scorretta, del "tanto peggio, tanto meglio!".

Il fenomeno del berlusconismo si presenta non solo come opzione di un partito ma anche come particolare visione di vita che porta con sé una serie di elementi di carattere sociale, culturale ed etico. Ultimamente, alcuni convulsi e inquietanti interventi contro la giustizia e contro tutti coloro che dissentono dal “pensiero unico”, promossi a tamburo battente da un signore che possiede o controlla circa l’80-90% dell’informazione italiana, stanno logorando il sistema istituzionale e democratico del paese.

Di fronte a questa marea montante, che travolge giustizia e legalità, io chiedo all’istituzione ecclesiale di dare un orientamento sui valori, all’interno di un contesto politico in cui sono in pericolo non solo le regole democratiche ma anche i riferimenti etici sui quali la Chiesa stessa da sempre si è proposta come Mater et Magistra.

Perché non gridare fino in fondo l’indignazione a causa dello scempio di leggi fatte su misura a beneficio di un singolo individuo, nel silenzio colpevole di un cattolicesimo italiano che, in questo specifico caso, appare sordo, silente e latitante?

“Guai a voi che fate leggi ingiuste per opprimere il mio popolo. Così negate la giustizia ai poveri e li private dei loro diritti; sottraete alle vedove e agli orfani i loro beni!.. ”. Non sono affermazioni arrabbiate di qualche “toga rossa milanese” ma di un grande uomo religioso, fedele a Dio e al suo popolo, vissuto circa 2.700 anni fa nell’antica Palestina, di nome Isaia e profeta per vocazione (Is. 10,1). Come vorremmo che questo “Guai a voi!”, a partire appunto dalla Bibbia e dalla Dottrina sociale cristiana, ogni tanto risuonasse profeticamente sulle pagine del quotidiano cattolico o di una lettera episcopale o di uno dei tanti documenti CEI!

Perché il cattolicissimo Antonio Socci, militante CL, nuovo astro emergente della Tv pubblica ed esperto in anticomunismo viscerale e in apparizioni di madonne, “non dice qualcosa di cattolico” quando l’etica civile è palesemente calpestata e spogliata? Perché, se si vuole riascoltare il richiamo profetico di Isaia alla legalità, bisogna, paradossalmente, chiedere soccorso alla cultura laica e ricorrere a giornalisti come Eugenio Scalfari di Repubblica o Furio Colombo de l’Unità oppure Paolo Flores d’Arcais di Micromega e alcuni altri?…

Perché il quotidiano Avvenire, di fronte ad un crescente imbarazzo di molti cattolici italiani per un degrado del senso del bene comune e del senso delle istituzioni democratiche, ogni tanto non rispolvera qualche pagina di famosi e datati documenti della Cei, del tipo: “La chiesa italiana e le prospettive del paese” (1981), “Educare alla legalità” (1991), “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” (2001)?…

Perché la Chiesa italiana, la Mater et Magistra che io amo, oggi sembra stia diventando una nuova “Chiesa del silenzio”? Non si tratta certamente del silenzio imposto, ad esempio, dalla persecuzione nell’Europa comunista di qualche decennio fa, ma di un altro silenzio. Un silenzio e una latitanza della gerarchia e di cristiani che, come gli zelanti uomini del tempio nella parabole del “Buon samaritano” (Luca 10, 25-37), sono portati a girare lo sguardo da un’altra parte per non sentire le grida e non vedere le ferite dell’uomo disteso lungo la strada che da Gerusalemme porta a Gerico.

Evidentemente non si chiede alla Chiesa di interferire nella politica nazionale ma solo di annunciare ed eventualmente denunciare, cioè essere educatrice libera di coscienze libere.

Durante il ventennio fascista la gente se voleva lavorare doveva adeguarsi al progetto del Partito Nazionale Fascista. La stragrande maggioranza degli italiani si adeguò, accettando perfino la guerra coloniale del 1935 e le leggi razziali del 1938. La chiesa stessa, di fronte a quelle due vergogne nazionali, mantenne purtroppo un colpevole silenzio. Certamente, in quegli anni, non fu solo la chiesa a rimanere in silenzio ma anche gran parte del mondo della cultura. Ad esempio, solo dodici docenti universitari, su diverse centinaia, si ribellarono al “pensiero unico” fascista.

Oggi, in un contesto politico-culturale certamente molto diverso, sta crescendo un assopimento etico che fa paura e che qualcuno chiama “dittatura morbida”. I circa otto milioni di telespettatori, che per alcuni mesi hanno guardato tutti i giorni “Grande Fratello”, un programma trash e becero costruito sul nulla, in questo senso rappresentano un segnale allarmante che mette i brividi.

