IL RITO EUCARISTICO DI FRONTE ALLA SFIDA DELLA  PAROLA DI DIO E DELLA SOCIETÀ SECOLARIZZATA

 

 

 

“La lettera apostolica nel XL Anniversario della Costituzione Sacrosantum Concilium sulla sacra Liturgia” del 4 dicenbre 2003 recita: “Guardando al futuro, varie sono le sfide alle quali la Liturgia è chiamata a rispondere. Nel corso di questi quarant’anni, infatti, la società ha subito profondi cambiamenti, alcuni dei quali mettono fortemente alla prova l’impegno ecclesiale….è tempo di una nuova evangelizzazione. Da tale sfida la Liturgia è direttamente interpellata. A prima vista, essa sembra messa fuori gioco da una società ampiamente secolarizzata. Ma è un dato di fatto che, nonostante la secolarizzazione, nel nostro tempo riemerge, in tante forme, un rinnovato bisogno di spiritualità (pg.11-12)”.

Queste parole forti di Giovanni Paolo II toccano quel punto cruciale che è il rapporto liturgia-vita cristiana. Meraviglia, tuttavia, che il Pontefice non faccia nessun riferimento esplicito alla sfida concreta a cui, oggi, la liturgia è chiamata a rispondere circa il rito eucaristico. Come è pensabile una nuova evangelizzazione della vita liturgico-sacramentale, senza un rinnovamento di questa pratica celebrativa, per renderla veramente parte del concreto vissuto dei fedeli? 

Il credente, infatti, che conosce la storia dell’Europa cristiana, storia intrisa di guerre, di violenze, di oppressioni sociali e religiose, di diritti umani non rispettati, di barbarie di ogni tipo, si pone una domanda: come è potuto accadere che una simile storia, poco evangelicamente cristiana, si dipanasse mentre, in maniera incessante, dovunque, veniva celebrata l’eucaristia?

Il credente si accorge di un fatto ancora più impressionante, i valori di libertà, di uguaglianza, di democrazia, di tolleranza, di riconoscimento dei diritti di ogni individuo, ora presenti nella nostra società, vi furono concretamente immessi da movimenti atei, fortemente avversati dalla Chiesa, quali l’umanesimo, l’illuminismo, la rivoluzione francese, il marxismo (per la difesa dei diritti dei lavoratori). Ritorna la domanda: come è potuto accadere?

Il cristiano non può esimersi dal cercare una risposta, anche se solo l’Altissimo, forse, la conosce. Un dubbio sfiora la mente: tra le moltissime cause, non può esserci il modo con cui l’eucaristia fu celebrata? Perché ha dato così pochi frutti? Che non sia perché era celebrata come azione privata del sacerdote, e vissuta dal popolo come spettacolo da contemplare, senza  un coinvolgimento diretto, né nel rito, di cui non si comprendeva la lingua, né nell’interiorizzazione della Parola, né nel cibarsi del corpo di Cristo? Non furono le eucaristie più che altro momenti di evasione da una vita dura, difficile e quindi momenti di distacco dalla vita stessa?

Dice Sequeri “Allora l’uomo è in molti modi tentato di sottrarsi alla responsabilità del proprio destino. Una delle vie di rimozione di tale fatica, è proprio la ricerca di una esperienza religiosa sostitutiva dell’esercizio della libertà e della ricerca della giustizia….senza legame con la vita il sacramento muore nel suo rito”[1].

Sicuramente l’eucaristia non dà frutti magicamente, e la deriva della ‘magia’ è sempre in agguato, anche ai nostri giorni.

La celebrazione eucaristica è uno spazio umano in cui accade un evento, che solo se interiorizzato e accolto nell’intimo del credente, diviene esperienza di salvezza. Ma come può essere interiorizzato, se non è espresso in termini e gesti comprensibili agli uomini e donne del nostro tempo?

“È quando riesce ad inculturarsi che il vangelo mostra la sua verità” dice Maggioni[2], infatti la liturgia, come la Parola, è per l’uomo concreto, in marcia con la storia. Il Vaticano II stesso dice      “ L’ordinamento dei riti deve essere condotto in modo tale che le sante realtà siano espresse più chiaramente, il popolo cristiano possa capirne per quanto possibile il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria” (S.C. n.21).

L’uomo che partecipa all’eucaristia, si lascerà trasformare da questa, solo nella misura in cui la sente espressione della sua cultura e della sua vita. Altrimenti il suo sistema immunitario, fisiologicamente, la rigetterà, perché non lo riconoscerà come parte di sé.

Questo non significa che nel rito non venga proposto un contenuto ‘altro’, ma un altro espresso in categorie comprensibili all’uomo/donna d’oggi. La nostra liturgia eucaristica stona all’orecchio e all’occhio del credente, che vive in una cultura laica, che si è distaccata dal mondo del sacro e non capisce più un linguaggio che parla di  consacrazioni, immolazioni, offerte sacrificali, ….

 

La coscienza di quanto sopra espresso motiva la riflessione che segue. Questa procederà a tappe forzate, per percorrere il cammino storico della liturgia eucaristica, dalla ‘cena del Signore’ di Paolo, al ‘Sacrificio’ del Concilio Vaticano II, mostrando quanto l’attuale rito si sia allontanato dalla ‘cena del Signore’, dalla vita, dalla morte e dal mondo religioso di Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio venuto ad abitare in mezzo a noi.

Del rinnovamento del rito già parlava il ConcilioVaticano II, che lo vedeva necessario e possibile, poneva però una condizione, che il cambiamento derivasse da un vero amore della sacra Scrittura (n. 24 della Costituzione della Sacra Liturgia).

Alla base delle riflessioni che seguono, sta proprio l’amore alla sacra Scrittura, che sola può indicare la via.

 

Per poter entrare nel vivo della riflessione, sono indispensabili alcune premesse, sia sul significato dei termini sacer e qadôs, sia sulla via dell’incarnazione scelta dal Verbo.

 

PREMESSE

Il “sacer” romano

 

Nel mondo romano i rapporti della comunità con la divinità venivano regolati da atti giuridici che dichiaravano alcune realtà ‘sacre’.