Un famoso scrittore tedesco (B. Brecht), subito dopo l’orrore nazista del secondo conflitto mondiale, scrisse: “Il sonno della ragione genera mostri!”. Per evitare questa terribile e non impossibile eventualità si tratta di trovare spazi di nuova pacifica “resistenza”, per tenere sveglia una coscienza etica e civile, senza rassegnarsi.

Dietrich Bonhoeffer, uno dei profeti del secolo XX, giustiziato dai nazisti a Flossemburg il 9 aprile del 1944, poco prima di morire scriveva dal carcere: “Disteso sul tavolaccio fisso la parete grigia. Fuori, un mattino d’estate, ancora non mio, esultando va verso la campagna. Fratelli, finché non giunge, dopo la lunga notte, il nostro giorno, resistiamo”.

don Giorgio Morlin – Parroco

Parrocchia di Mazzocco, Cuore Immacolato di Maria

Via Ronzinella, 224 – 31021 Mogliano Veneto (Tv)

TEL&FAX:  041-453810


Cari vescovi, perché tanto silenzio sull’Italia?

L'onorevole Franco Monaco, vice-capogruppo della Margherita alla Camera dei Deputati, ex presidente dell'Azione Cattolica di Milano nonché autore della nostra rubrica Città dell'uomo, ci ha inviato questa lettera aperta ai vescovi italiani, che volentieri pubblichiamo.

Le riflessioni di Monaco toccano alcuni punti fondamentali del dibattito sociale e politico italiano. Nel prossimo numero, Jesus aprirà le sue pagine a una serie di autorevoli ospiti per proseguire la discussione sul tema


Caro Padre, col rispetto che si deve a chi è pastore e guida della comunità cristiana e, insieme, con la sollecitudine e la passione che umilmente nutro per la Chiesa e la sua missione, cui insieme siamo chiamati nel segno di una comune, responsabile partecipazione, sento il dovere di metterla, a parte di una viva preoccupazione. Essa verte sulla condizione e sulla sorte del nostro Paese.

L'Italia sta attraversando una stagione singolarmente critica. Ansietà, conflitti, divisioni, incertezza sul futuro dominano gli animi. In ispecie, registro cinque punti di sofferenza che interpellano la nostra comune responsabilità.

1) - Il principio-valore della legalità, già storicamente fragile nella coscienza collettiva italiana, è oggetto, come mai in passato, di dispregio e persino di aperte, sistematiche violazioni da parte di settori cospicui della classe dirìgente. Come non rammentare che, nel 1991, la Cei levò la sua profetica voce per ammonire ad "educare alla legalità"? Si trascurino pure le leggi ad personam (Cirami, rogatone, Lodo Schifani), ma si considerino leggi quali il falso in bilancio, il rientro superagevolato dei grandi capitali illecitamente esportati, le sanatorie e i condoni di vana specie. Tutte misure che veicolano un messaggio devastante: violare le leggi è possibile, non è un gran problema, anzi fare i furbi a danno della comunità è conveniente. Eppure, da sempre e giustamente, la Chiesaha cura di distinguere tra ciò che, pur legale, è tuttavia illecito e pone l'accento sulla valenza culturale ed educativa della legge, sul messaggio che essa incorpora e trasmette.

2) - Secondo fronte crìtico: una lacerante divisione tra le istituzioni, tra gli attori politici, tra le forze sociali. Un conflitto endemico che lacera il tessuto sociale e intacca in radice gli stessi principi-valori costituzionali e democratici.

3) - Terzo: una vistosa discontinuità nel ruolo e nell'azione dell'Italia nello scenario intemazionale. Dal depotenziamento del suo storico europeismo, cui non era estranea l'ispirazione cristiana dei "padri", al principio internazionalista e della pace, con il fermo ripudio della guerra, scolpito dai costituenti nell'ari. 11 della nostra Carta fondamentale.

4) - In quarto luogo, la dilagante "religione del mercato", il pensiero unico, l'approccio aziendalistico ai problemi e ai bisogni delle persone e delle comunità, mettono a rischio i diritti sociali dei soggetti più deboli, generano smagliature nella rete di sicurezza sociale, mettono in discussione l'idea stessa del carattere universalistico dei diritti di cittadinanza.

5) - Infine, la comunicazione e la cultura di massa. La concentrazione patologica del potere mediatico in poche mani, fuori da ogni regola posta a presidio dell'interesse generale e tutta informata all'imperativo dell'audience e della pubblicità, rappresenta non solo un problema per libertà, pluralismo, democrazia, ma anche un decisivo fattore di degrado morale e del costume, cui la comunità cristiana - un tempo sensibilissima - oggi sembra acconciarsi con colpevole rassegnazione.

Difficile tacere la circostanza che questi "punti di sofferenza" siano riconducibili a precise, imputabili responsabilità politiche. Con i loro nomi e cognomi. È ingeneroso notare un certo silenzio delle nostre Chiese su sfide di tale portata? Un vistoso deficit nell'esercizio di una indeclinabile responsabilità nell'opera di discernimento e di illumi-nazione delle coscienze?

Qua e là fa capolino un disagio diffuso, ma esso non prende forma, non prende parola in pubblico. Né si può confondere la doverosa alterità, l'irrinunciabile spirito universalistico della Chiesa, per natura e per missione al di sopra delle parti politiche, con l'ossessione dell'equidistanza, con l'accidia, con una equivoca neutralità rispetto a principi-valori umani e cristiani non negoziabili.

In passato, in frangenti meno drammatici di questi, si sono levate alte e forti le voci di coscienze cristiane limpide e illuminate, da Lazzati a Dossetti. Ma non sono mancati moniti da parte degli stessi pastori. A mio modesto avviso, l'urgenza dell'ora ci chiede di "mettere fuori la faccia", di non cedere alla paralizzante ossessione di non essere percepiti come uomini "di parte". Perché, dentro un'emergenza, "starsene fuori" può corrispondere al massimo di appiattimento sulla parte che porta la responsabilità di quell'emergenza.

Mi permetto di porre il problema, con animo filiale, dunque con umiltà ma, insieme, col senso di responsabilità che è prescrìtto dall'amore che portiamo alla Chiesa e al nostro Paese. Perché mi è chiara la distinzione dei compiti e delle responsabilità sia tra la Chiesa e la comunità politica, sia, dentro la comunità cristiana, tra pastorì e laici. Ma quando - come, a mio avviso, manifestamente in questo caso - sono minacciati prìncipi-valori essenziali, di natura etica, della convivenza, in passato i pastori non si sono sottratti al dovere di orientare, ammonire, correggere. Perché la sorte della città dell'uomo, i diritti fondamentali delle persone e della comunità sono parte integrante della missione della Chiesa. E l'ora lo prescrìve tanto più, in quanto si tratta di minacce abilmente mascherate che più facilmente fanno breccia in coscienze distratte o assopite.

Questo sentivo e sento il dovere di parteciparle, con animo rìspettoso e filiale, privo di ogni sottinteso polemico, disponibile a correggermi se sto sbagliando

Franco Monaco

 

da “JESUS” ottobre 2003


IL MONASTERO DI BOSE E’:

- una comunità monastica di uomini e donne provenienti da chiese cristiane diverse.

- una comunità monastica in ricerca di Dio nel celibato, nella comunione fraterna e nell’obbedienza all’evangelo.

- una comunità monastica presente nella compagnia degli uomini e al loro servizio.

 

Scriveva il 1° gennaio del 1970 padre Ernesto Balducci, nel suo Diario dell’esodo:

Su di una collina, nei pressi di Biella, un gruppo di cristiani di diversa confessione ha occupato, da due anni, le poche casupole lasciate vuote dal piccolo nucleo di abitanti migrati in città. Sono case per modo di dire: il vento fischia tra le fessure e la nebbia che le avvolge sembra quasi dipanarle e portarsele via. Non c’è nemmeno la luce elettrica. C’è la fede paradossale di questi amici che si propongono di preparare, in assoluta povertà, il cristianesimo di domani – (VEDI IL SITO INTERNET:  http://www-1.monasterodibose.it/)

 

MONASTERO DI BOSE - LETTERA AGLI AMICI

Bose, 4 dicembre 2003 - 40º anniversario della Sacrosanctum Concilium

“Che ne sarà del cristianesimo?”

 

 

“Che ne sarà del cristianesimo?”Cari amici, ospiti e voi che ci seguite da lontano,diversi eventi di questi ultimi mesi hanno acuito interrogativi che da tempo abitano il nostro cuore e la nostra mente. Che ne è di Gesù Cristo? Che ne è della fede e della testimonianza cristiana nelle nostre società, un tempo chiamate “cristiane” e ancora oggi intessute di codici culturali radicati nel cristianesimo? Che ne sarà del cristianesimo? Se in giorni ancora recenti qualcuno poteva temere una scomparsa pura e semplice del fenomeno cristiano, come già avvenuto in certe regioni del mondo, ridotto a sparuta minoranza di piccole comunità e magari ammirato per le vestigia artistiche lasciate in eredità; se altri presagivano una sua dissoluzione, uno sciogliersi indolore, e forse anche arricchente, dei valori cristiani all’interno del più vasto patrimonio dell’umanità; se altri ancora si immaginavano – o si auguravano – una chiesa ancora capace di conciliare gli opposti, custodendo nel suo seno tendenze non solo diverse ma a volte perfino contraddittorie, oggi ci pare che la tentazione più seria che colpisce i testimoni del Signore Gesù, fattosi uomo come noi, morto e risorto per ristabilire la piena comunione dell’umanità e del cosmo intero con Dio, venga dall’irresistibile fascino della religione civile.