Secondo quanto ripetono gli studiosi della cultura romana ed in particolare Fugier[3], Block[4], Sabbatucci[5], sacro (sacer) è quanto la comunità pagana romana offriva e riservava alla divinità. Se ne spossessava per renderlo proprietà degli dei, allontanato, trasferito nel mondo degli dei, che si distingue dal mondo comune, dal mondo profano (pro-fanum). Dice Sabbatucci “sacer è ciò che l’uomo coscientemente destina alla divinità in un patto, che lega la divinità stessa alla linea di condotta richiesta dall’uomo”[6]. Sacri sono i templi, le statue, tutto ciò che è opera dell’uomo, e che viene offerto agli dei. Sacre sono le decime del bottino, i giorni festivi riservati a gli dei, i luoghi dove venivano stipulati patti importanti per la vita sociale e politica, perché a garanzia del patto si chiedeva l’intervento divino. Persone sacre sono i sacerdoti[7], non perché appartengano agli dei, ma perché investiti di una funzione per il bene del popolo, ossia con i loro atti cultuali rendono possibile lo scambio dei servizi reciproci tra la divinità e l’uomo. Ciò che importa è la sua capacità di compiere la sua funzione, e non le sue capacità morali.

I rapporti con le divinità erano del tipo “do ut des” (io ti do perché tu mi dia), con un pagamento di un bene, offerto in cambio di un altro bene, o con l’adempimento di una promessa.

Gli autori sopra citati fanno notare come la psicologia religiosa di Roma rifletteva una attitudine pragmatica, una preoccupazione per le cose pratiche, come pure una preoccupazione di organizzare la realtà, di strutturarla. Si capisce perciò lo svilupparsi di riti religiosi, che regolavano le relazioni tra il sacro ed il profano, categorie che strutturavano la realtà fisica ed umana in cui viveva il romano. 

È importante notare che sacer non vuole dire magico. I due termini appartengono ad ordini ben distinti. Caratteristica dell’oggetto magico è di essere efficace, ma non per virtù propria, ma per virtù extranaturale. Il sacer non ha questa efficacia misteriosa.

Il concetto di sanctus-sanctio dal verbo sancire ed il concetto di sacer non sono sempre chiaramente distinti. Solo più tardi, con le influenze straniere l’aggettivo sanctus comincerà ad assumere una qualifica morale.

Fu questo mondo del sacer romano ad influenzare il culto della comunità cristiana, quando la maggior parte dei fedeli furono pagani convertiti. Per un fenomeno di inculturazione la “cena del Signore” divenne un sacrum-facere, un sacrificio, necessariamente compiuto da un sacerdote, ufficialmente costituito tale, in uno spazio reso sacro, su un altare reso sacro.

Adonai non si era rivelato ai pagani e non li aveva preparati ad una fede ‘laica’. “E qual grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione, che io oggi vi espongo?” (Dt 4,8) “Così non ha fatto con nessun altro popolo, non ha manifestato ad altri i suoi progetti” (Sl 147, 19-20).

La terminologia cultica della lettera agli Ebrei o delle lettere di Paolo, fu interpretata, perciò, secondo la concreta mentalità romana, in termini reali, e non più metaforici.

 

Il qadôs biblico

 

In ebraico non esiste una parola simile al latino sacer[8], e di conseguenza non esiste il termine sacrificio (sacrum-facere)[9]. La parola qadôs, santo, indica la qualità esclusivamente propria di Dio; la qualità religiosa-morale riservata a Dio, agli angeli, agli uomini. Il santo in senso cultuale è ciò che si apre verso Dio in contrapposizione a profano.

Il verbo usato dalla lingua ebraica per i riti nel tempio viene dalla radice qrb, avvicinare, fare avvicinare la vittima all’altare, e qorbân “l’avvicinato”, la vittima[10]. Questo avvicinarsi reciproco, del fedele a Dio e di Dio al fedele, che si discosta dall’idea di offerta (of-ferre) greco-romana, dove l’oggetto è allontanato da sé per Dio, deriva dalla particolare relazione tra Dio ed Israele, la relazione del patto, che è un patto di santificazione, proposto da Dio che è santo. Adonai, il Dio di Israele dice “ Radunatevi e venite, avvicinatevi tutti insieme…volgetevi a me” (Is 45,20. 22.) e l’uomo risponde avvicinandosi. Il concetto di avvicinarsi al Signore sarà ripreso nel Nuovo Testamento, così Pietro (2,4), la lettera agli Ebrei (4,16; 7,25; 10,1.22.;11,6; 12,8.22), sempre come risposta alla chiamata di Dio, al  Venite a me voi tutti…” (Mt 11,28)

Il capitolo 24 dell’Esodo, dove si parla di ‘olah (olocausto), di zebach e di selâmîm[11], non è solo il capitolo della liturgia del patto, è anche il capitolo del significato teologico dei riti che si svolgevano al tempio di Gerusalemme, quando il libro dell’Esodo fu scritto, dopo l’esilio, nel V°secolo a.C. Nella liturgia del patto, questi riti non vengono compiuti da sacerdoti, ma solo da ‘ragazzi’, ed erano un ringraziamento per il dono dell’alleanza. Erano quell’ avvicinamento al Signore, che esprime materialmente ed esteriormente la disponibilità interiore dell’ebreo ad attuare quegli insegnamenti e quei precetti ( le mitzwot), che il Signore ha dato a lui nell’alleanza, e che soli sono strumenti di santificazione e di comunione con Dio, come è espresso dalla benedizione pronunciata prima del compimento di ogni precetto “Benedetto tu, Signore nostro Dio, che ci hai santificato con i tuoi precetti” [12].  Così la consegna delle primizie, sono parte integrante dello stesso processo di santificazione.

In modo esplicito viene detto che il rito dell’olocausto è fatto perché “odore di gradevolezza per il Signore” (Lev 1, 9,13;2,2…. ripreso da Ef 5,2), manca ogni richiesta di favori in cambio. Anche nei riti detti di ‘espiazione’, (hattât), non si entra nella logica del ‘do ut des’, perché erano riti di ‘compensazione’ per i torti provocati.

Nell’avvicinarsi reciproco dei due partners, il fedele è sempre convinto che gli animali ed i prodotti della terra che vengono presentati (non offerti)[13] non sono di chi li presenta, ma appartengono a Dio e sono suoi “Sono mie tutte le bestie della foresta, animali a migliaia sui monti…mio è il mondo e quanto contiene” (Sl 50/49, 10.12.). “Dice il Signore Dio…ecco tutte le vite sono mie: la vita del padre e quella del figlio è mia” (Ez 18,3-4).

Il fedele si sente sempre debitore di fronte a Dio, dal quale ha tutto ricevuto gratuitamente[14]. Per questo Paolo dirà “O chi gli ha dato qualcosa per primo, si che abbia a ricevere il contraccambio. Perché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose” (Rm 11,35-36). Nel Talmud babilonese si legge “…chi usa dei beni di questo mondo senza recitare una benedizione, profana una cosa santa  a Dio”[15]. L’attitudine di fondo del credente davanti al suo Dio è di ricevere, di accogliere i suoi doni, non di offrire; attitudine capovolta, quindi, rispetto a quella greco-romana. Dice Maggioni a proposito del culto dell’Antico Testamento, “ il culto è anzitutto un movimento discendente, da Dio verso l’uomo e le azioni dell’uomo sono solo una risposta al movimento di Dio”[16]

Quando il popolo si trovava in difficoltà non immolava[17] vittime alla maniera pagana, ma convocava una assemblea e proclamava un digiuno (1Re 21,9; 2Cr 20,3; Ne 9,1; Gl 1,14;2,15; Giona 3,5).