È il fascino di un cristianesimo visto innanzitutto come cultura di un popolo, addirittura di un’identità nazionale, che assicura il ricompattarsi della società e che si ammanta di evidenti risultati culturali: una presenza cristiana che inevitabilmente apparirà sempre più come declinazione dell’equazione “cristianesimo uguale occidente”. Va riconosciuto che oggi la politica avverte il bisogno di utilizzare il codice religioso e pertanto è pronta al riconoscimento dell’utilità sociale della religione. Ma è un atteggiamento estraneo in radice alla tradizione cattolica: si configura piuttosto come la deriva di un certo protestantesimo settario e fondamentalista (non il protestantesimo della Riforma!) – curiosamente, però, annovera tra i suoi sostenitori quanti accusano il Vaticano II di aver “protestantizzato” la chiesa! – eppure viene incoraggiato, forse per nostalgia di una riedizione del mito della cristianità, e salutato come necessario per la nostra società sempre più frammentata e smarrita. C’è una richiesta – soprattutto da parte di quanti, politici o intellettuali, in massima parte estranei alla vita cristiana, ritengono di dover guidare le trasformazioni – di poter disporre dei cosiddetti valori cristiani come di una sorta di “vaso degli dèi” cui attingere per mantenere in buona salute la società, per darle unità di fronte ai pericoli esterni, per fornire coesione e ragioni trascendenti di fronte al nemico che si profila all’orizzonte o che viene creato! E così la chiesa viene ridotta a una potente lobby etico-sociale. E l’invito rivoltole in questo senso da intellettuali non cristiani trova purtroppo accoglienza favorevole anche da parte di autorevoli ecclesiastici che desiderano apprestare una chiesa forte, massicciamente visibile e presente negli spazi lasciati vuoti dal crollo delle ideologie, una chiesa che sappia essere forza di pressione in società dove pure è diventata numericamente minoranza. Non dicono nulla in questo senso i risultati di una seria inchiesta sociologica da cui emerge che l’80% degli italiani si dichiara cattolico e solo il 40% afferma di credere nella risurrezione di Gesù Cristo? Così la chiesa è applaudita, riconosciuta e, a volte, perfino ricompensata da Cesare per il bene che fa, per il cemento etico che appresta a una società disgregata, ma la comunità dei discepoli di Gesù resta incapace di essere profezia e si identifica sempre più con l’occidente ricco e potente. Cedere a questa tentazione significherebbe svuotare la debolezza e la povertà della “parola della croce”, svuotare di ogni forza che viene da Dio l’annuncio dell’evangelo. Purtroppo, come denunciava alla vigilia della sua morte Giuseppe Dossetti, oggi sono aumentati “quanti pensano che la fede non possa sostenersi senza l’appoggio dei poteri, senza politiche culturali, senza organicità sociale che la presidi e la difenda”, senza, insomma, diventare civiltà cristiana, “religione civile”. Che tristezza, nei giorni scorsi, la misère del dibattito sul crocifisso ridotto a simbolo ed emblema della cultura nazionale; che tristezza la collusione tra religione e nazione durante il lutto e il dolore per le povere vittime italiane barbaramente uccise in Iraq. Sembra che molti cristiani non sappiano essere cittadini leali e responsabili nella polis e nel contempo appartenenti a quella patria che è nei cieli (Fil 3,20), che non sappiano dare a Cesare quel che è di Cesare e lo vogliano dare a Dio.

È questo l’ineluttabile futuro che attende il cristianesimo? Crediamo stia a ciascuno di noi rispondere aprendo altre prospettive. Certo, qualcosa conosce inesorabilmente la fine, qualcosa muore e non sappiamo fin dove questa morte scende in noi: è la fine di un sistema religioso, legato all’età moderna dell’occidente da un rapporto di interdipendenza. Ma con questa morte si arriva come a un bivio e la strada che ci attende dipende in massima parte da noi. Allora l’interrogativo brutale – “Cristo ha un futuro?” – rimane, ma assume i connotati di una domanda ricca di speranza: in questo luogo di un nuovo inizio, in questa sorta di ground zero, l’evangelo, secondo le parole del cristiano Maurice Bellet, “può davvero apparire come evangelo, cioè la parola inaugurale che apre lo spazio di vita? Il paradosso è grande, perché l’evangelo è vecchio... Ma forse il tempo delle cose capitali non è retto dalla cronologia; forse la ripetizione può essere ripetizione dell’inaudito, così come, dopo tutto, ogni nascita di un uomo è una ripetizione banale e, ogni volta, l’inaudito”.

Restiamo convinti che un cristianesimo che sappia rinunciare a ogni forma di potere diverso dalla Parola disarmata, che faccia prevalere la compassione sulla legge, che riesca a parlare al cuore di ogni uomo facendogli intravedere che la morte non è l’ultima parola, potrà essere un canto, una voce sempre più ascoltata. Ma questo richiede che i cristiani si esercitino a essere quelle “sentinelle della libertà, della giustizia e della pace” che Giovanni Paolo II ha più volte evocato nella sua chiaroveggenza sul futuro del cristianesimo nel mondo. Certo, non va percorsa la strada di quanti, nella loro fede incerta, si aggrappano a false certezze, ricercano un’identità cristiana contro altre vie religiose, sperano in forti mobilitazioni e preferiscono annunciare una babele prossima ventura dovuta all’incontro e al dialogo delle religioni, piuttosto che operare affinché ci sia una nuova pentecoste in cui lo Spirito santo porta comunione tra lingue e culture diverse.

Sì, in un mondo e in una società in cui, quando si ripete che “nulla sarà più come prima” e che si vedranno “scenari mai visti”, sempre ci si riferisce a eventi tragici, a tragedie immani, a un dispiegarsi di forze di morte, forse c’è ancora posto per un cristianesimo che sappia ripresentare l’inaudito di una buona notizia, l’inatteso ritrovamento di un senso non solo per le singole vite ma per la stessa convivenza civile, forse c’è ancora spazio per cristiani liberati dalle paure e aperti a una speranza per tutti. Perché il Signore è venuto, viene e tornerà per tutti!

Buon Natale a tutti!

                                          IL MONASTERO DI BOSE

 

 

 

Bartolomeo Sorge S.I.: Il silenzio dei vescovi sull’Italia – da “Aggiornamenti sociali” - Editoriale - marzo 2004

 


Non c’è dubbio che alla base della Chiesa italiana vi sia un certo malessere per il silenzio dei vescovi sulla grave situazione del Paese. Di quando in quando questo disagio è affiorato sulle pagine dei giornali, finché ultimamente è esploso anche sulla stampa cattolica. Nel numero di ottobre 2003 di Jesus, il mensile di cultura e attualità edito dai Periodici San Paolo, è apparsa una lettera aperta dell’on. Franco Monaco, già presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana dal 1986 al 1992 e attualmente vice-capogruppo della Margherita alla Camera dei Deputati: «Cari vescovi, perché tanto silenzio sull’Italia?»(Jesus, 10 [2003] 6 s.).

Dando voce a uno stato d’animo diffuso, Franco Monaco evidenzia «cinque punti di sofferenza» che rendono critica la situazione attuale del Paese, ne rendono incerto il futuro e, proprio per questo, esigerebbero una chiara parola dei vescovi. Questi «punti» sono: il disprezzo aperto della legalità; il rischio di un conflitto senza sbocco tra istituzioni e parti sociali; il venir meno del ruolo europeista e di promozione della pace che l’Italia finora ha sempre svolto; l’egemonia del «pensiero unico» neoliberista, cioè di una visione puramente mercantile della politica; la concentrazione patologica dei mass media e dell’informazione in poche mani. Perché su questi punti i vescovi tacciono? Nessuno chiede loro di darne un giudizio politico, che spetta al laicato, ma una chiara valutazione etica. Ai vescovi si chiede cioè che illuminino le coscienze sia dei politici, sia dei fedeli affinché le riforme necessarie si compiano in modo responsabile, nel rispetto dei valori etici e del bene comune. Ciò è tanto più importante oggi, quando chi governa non cessa di ripetere che vuole «cambiare il Paese». Nulla da dire sul come?

Per comprendere il senso del dibattito, occorre chiarirne gli elementi principali: 1) il silenzio dei vescovi oggi; 2) i loro insegnamenti di ieri; 3) il ruolo del laicato.