Il fedele si sentiva abilitato ad avvicinarsi a Dio ogni qualvolta ne desiderava l’aiuto, senza aver bisogno di richiedere la sua condiscendenza con dei doni, infatti Dio aveva detto “Invocami nel giorno della sventura: ti salverò e tu mi darai gloria” Sl50/49,15.

Caratteristica della fede biblica è avvicinarsi a Dio con la lode sulle labbra per le meraviglie che lui compie “Loderò il Signore per tutta la mia vita…egli rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati. Il Signore libera i prigionieri, ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto…” (Sl 146/145, 1-8), “ Cantate inni al Signore perché ha fatto opere grandi” (Is 12,5).

 Anche il tempio di Gerusalemme mostra la differenza radicale tra fede biblica e paganesimo. Il tempio non avrà al suo interno, nello spazio più ‘santo’, un idolo da adorare, ma le tavole dell’alleanza[18], con un coperchio d’oro dove stazionerà la misericordia del Dio del Patto. Inoltre lo spazio del santuario non sarà consacrato dall’uomo, ma sarà Dio, che liberamente decide di occupare il tempio con la sua gloria, tanto da costringere i sacerdoti ad uscire (1Re 8,11). Così il sacerdote non sarà un mediatore tra Dio e l’uomo, come nelle religioni pagane, ma rappresenterà Dio stesso[19] (Sir 50,5), che concede il dono della riconciliazione (Lev 16,2). Infatti, la fede biblica non conosce la figura del mediatore, ogni fedele può e deve rapportarsi a Dio direttamente in un rapporto di io/tu. Dice Brueggermann “I sacerdoti con la loro presenza corporea rivelano la disponibilità dello stesso IHWH” [20].

Il fedele crede nella fedeltà assoluta di Dio al Patto ( Gn c. 17), questo vanifica ogni funzione ‘propiziatoria’, assente nella liturgia del tempio. Per questo è deviante la traduzione delle Bibbie in lingua italiana del termine ‘kapporet’, il coperchio d’oro dell’Arca, in ‘propiziatorio’[21]. Nella N.R.S.V. è reso più correttamente in “seggio della misericordia”. Là Dio sostava per incontrare Mosè (Es 25,22 e Num 7,89), per parlargli e donare la riconciliazione (Lev c. 16), restituendo a Israele la piena relazione con lui.

Non meraviglia l’insistenza con cui Dio dà ad Israele il comando di essere separato dagli altri popoli, per non lasciarsi contaminare dalla idolatria pagana e dal rapporto tanto diverso che le ‘genti’, come vengono chiamati i pagani, hanno con i loro dei, dei che “hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono” Sl 115/113B, 5.

 

Di questa fede si è nutrito Gesù, ebreo, e con lui gli apostoli e gli evangelisti. Senza la conoscenza di questa fede, non solo non si può leggere correttamente il Nuovo Testamento, ma non si può nemmeno mettere in atto il “Segui me” di Gesù (Mt 8,22; 9,9;10,38 e 24; 19,21; Mc 2,14; 8,34; 10,21; Lc 5,27, 9,23 e 59; 18, 22; Gv 1,43; 12,26; 21,19  e 22.).

 

 

“ Mangio forse la carne dei buoi e bevo forse il sangue dei capri? (Sl 50/49, 13)

 

Israele nasce nel deserto, senza terra, senza re, e senza tempio, ed è a questo periodo che Israele farà continuamente riferimento, per trovare l’anima autentica di sé stesso. Nel deserto sottoscriverà un patto (“Quanto il Signore ha detto noi lo faremo!” Es 19,8 e 24,3.7.), proposto da Dio, che nasce da una elezione specifica: “Ora se ascolterete la mia voce ed osservate la mia alleanza, allora sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli, perché mia è la terra. E voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa.” (Es 19,5-6). Ogni figlio di Israele si sentiva, perciò, sacerdote e santo, abilitato ad avvicinarsi al suo Dio, senza bisogno di intermediari.

Per questo molti riti del tempio venivano eseguiti dall’offerente stesso, che sgozzava lui stesso l’animale[22]. Ogni fedele sapeva che il suo sacerdozio era legato prima di tutto all’osservanza dei comandamenti del Signore, e solo in seconda istanza, ed eventualmente, ai riti da compiersi nei santuari.

Ma con l’insediamento in Canan, Israele viene affascinato delle istituzioni degli altri popoli, così la monarchia ed il santuario, con annessa casta sacerdotale. Vuole queste istituzioni pure per sé, anche se Adonai non è favorevole (1Sam c.8). Adonai vorrebbe essere lui l’unico re di Israele e non desidera essere contenuto in un tempio. “Finché ho camminato ora qua ora là, in mezzo a tutti gli israeliti, ho forse mai detto ad alcuno dei Giudici…perché non mi edificate una casa di cedro?  (concetto ripreso in 1Re 8,16, Is 66,1). Ma il Signore, poi, cederà (“Signore Dio nostro, tu li esaudivi, eri per loro un Dio paziente” Sl 99/98, 8) e darà il permesso a Salomone di costruire il tempio (2Sam 7,13).  Avrà così inizio il sacerdozio, la casta sacerdotale, alcuni secoli dopo l’uscita dall’Egitto.

I sacerdoti ebbero grande importanza durante l’esilio per mantenere integra la fede ebraica, e al ritorno, saranno le uniche guide per Israele, che aveva perso la sua libertà politica. Avranno una loro teologia, che difende le prerogative delle famiglie sacerdotali del secondo tempio di Gerusalemme[23]. Per questo nella storia delle origini di Israele (nel Pentateuco), per comando di Adonai,  Aronne diverrà sacerdote al monte Sinai, e sarà fratello di Mosè. In questo modo l’istituzione del sacerdozio avrà piena legittimazione. La teologia dei sacerdoti si affiancherà in maniera dialettica a quella chiamata da Blum “laica”, rappresentata dagli “anziani”, che nel Pentateuco esprime la corrente della aristocrazia terriera della Giudea[24]. Questa teologia si rifarrà alla fede laica di Israele, quella originaria del Sinai, che insisteva sulla ‘santità’ del popolo, derivata dalla appartenenza ad Adonai: “Tu, infatti, sei un popolo santo al Signore tuo Dio” (Dt 7,6). Concetto ripreso in Dt 14,2; 26,19.

Le due correnti laica e sacerdotale non convivranno sempre in armonia, in alcuni momenti vivranno in tensione[25]. Dice R. Aron “Dalla promulgazione della Legge, c’è sempre stata in Israele una tendenza contraria al clericalismo, una opposizione tra il culto spontaneo della famiglia e quello gerarchizzato e regolamentato del santuario”[26].

L’anima laica della fede ebraica, che considera l’ascolto della Parola quale fondamento della propria fede, affiorerà nella polemica dei profeti e del salmista sul ritualismo superficiale, che non mette al primo posto le esigenze dell’alleanza e l’attuazione dei precetti. “ Sacrificio (zebâh) e offerte (minhâ) non gradisci, gli orecchi mi hai aperto, non hai chiesto olocausto e vittime per la colpa. Allora Ho detto : ecco io vengo, sul rotolo del libro di me è scritto di compiere il tuo volere.” (Sl 40/39, 7-9). “Mangio forse la carne dei tori, bevo forse il sangue dei capri? Sacrifica a Dio una lode e sciogli all’altissimo i tuoi voti” (Sl 50/49,,13), “ Mi avete forse avvicinato vittime (zebâh) e sacrifici (minhâ) nel deserto per quarant’anni o israeliti?” (Amos 5,25). Vedi Sl 51/50, 17-18; Sl 50/49, 10-15; Osea 8,13; Os, 6,6; Ger 7, 4-15; Is 1, 11-15; 1Sam 15,22 ; Mi 6,7-8; Ger 7,21-23. Lo scriba di Marco 12,33 riprenderà questo concetto.

La stessa corrente laica affiora nella lunga preghiera di Salomone all’inaugurazione del tempio (1Re 8, 14-61), che insite sul concetto del tempio come luogo di preghiera, dove chiunque, anche gli stranieri, possono rivolgersi a Dio, ed incontrare la sua misericordia. Nella preghiera di Salomone non vi è nessun accenno ai riti, che pur si effettueranno nel tempio, e che lui stesso celebrerà poco dopo.

La stessa corrente laica affiorerà nel profilarsi dell’esilio, quando Ezechiele (11,16) riferirà le parole di Adornai “Così dice il Signore Dio….se li ho allontanati tra le genti e se li ho dispersi nelle terre, io sono diventato il loro santuario per poco nelle terre dove sono andati”. “Per la prima volta si afferma esplicitamente che l’appartenenza al Signore non è legata a un determinato spazio (terra o tempio che sia), ma unicamente al popolo, anche quando questi è stato allontanato dalla terra a causa della sua infedeltà”[27].

È molto importante constatare che quando il tempio fu distrutto dai Romani, gli ebrei lessero l’evento come espressione della volontà di Adonai di fare emergere la corrente ‘laica’, di tornare alle sue origini di popolo sacerdotale, sganciato dal culto del tempio. Così nel secondo secolo gli ebrei sostituirono i riti del tempio con le preghiere, che manterranno gli stessi ritmi[28], e trasformarono la santificazione degli spazi in santificazione dei ‘tempi’: il sabato e le feste. Il movimento laico del fariseismo, slegato dal tempio, sarà l’unico a sopravvivere,  trasformandosi, perché “…io voglio l’amore di misericordia e non il sacrificio (zebâh), la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Osea 6,6) .

 

 

 

“ …in Cana di Galilea manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cedettero in lui” (Gv 2,11)

 

Per l’annuncio della venuta del Figlio, il Padre avrebbe potuto scegliere lo spazio santo del tempio, come per Zaccaria, ed un momento particolarmente santo delle feste ebraiche, invece sceglierà il banale profano di una casa qualsiasi, in una cittadina della Galilea, di nessuna rilevanza religiosa. Si può obiettare, che si è inserito in un carne ‘santa’ e ‘sacerdotale’ (Es 19,6), fecondando il ventre di una donna ebrea, ma questa santità e questo sacerdozio sono pro-fanum, al di fuori degli spazi del tempio e del sacerdozio templare. Inoltre “È noto infatti che il Signore nostro è germogliato da Giuda e di questa tribù Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio.” (Eb 7,14).

Il Padre farà udire la sua voce riguardo al Figlio, non nella sfera santa del tempio, e sarebbe stata cosa facile per lui, dato che vi abitava, ma in riva ad un fiume, il Giordano, e su un monte, quello del Tabor, spazi questi, simbolicamente significativi, ma sempre profani.

Gesù non si scosterà da questa scelta del Padre. Manifesterà la sua gloria a Cana, in una festa profana di nozze (Gv 2,11). Predicherà e farà discepoli per le strade della Palestina, non disdegnando le terre impure pagane della Decapoli e di Tiro. Quando moltiplicherà i pani sarà nel deserto e su un monte. Quando darà il suo corpo da mangiare non sarà nel tempio, ma in uno spazio quotidiano di Gerusalemme. Quando arriverà il momento della sua morte la scelta del ‘pro-fanum’ diverrà radicale. Morirà fuori del tempio, fuori di Gerusalemme, per mano impura (pagana), in mezzo a due ladroni, crocefisso, come il maledetto da Dio. Assolutamente niente che possa essere paragonato ad un gesto religioso, ad una ‘immolazione’, ad un sacrificio, come dice la liturgia, compiuto in uno spazio sacro, dopo le purificazioni di rito. Sarà proprio questo insuccesso ‘profano’ a sconvolgere i discepoli.

Gesù frequenterà spesso il Tempio, ma come “casa di preghiera” (Mt 20,13) secondo la linea laica di Salomone. Per questo caccerà i venditori dal tempio, che lo avevano trasformato in ‘spelonca di ladri’ (Mt 21,12-13;Mc 11,15-17; Lc 19, 45-46; Gv 2,14-17). “Non si dice mai che prese parte ai sacrifici e a veri e propri atti di culto”[29]. Gesù non solo si inserì nella linea laica dei profeti, ricordando come i riti potessero facilmente divenire delle trappole, perché vissuti in maniera formale e sganciati dalla vita (Mt 5,23-24; 9,13; 12,7; Mc 7,11;12,33), ma annuncerà una novità ben più grande, annuncerà la distruzione del tempio “ Non resterà pietra su pietra” (Mt 24,2; Mc 13,2; Lc 21,6) e di conseguenza del culto relativo e del sacerdozio. “Il tempio infatti finirà non per cause intrinseche, politiche, economiche, e strategiche, ma perché il Signore lo fa finire!”[30].