1. Il silenzio dei vescovi oggi.

Tutti sappiamo come, alla vigilia delle consultazioni elettorali, giungesse immancabile e puntuale il comunicato dei vescovi per ricordare ai cattolici il grave dovere di andare a votare, di votare «bene» e di votare «uniti». Gli interventi della CEI cominciarono a rarefarsi sotto i pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. In seguito si fecero sempre più radi e sfumati, a misura che cresceva di intensità e di visibilità il servizio apostolico di Giovanni Paolo II. Finché si finì col lasciare praticamente al Papa il compito di intervenire. Ciò apparve in modo evidente al Convegno ecclesiale di Loreto (1985), quando fu Giovanni Paolo II (e non i vescovi) a richiamare i cattolici italiani alla storia del Paese e a esortarli a rimanere fedeli all’«impegno unitario» in politica (cfr L’Osservatore Romano, 12 aprile 1985, n. 8). Dopo di allora, il Papa intervenne più volte sull’impegno sociale dei cattolici italiani, affrontando il tema perfino in una lettera scritta ad hoc ai vescovi («Le responsabilità dei cattolici di fronte alle sfide dell’attuale momento storico», in L’Osservatore Romano, 13 gennaio 1994).

Solamente nel 1995, in occasione del Convegno ecclesiale di Palermo, furono dette — ancora una volta dal Papa — le parole che molti avrebbero desiderato ascoltare dai vescovi qualche anno prima, quando l’unità dei cattolici nella DC già era divenuta anacronistica sia sul piano storico (a causa delle trasformazioni avvenute nel Paese), sia sul piano teologico (dopo le acquisizioni teologiche e pastorali del Concilio Vaticano II). «La Chiesa — disse Giovanni Paolo II a Palermo — non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o per l’altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell’autentica democrazia» («Allocuzione ai Convegnisti», in L’Osservatore Romano, 24 novembre 1995, n. 10). Con queste parole il Papa di per sé richiamò un principio generale, universalmente valido; tuttavia quel monito autorevole, rivolto direttamente alla Chiesa italiana dopo 50 anni di «collateralismo» con la DC, assumeva evidentemente un significato particolare. Si trattava, dunque, di applicare alla mutata situazione del Paese il principio generale enunciato dal Papa. A Palermo però nessuno ci provò. Ci si limitò a ripetere le sue parole, senza fare commenti. Fu il card. Martini — qualche giorno dopo — a intervenire sul silenzio dei vescovi, richiamandosi appunto al monito del Papa. Il 6 dicembre 1995, nel discorso di sant’Ambrogio (C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare), disse testualmente: «la Chiesa non deve tacere perché [in Italia] è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia». E il Cardinale indicò esplicitamente i principali pericoli che la democrazia oggi corre nel nostro Paese, di fronte ai quali — ribadì — i vescovi non possono tacere. La Chiesa — esemplificò il Cardinale — non può rimanere neutrale o muta nei confronti di una cultura politica che contesta la funzione dello Stato nella tutela dei più deboli; nei confronti di una logica decisionistica che cerca di estorcere il consenso per via plebiscitaria; dinanzi al diffondersi di un liberismo utilitaristico che fa del profitto, della efficienza e della competitività un fine, a cui subordina le ragioni della solidarietà; in presenza di una politica che si rifà a una logica conflittuale inaccettabile, secondo cui chi vince piglia tutto e chi perde è solo un nemico da eliminare (cfr MARTINI C. M., «Chiesa e comunità politica», in Aggiornamenti Sociali, 2 [1996] 170).

Quel discorso dell’Arcivescovo di Milano è un chiaro esempio di come, senza compromettersi in scelte di parte, estranee alla loro missione religiosa, i vescovi devono e possono intervenire a formare la coscienza dei fedeli, esprimendo un giudizio morale sui «punti di sofferenza» della democrazia nel nostro Paese. «Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio — concludeva il Cardinale — e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza. Non basta dire che non si è né l’uno né l’altro, per essere a posto; non è lecito pensare di poter scegliere indifferentemente, al momento opportuno, l’uno o l’altro a seconda dei vantaggi che vengono offerti. È questo un tempo in cui occorre aiutare a discernere la qualità morale insita non solo nelle singole scelte politiche, bensì anche nel modo generale di farle e nella concezione dell’agire politico che esse implicano. Non è in gioco la libertà della Chiesa, è in gioco la libertà dell’uomo; non è in gioco il futuro della Chiesa, è in gioco il futuro della democrazia» (ivi, 171).Certo, giustamente i vescovi si preoccupano di mantenersi equidistanti da ogni schieramento politico, non solo perché ciò è richiesto dalla natura religiosa della loro missione, ma anche per evitare che il pluralismo dei cattolici, legittimo in politica, produca lacerazioni e divisioni nella vita della comunità ecclesiale. Tuttavia, la necessaria equidistanza dagli schieramenti partitici non significa neutralità di fronte alle implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi politici. Infatti, il silenzio in tal caso potrebbe indurre i fedeli a credere che tutti i modelli di società, per il solo fatto di essere formalmente «democratici», si equivalgano e che i cristiani possano indifferentemente aderire all’uno o all’altro, purché si comportino con coerenza di fronte alle singole scelte. Ora, le cose non stanno così. La coerenza dell’agire cristiano non riguarda soltanto il comportamento personale di fronte alle singole scelte; il cristiano dovrà anche interrogarsi sulla coerenza oggettiva di un progetto politico, preso nel suo insieme. Infatti, — disse Giovanni Paolo II a Palermo — non si può «ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede», né si può dare «una facile adesione a forze politiche o sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della Dottrina sociale della Chiesa» («Allocuzione ai Convegnisti», cit., 10).