Gesù dirà “ Credimi donna sta venendo l’ora in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre…Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in Spirito e verità”         ( Gv4, 21.24.). Con la sua ‘ora’, Cristo inaugurerà un nuovo luogo di culto, che elimina tutti gli altri, è l’intimo stesso dell’uomo, nel quale infonde il suo spirito. (Gv 7,39; Rm 8,9.11.). Ed il culto perfetto di Gesù fu il culto dell’ascolto della voce del Padre e dell’adempimento della sua volontà.

Gli apostoli e gli evangelisti capiranno molto bene questa totale ‘laicità’ di Gesù e della fede cristiana. Pietro, nella sua lettera (2,5), parla esplicitamente dei credenti come “pietre vive edificate come casa spirituale per un sacerdozio santo”, riallacciandosi alla corrente laica dell’Antico Testamento.

Paolo considererà la sua predicazione apostolica, una atto di culto (Rm1,9; 15,16) ed i doni dei Filippesi a lui, sacrificio gradito a Dio (Ef 4,18).  In 2Cor 6,16, dirà “Noi siamo il tempio del Dio vivo, secondo quello che Dio stesso ha detto: abiterò in essi e camminerò in mezzo a voi”. In Rm 12,1 usando la terminologia liturgico-spirituale con significato traslato, parlerà di culto razionale, invitando i cristiani ad essere contemporaneamente ‘sacerdoti’ e ‘vittime’. “L’Apostolo impone al vocabolario cultico precisi slittamenti di significato, che lasciano trasparire la sua chiara convinzione che l’economia cultico-sacrificale giudaica è ormai definitivamente superata”[31]. Il nuovo culto per Paolo è “il culto razionale” (loghikè latreia), che sta nella disponibilità di sé stessi a costruire una comunità che, solo in quanto tale, diviene “sacrificio vivente, santo, gradito a Dio.”[32]

Anche la lettera agli Ebrei userà la terminologia cultica in senso traslato, metaforico, come ben capirono i padri conciliari, che usarono la figura di Cristo Sommo Sacerdote della Lettera agli Ebrei ( 5, 1-5 ) per definire il sacerdozio comune di tutti i fedeli (Lumen Gentium n.10).

 Luca farà dire a Stefano “…il Dio che ha fatto il mondo…non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo, né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa…” (Atti 17,24-25).

 

  fino al cuore della terra ( Mt 12,40)

 

Il Verbo non solo scelse il pro-fanum, ma scelse una precisa modalità di incarnazione. Scelse di scendere dal suo Trono Altissimo, sempre più in basso, con un'unica direzione del suo venire, sempre più in giù. “Abbassò sé stesso essendo divenuto obbediente fino alla morte” ( Filip. 2,8).

Neonato fu deposto in una mangiatoia, non in una culla, e sperimentò subito l’umiliazione della fuga in terra straniera. Crescerà nella Galilea delle genti, terra disprezzata per il suo sincretismo religioso, di cui porterà il marchio tutta la vita per il ben riconoscibile accento galileiano della sua parlata (Pietro sarà tradito da questo accento (Mt 26,73).

Inizierà la sua missione mettendosi in fila tra i peccatori al Giordano, perché è lì, in basso, che lo vuole il Padre “perché si compia ogni giustizia” (Mt 3,15).

Si renderà impuro mangiando con i peccatori e con gli impuri.

Sperimenterà l’insuccesso della sua predicazione, nella linea del Servo del Signore “ Invano ho faticato, per nulla ed invano ho consumato le mie forze” (Is 49,4).

Riassumerà la sua azione missionaria dicendo “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27) e laverà i piedi ai suoi discepoli. Non diventerà perciò un capo, né religioso, né politico, e come maestro avrà poco successo.

Verrà riprovato e perseguitato dalle persone che contano, anziani e  sommi sacerdoti (Mt 21,23; 27,21; Mc 8,31; 15 1; Lc 9,22; 22,52). Per salvarsi la vita, sarà costretto a vivere in clandestinità (Gv 10,40).

La sua passione poi, è tutt’un discendere sempre più in basso. Inizia con l’umiliazione di non vedersi capace di accettare di buon grado il cammino che il Padre gli indica. Da un “come sono angustiato” (Lc 12,50), e “Ora l’anima mia è turbata” (Gv 12,28) si arriva al grido “L’anima mia è triste fino alla morte. Passi da me questo calice.” ( Mt 26,38-39; Mc 14,34-35; Lc 22, 42). Conoscerà il tradimento di un amico, che lo vende per trenta denari, che lo mette in mano alle autorità, dove sarà sottoposto al dileggio della soldataglia e del re Erode (Lc 23,11) e quindi, consegnato di mano in mano, arriverà a Pilato, che per ragioni politiche[33], lo renderà l’Ecce Homo (Gv 19,5), sfigurato, profetizzato da Isaia (53,3). Gesù continuerà a scendere sempre più in basso, sarà denudato e crocefisso tra due malfattori, come il maledetto da Dio (Dt 21,23) “ Deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori” (Is 53,12   Lc 22,37). Sperimenterà ancora la derisione (Mt 27,41) e l’abbandono di Dio (Mt 27,46). Da ultimo finirà la sua discesa nel “cuore della terra”, come disse Gesù stesso (Mt 12,40), dove resterà per tre giorni e tre notti, in attesa che il Padre esaudisca il suo desiderio di vita (Eb 5,7).

 

Questo inabissarsi di Gesù è il cammino che vuole il Padre, che va in direzione opposta all’atteggiamento dell’eroe che si immola, con un salire dal basso verso l’alto. È importante notare che gli evangelisti non dicono che Gesù ‘’ la vita, come viene generalmente tradotto. Il verbo greco (tithemi) significa ‘porre’, ‘mettere a disposizione’, come fa il servo (Gv 10,15.17.18; 15,13; 1Gv 3,16). Anche Pietro “porrà” la vita, non la darà (Gv 13,37-38). Dietro l’espressione ‘dare la propria vita’ vi è un atteggiamento non biblico, ed è una prospettiva pericolosa. Nessun ebreo può prendere l’iniziativa di dare la sua vita, nemmeno per cause nobili, perché la sua vita non gli appartiene, è di Adonai. Gesù non si offre mai alla morte (nonostante questo appaia nella liturgia), cerca piuttosto la clandestinità, subirà la morte per il tradimento di un amico, perché vuole che risulti chiaro che tutto quello che accade è opera del Padre, non sua. Sulla croce Gesù non si offre al Padre, si affida a lui. Dice Maggioni “Il Crocefisso non è un uomo che muore per Dio, ma il Figlio di Dio che muore per l’uomo”[34]. Gesù non è un eroe, come non lo furono tutti i grandi personaggi dell’Antico Testamento. L’eroe, in genere, è colui che si sente padrone della sua vita e decide lui come usarla, è colui che mette al centro dell’azione sé stesso, la sua volontà. Il Padre dei cieli non ama questi eroi, che decidono come deve andare la storia, vedi i kamikaze palestinesi.