Dunque, oggi, il rimanere in silenzio di fronte alla gravità della situazione italiana non appare motivato. I vescovi non possono esimersi dall’illuminare le coscienze dei fedeli sulla coerenza o meno con la Dottrina sociale della Chiesa dei programmi politici che nel Paese si confrontano. È sempre valido l’ammonimento di san Gregorio Magno: come «un discorso imprudente trascina nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto» (in Regola pastorale, Lib. 2, 4; PL 77, 30).

2. Gli insegnamenti di ieri.

Mentre si avverte il peso del silenzio di oggi, è opportuno però richiamare i numerosi interventi passati della CEI sulla situazione italiana. Alcuni di essi, nonostante risalgano a vari anni fa, mantengono una straordinaria attualità. Perciò, bisogna riconoscere che il silenzio dei vescovi, in ogni caso, è relativo. Come non ricordare — per esempio — il documento del Consiglio Permanente della CEI: La Chiesa italiana e le prospettive del Paese (23 ottobre 1981), quello firmato dall’intero episcopato italiano su Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno (18 ottobre 1989) o il messaggio della Presidenza della CEI sulla Presenza unita dei cristiani nella vita sociale e politica (30 giugno 1993)?

Soprattutto appare di straordinaria attualità la Nota pastorale della Commissione ecclesiale «Giustizia e Pace»: Educare alla legalità, del 4 ottobre 1991. Si direbbe scritta oggi. Dopo aver richiamato sommariamente le ragioni della crisi della politica italiana (n. 7), la Nota denuncia i pericoli che la democrazia corre nel nostro Paese, a motivo della perdita di tensione etica. Il primo rischio — essa afferma — è che «le leggi, che dovrebbero nascere come espressione di giustizia, e dunque di difesa e di promozione dei diritti della persona, e da una superiore sintesi degli interessi comuni», a causa del prevalere di poteri e interessi forti, finiscano col trasformarsi in «leggi “particolaristiche” (cioè in favore di qualcuno)» (n. 8). Come non pensare all’abuso al quale oggi assistiamo, da parte di chi ha il potere, di emanare leggi destinate chiaramente a tutelare interessi particolari (o addirittura personali) del leader e dei suoi sostenitori?

In secondo luogo, la Nota denuncia il pericolo che la democrazia in Italia degeneri in «populismo», per cui «il parlamento corre il rischio di essere ridotto a strumento di semplice ratifica di intese realizzate al suo esterno, con il conseguente impoverimento della funzione delle assemblee legislative» (ivi). È esattamente quanto sta accadendo oggi. Come non pensare alla presente delegittimazione dell’attività parlamentare (spesso bloccata da disegni di legge blindati e sottratti al necessario dibattito), e anche di altre fondamentali istituzioni dello Stato, in seguito ai continui attacchi alla Magistratura, alla Corte costituzionale, alla stessa Presidenza della Repubblica? E che dire della delegittimazione di altre essenziali forme di rappresentanza democratica, come nel caso dei sindacati?

Infine, la Nota punta il dito contro una classe politica che, «con il suo frequente ricorso alle amnistie e ai condoni, […] annulla reati e sanzioni e favorisce nei cittadini l’opinione che si possa disobbedire alle leggi dello Stato. Chi si è invece comportato in maniera onesta può sentirsi giudicato poco accorto per non aver fatto il proprio comodo come gli altri, che vedono impunita o persino premiata la loro trasgressione della legge» (n. 9). Come non pensare a quanto accade oggi, quando l’attuale classe dirigente si serve del potere legislativo per sottrarsi alla giustizia, emanando leggi ad hoc per garantirsi l’immunità (come la legge che depenalizza il falso in bilancio e il «lodo Schifani» per sospendere i processi alle più alte cariche dello Stato)? Quale senso della legalità e dello Stato si potrà mai diffondere nel Paese, di fronte a simili comportamenti della classe politica?