Il Padre desidera solo figli obbedienti, come Gesù, che ascoltino la sua voce e mettano in atto la sua ‘misteriosa’ volontà “fino alla fine” (Gv 13,1 ). Dirà Gesù “bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e che agisco come il Padre mi ha ordinato” (Gv 14,31). Al centro dell’evento della morte di Gesù vi è solo la misteriosa volontà del Padre, che dà il Figlio (Gv 3,16), non quella di Gesù che si dà al Padre. Gesù solo si adegua alla volontà del Padre.

Per Gesù, mettere la vita a disposizione, significò in pratica  lasciare che la cattiveria degli uomini si scatenasse contro di lui, non opponendo resistenza al vedersi togliere la vita. Gesù userà i verbi della sua passione solo al passivo (Mt 17,22; 20,18; 26,2 e 24; 27,18; Mc 8,31; 9,31; 10,33; 14,31….Lc 9,44; 24,7), che si riassumono nella frase di Luca “Questo è il mio corpo consegnato per voi” (Lc 22,19), e sono passivi sia storici che teologici, come lo sono nella figura del servo di Adonai.[35]

 

Gesù non vede mai la sua morte come un sacrificio, ma piuttosto come un bere il calice dell’ira di Dio[36] ( “Potete bere il calice che io bevo?” Mc 10,38-39; Mt 20,22; Gv 18,11), perché è il maledetto appeso alla croce, come “una immersione (battesimo) con cui io sono immerso”(Mc 10,38: Lc 12,50). Come un esodo (Lc 9,30), come una pasqua, come un passaggio “Sapendo Gesù che era venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre” (Gv 13,1), “perché io vado presso il Padre” (Gv 14,12. 28.; 16,10.17.28).

Gesù è l’agnello sgozzato dell’Esodo (Ap.5,6.12. 7,14; 12,11), il cui sangue tenne lontano la giustizia di Dio, è un agnello macellato. Il verbo ebraico ‘shakât’ significa sgozzare per essere mangiato, cioè macellare. È quindi errata la traduzione in immolato sia della liturgia, che delle Bibbie di lingua italiana, probabilmente derivata dalla volgata. L’agnello pasquale non aveva niente a che fare con i riti del tempio, era banalmente macellato alla maniera ebraica, cioè sgozzato. Il rito della Pasqua era laico e familiare, slegato da spazi sacri[37]. È perciò doppiamente impropria l’espressione liturgica dei prefazi pasquali “ Cristo nostra pasqua si è immolato”, sia perché l’atteggiamento che sta dietro il verbo immolare non è biblico, sia perché il verbo è all’attivo e non al passivo. Paolo in 1Cor 5,7 lo userà al passivo, e con il significato profano di ‘ucciso’, perché legato al tema della pasqua (il verbo thuo in greco ha anche il semplice significato di uccidere, vedi Giov.10,10).

Nella discesa del Verbo c’è anche l’esperienza della impotenza, scelta e voluta, “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì bocca” Is 53,8.

Gesù avrebbe potuto facilmente annientare i suoi avversari (Mt 26,53), ma scelse la non violenza ad ogni costo.

 

 

Questo inabissarsi di Gesù nella carne e nelle conseguenze del peccato dell’umanità, è la misteriosa umiliazione del Figlio, il grande scandalo per ogni credente. Misteriosa umiliazione, che il cristiano dovrebbe contemplare ad ogni eucaristia, ma che invece, purtroppo, non è mai ricordata.

 

 

 

 

 

 

DALLA ‘CENA DEL SIGNORE’ AL ‘SACRIFICIO’

 

 

Nel Nuovo  Testamento

 

Gli esegeti concordano nel vedere le parole ed i gesti di Gesù sul pane e sul vino, nell’ultima cena, come il riflesso delle parole e dei gesti del rito eucaristico delle prime comunità cristiane.

Marco (14,22-25) e Matteo (26,26-29), seguendo la tradizione ‘gerosolimitana’, Paolo (1Cor 11, 23-26) e Luca (Lc 22, 15-20) seguendo la tradizione detta ‘antiochena’. Tutti e quattro i racconti usano i quattro verbi tipici del gesto di Gesù: ‘prendere’, ‘benedire o ringraziare’, ‘spezzare’, ‘dare’. Questi sono gli stessi verbi presenti nei racconti della moltiplicazione dei pani (Mc 6,32-44; 8,1-10; Mt 14,13-21; 15,32-39; Lc 9,10-17; Gv 6,1-15), se si eccettua Giovanni, che non ha il verbo ‘spezzare’. Questo indica il rapporto stretto, che gli evangelisti vedono, tra il gesto di Gesù nell’ultima cena e il gesto di Gesù nei racconti della moltiplicazione dei pani. Ne deriva, che il rito eucaristico delle prime comunità cristiane, veniva visto strettamente legato al racconto della moltiplicazione dei pani.

In questi racconti si possono evidenziare alcuni elementi fondamentali:

1)       il gesto di Gesù ha un significato ben preciso ed univoco: sfamare la gente, dare loro l’esperienza della sazietà e del ben-essere. In Giovanni sono come in un giardino, dall’erba verde, “in pascoli erbosi mi fai riposare” Sl 23/22,2. È il banchetto messianico, predetto dai profeti. Le ceste avanzate significano la sovrabbondanza del banchetto, che sazia del tutto la fame dei presenti.

2)       Gesù e la folla sono coprotagonisti, necessitano l’uno dell’altro. Infatti Gesù fa il suo gesto per la folla e la folla a sua volta non si sfama senza Gesù. A differenza degli altri evangelisti Giovanni non pone intermediari ( i discepoli) tra Gesù e la folla, il rapporto è diretto. Le folle sono commensali alla tavola che il Signore prepara per loro, “davanti a me tu prepari una mensa” Sl 23/22,5.

3)       la folla è una folla eterogenea, uomini-donne-bambini, che vengono da vicino e da lontano, giudei e pagani, tuttavia hanno un elemento che la caratterizza: sono tutti al seguito di Gesù, che considerano loro maestro e che cercano, sono tutti in cammino dietro a lui.

4)       il miracolo avviene in un luogo profano, al di fuori di recinti sacri, sebbene non in un luogo qualsiasi, avviene nel deserto o in cima a un monte, luoghi dove Adonai ha dato il pane da mangiare e la Torah[38] (Sl 78,24-25. 29; Sl 105,40; Sl 107,9).