Perché non richiamare quegli insegnamenti, oggi che le storture allora denunciate si sono ulteriormente accentuate, come già fece la Commissione ecclesiale «Giustizia e Pace» in occasione di Tangentopoli, con la Nota: Legalità, giustizia e moralità, del 20 dicembre 1993? Il silenzio sui «punti di sofferenza» appare dunque inspiegabile ed è difficile controbattere a quanti avanzano il sospetto che la profezia sia frenata dalla diplomazia, cioè dalla speranza di vantaggiose contropartite per il bene della comunità ecclesiale e in difesa di alcuni valori etici (si tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei finanziamenti agli oratori o dei buoni-famiglia).

3. Il ruolo del laicato.

In ogni caso, anche nell’ipotesi che i vescovi escano dalla loro afasia, ben poco servirebbero le loro parole senza la presenza in Italia di un laicato consapevole delle proprie responsabilità. Gli stessi laici, mentre giustamente chiedono ai Pastori di non tacere di fronte ai gravi interrogativi suscitati dell’attuale situazione del Paese, si interroghino però seriamente per vedere che cosa essi stessi possono e devono fare. Infatti — spiega il Concilio Vaticano II — dai loro Pastori «i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non si aspettino, però, che i loro Pastori siano sempre esperti a tal punto che, a ogni nuovo problema, anche a quelli più gravi, possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e prestando fedele attenzione alla dottrina del Magistero» (Gaudium et spes, n. 43).

In altre parole, l’orientamento dei Pastori è sì necessario, ma non potrà mai supplire alla mancanza di maturità spirituale e di competenza professionale dei laici impegnati in politica. Dopo oltre cent’anni di Dottrina sociale della Chiesa e dopo oltre cinquant’anni di vita democratica in Italia, non dovrebbe essere difficile distinguere un programma politico dall’altro, coglierne la differente ispirazione ideale e le implicazioni etiche, giudicarne la consonanza o meno con gli ideali cristiani.

D’altra parte, i criteri fondamentali dell’agire cristiano in politica dovrebbero essere noti a tutti. Non è certamente necessario che i vescovi ribadiscano la legittimità del pluralismo politico dei cattolici, dopo che Paolo VI — rifacendosi al Concilio Vaticano II — ha insegnato a chiare lettere che «nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi» (Lettera apostolica Octogesima adveniens, n. 50). Parimenti, i fedeli laici dovrebbero sapere bene che pluralismo non è sinonimo di indifferentismo; che i diversi programmi politici non si equivalgono; che l’ispirazione cristiana non funge solo da coscienza critica, respingendo quanto vi può essere di negativo in una cultura politica o in un programma di partito, ma funge soprattutto da stimolo propositivo e creativo, spingendo cioè alla realizzazione di una società ispirata alla visione cristiana della vita e della storia.

Applicando questi criteri alla situazione italiana di oggi, i fedeli laici responsabili possono già da soli trarne le conclusioni operative. Non c’è dubbio, invece, che sia necessario un chiarimento da parte dei vescovi sulle implicazioni etiche e sociali delle filosofie politiche dei due poli. Di fronte al dilagare della cultura neoliberista (che è all’origine dei «punti di sofferenza» ricordati all’inizio), come esimersi dallo spiegare le ragioni per cui essa è lontana dall’insegnamento sociale della Chiesa? Perché tacere sulla responsabilità morale e storica di quei cattolici che, pur soffrendo e sforzandosi di «migliorare» leggi che sono in contrasto con la cultura cristiana, finiscono poi col votare il programma neoliberista, contribuendo così a costruire un modello di società, non solo difforme dalla Dottrina sociale della Chiesa, ma incapace di risolvere i problemi di una Italia «a due velocità», perché fa ricadere sui più deboli il peso maggiore di riforme destinate a premiare i più forti? I dati più recenti dimostrano che non si tratta affatto di un pregiudizio dei «comunisti», come si vuole far credere. Secondo l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes, le famiglie italiane che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, un anno fa erano il 38,7%, oggi sono il 51,2%.

Perché, infine, i vescovi non intervengono a sostenere tanti fedeli laici impegnati (anche attraverso significative esperienze di formazione sociale e politica) a trovare una forma nuova di presenza adeguata alle sfide attuali, senza rimpianti per il passato, per edificare insieme con tutti i «liberi e forti» una democrazia compiuta? In conclusione, il dibattito sul silenzio dei vescovi, affrontato nei suoi veri termini, non solo non è irrispettoso, ma anzi può risultare proficuo e può suscitare quel soprassalto di coraggio evangelico di cui oggi ha bisogno tutta la Chiesa italiana, Pastori e laici insieme.

Bartolomeo Sorge S.I

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