 

Nell’ultima cena, al gesto di Gesù dello spezzare il pane vengono aggiunte le parole sul calice. Per la tradizione di Marco e Matteo, le parole di Gesù sul calice, rimandano all’alleanza del Sinai (Es 24,6-8), con l’aspersione sull’altare e sul popolo a significare l’intima comunione tra Israele e Adonai. Tuttavia il sangue di Gesù ha un elemento particolare, assente nel sangue dell’alleanza, è sangue “ che è versato per molti in remissione dei peccati” (Mt 26,28).

Per la tradizione antiochena di Paolo e Luca le parole di Gesù sono “questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue versato per voi”, rimandando alla nuova alleanza di Geremia ed Ezechiele, che completa il progetto di Dio con il dono dello Spirito,  porrò il mio spirito dentro di voi” (Ez 36,27)[39].

Paolo in 1Cor11,20-26, ci dà il documento più antico della celebrazione eucaristica, chiamata ‘cena del Signore’. Viene sottolineato sia l’aspetto del ‘convenire’, i credenti con-vengono (il verbo sunerkomai= radunare è presente molte volte v. 33,34,17,18,20), e sia l’aspetto del celebrare assieme  l’essere per loro di Gesù. La celebrazione viene vissuta in obbedienza al comando di Cristo “fate questo in memoria di me”, che non è solo il mangiare il pane e bere il vino[40] per fare comunione con Gesù risorto (“il calice della benedizione che noi benediciamo, non è comunione con il sangue di Cristo? Il pane che spezziamo, non è comunione con il corpo di Cristo?”) (1Cor 10,16), ma è anche il ricordare la sua morte, un memoriale quindi, nella prospettiva dell’alleanza e nell’attesa del suo ritorno (“annunziate la morte del Signore finché egli venga”) (1Cor 11, 26). L’attesa escatologica, infatti, appartiene alla natura stessa dell’eucaristia.

Per Paolo la comunità, che si ciba del corpo del Signore, coerentemente, deve esprimere la solidarietà fraterna del condividere, senza la quale non c’è eucaristia, e vivere quindi la koinonia “Essendo uno solo il pane, noi siamo un corpo solo sebbene in molti, poiché partecipiamo tutti dell’unico pane.” (1Cor 10,17). Paolo denuncerà come scandalosa la situazione di Corinto, dove i fedeli non si aspettavano gli uni gli altri per mangiare e stare insieme (1Cor 11, 33), e dove accadeva che vi era chi aveva fame e chi gozzovigliava (1Cor 11, 21).

Negli Atti la “cena del Signore” diviene lo “spezzare il pane” (2,42.46; 20,7.11) termine tecnico per indicare il rito cristiano, che si voleva distinto dai riti giudaici. Atti 20, 7-11 ci dà alcuni elementi che caratterizzano il rito di quell’epoca. Vi è una assemblea di fedeli, riuniti in una casa privata, nel giorno di domenica, per trattenersi con Paolo e per spezzare il pane. Tutto fa pensare che il trattenersi con Paolo significasse l’ascolto della ‘buona novella’. Luca mette in evidenza sempre due aspetti del rito, il primo l’aspetto conviviale e comunitario, come dire senza gente non c’è eucaristia, ed il secondo la presenza dell’insegnamento degli apostoli, secondo la tradizione sinagogale[41].

Tragan commentando l’ultima cena dice “Non si può isolare l’Ultima cena che Gesù si appresta a consumare con i suoi discepoli dalla lunga serie dei suoi pasti quotidiani. Ogni comunanza di tavola è per l’orientale un dono di pace, di fiducia, di fratellanza; la comunione conviviale è comunità di vita… Nei testi più tardivi dell’Antico Testamento, poi, il pasto acquista un significato profetico e messianico, come segno del banchetto escatologico preparato da Dio per tutti i popoli (Is 26,68; 55,1-3)… All’epoca di Gesù, infine, il banchetto escatologico era atteso come esperienza della salvezza definitiva… Ripetutamente i vangeli sinottici riferiscono che egli sedeva a tavola non con i discepoli soltanto, ma anche con i peccatori. Attraverso la comunanza di tavola, Gesù voleva esprimere l’interesse e l’amore di Dio per gli uomini e il suo atteggiamento di benevolenza e di misericordia ( Mc 2,13-17; Lc 7,36-49; 10,38-42; 19, 1-10)… L’importanza e il significato teologico che il Nazareno ha attribuito alla comunanza di tavola diviene dunque un importante chiave di lettura dell’Ultima cena stessa, perché tanto la berakkâh (eucaristein/euloghein), che l’insegnamento sul regno di Dio, sono stati elementi costitutivi sia dei pranzi di Gesù, sia della cena pasquale.”[42] Tragan commenta pure “Le tradizioni più antiche del Nuovo Testamento sono radicate nelle celebrazioni cultiche della comunità di Gerusalemme e della Palestina. L’atteggiamento dei primi cristiani nei confronti del tempio e della sinagoga fu di indipendenza e non di rottura, ciononostante i raduni dei credenti del Signore aboliscono ogni frontiera tra sacro e profano. Scompare dal culto cristiano il vocabolario ‘sacrale’: sacrificio, sacerdote, olocausto, offerta, rito di purificazione, abluzioni. E appaiono, invece, altre espressioni significative proprie: frazione del pane, agape, diaconia, raduno, cena del Signore, battesimo.”[43]

 

La ‘cena del Signore’ e la ‘fractio panis’ muteranno presto nome e diverranno eucaristia, già alla fine del primo secolo. Il termine si rifà alla preghiera di Gesù sul pane e sul vino (Mt 26,26-27), che rientra nell’area della  berakkâh ebraica[44], preghiera tipicamente giudaica di lode e di ringraziamento per le meraviglie che fa il Signore “Stupende sono le tue opere”(Sl 66/65, 3). Il fatto che il rito prenda nome da questa preghiera ne indica il ruolo chiave.

 

Negli autori cristiani antichi

 

La Didachè[45] è il primo testo extra-biblico che parla di una eucaristia, di un ringraziamento proprio e specifico, che accompagna il rito del calice e lo spezzamento del pane (Didachè 9,1-3; 10,3-4), compiuto dal vescovo[46] e dal suo diacono.

Questo testo nel c.9 e 10, per la prima volta, dice che il rito è una cena nella quale si partecipa al sacrificio[47], cioè un convito sacrificale. L’autore dice “rompete il pane e fate l’eucarestia, dopo aver confessato i vostri peccati, affinché sia puro il vostro sacrificio [48]…ecco la parola del Signore: che in tutti i luoghi e in tutti i tempi mi si offra un sacrificio puro…”. È il riferimento alla profezia di Malachia (1,11-14), che parla di ‘minhâ’ [49]. Il testo di Malachia fu scritto nella prima metà del V secolo a.C., tempo in cui si praticava il culto a pieno ritmo nel tempio appena ricostruito, ed è di fatto parte di una dura critica rivolta direttamente ai sacerdoti del tempio ed al loro modo impuro di celebrare. L’autore della Didachè sicuramente usa il termine sacrificio in senso metaforico, dato che chi presiede il rito è ancora una figura laica e le preghiere sono semplicissime e solo di ringraziamento e lode. È interessante notare che l’autore della Didachè scrive nello stesso tempo dell’evangelista Giovanni, o poco dopo. Ma ben diversa è l’impostazione data da Giovanni all’eucarestia nel c. 6 del suo vangelo, dove ne parla in termini profondamente laici, parla solo del ‘mangiare’ e del ‘pane di vita’. Già con la Didachè, quindi, le parole degli ‘antichi’ e la parola rivelata cominciano a distanziarsi.

Pochi anni dopo, Giustino[50] al c. 65 e 67 della sua Apologia I,  riprende il termine sacrificio (thysia) in un testo eucaristico più completo e lo fa diventare centrale nel rito. Lo stesso fa Ippolito di Roma[51] (200-250) che ci dà il testo più antico, completo, della preghiera eucaristica.

Nel II secolo i pagani, ormai in maggioranza nelle comunità cristiane, influenzati dal loro ambiente storico, sociale, culturale, cominciano ad interpretare i riti cristiani con le loro categorie religiose pagane. Inoltre leggono la Parola di Dio in greco, secondo la versione dei Settanta, già pesantemente influenzata dall’ellenismo e dalla cultura greca. Nello stesso secolo si ebbe, nella liturgia, il passaggio dalla lingua greca a quella latina, che inserì la mentalità romana, con avvicinamento alle formule cultuali romane ed al mondo del sacer. In conclusione il fenomeno, di per sé fisiologico, della inculturazione modificò la cena del Signore. Probabilmente la storia della liturgia eucaristica non poteva andare diversamente, dato che la fede dei pagani non aveva conosciuto il Dio della fede biblica.

Altro elemento storico da tenere presente: alla fine del primo secolo venne definitivamente consumata la rottura tra la Chiesa cristiana e la sinagoga. La mancata partecipazione dei cristiani nella rivolta di Gerusalemme del 70[52], aveva di fatto chiarito, ufficialmente, di fronte a tutti, che le due comunità erano diventate estranee l’una all’altra (vedi l’espressione di Matteo (23,34)  “ le vostre sinagoghe”), Questo significò da parte cristiana l’allontanarsi dalla radice ebraica ed il non accogliere alcuni degli aspetti radicalmente nuovi portati dal Figlio di Dio, così la depauperazione di senso del tempio e del sacerdozio. Il vino nuovo non riuscì ad entrare negli otri vecchi, e lo Spirito Santo lasciò fare.

Va notato che nel II secolo, nella ‘Epistola ad Diognetum’, di ignoto autore, vi era ancora chi sottolineava la differenziazione dei cristiani sul piano religioso, richiamandosi al carattere ‘altro’ del culto cristiano, al suo carattere ‘invisibile’ (6,9), ‘non umano’ (7,1), ma furono voci isolate. A partire dalla metà del terzo secolo vennero intenzionalmente costruiti edifici a scopo di culto, che costituirono le prime chiese propriamente dette.[53]

Di fatto Costantino Pontifex Maximus, nel 313 con l’editto di Milano, diede la libertà di culto ai cristiani e rese il cristianesimo religione di stato. Ci fu allora un esplodere del bisogno di un ‘sacro’ concreto, represso durante le persecuzioni. Ce ne parla Eusebio di Cesarea (265-339) “Per noi soprattutto fu una gioia indicibile e una felicità sovrumana…vedere lo spettacolo tanto da tutti desiderato e cioè un susseguirsi di feste di dedicazioni e di consacrazione[54] di chiese in tutte le città…Sì, tutto era splendido: le celebrazioni dei vescovi, i riti dei sacerdoti…”[55].  Si è ben lontani dalle ‘domus ecclesiae’ (Filem 1,2), e del  ‘non abbiamo altari’ di Minucio Felice[56].

Se ne può dedurre che il seme gettato dall’autore della Didachè circa il ‘sacrificio’ trovò terreno fertile e si sviluppò dando origine ad un albero frondoso dalle radici profonde, che riuscì a superare indenne tutte le intemperie (leggi eresie di vario genere, protestantesimo incluso) e ancora ora dà forma alla nostra celebrazione liturgica dell’eucarestia. Neppure il Concilio Vaticano II riuscì a scalfirlo, lasciando la ‘cena del Signore’ imprigionata dalla categoria cultuale del sacrificio[57]

Ambrogio (339-397), specificherà che questo sacrificio, è “figura” del corpo e sangue di Cristo[58], che è una forma superiore di sacrificio, “spirituale, incruento” (rationabilis hostiam, incruenta hostia) e per questo ben accetto a Dio, rifacendosi all’espressione paolina ‘loghikos’ di Rm 12,1[59]. Interpretazione questa, che ebbe molta fortuna, sia in Occidente che in Oriente.

Con Ambrogio la preghiera eucaristica divenne simile a quella del canone romano, e, secondo il concetto pagano di sacrificio, l’azione principale divenne l’offrire (of-ferre).

In Giustino non c’èra ancora l’atto dell’offerta. Viene semplicemente detto “Quando cessiamo di pregare, vengono portati del pane, del vino e dell’acqua a colui che presiede…il quale eleva al cielo preghiera ed azioni di grazie”[60] Il gesto della presentazione dei doni non comporta nessuna preghiera e nessuna solennità. Ma già con Cipriano (200-258) la parola celebrare diviene offrire il rito eucaristico[61]. Il vescovo Ireneo di Lione dirà senza mezzi termini “ Cristo prese il pane…e rese grazie dicendo: questo è il mio corpo. Similmente confessò che il calice era il suo sangue, e insegnò l’offerta del Nuovo Testamento, che la Chiesa, ricevutala dagli apostoli, offre a Dio in tutto il mondo” [62]. Si è entrati in quel atteggiamento di offrire per ottenere, atteggiamento non biblico ma tipico della religione greca-romana, con doppio movimento, il primo che nasce dal basso verso l’alto (l’offerta), ed il secondo dall’alto verso il basso, la discesa della salvezza dal cielo, come risposta di Dio. Il tema dell’offerta diventerà la caratteristica più notevole del canone romano[63], in cui domina la linea sacrificale.

 

Nei primi due documenti, la Didachè e l’Apologia di Giustino vi è il concetto di sacrificio, ma non ancora quello di sacerdote, si parla di ‘colui che presiede’ e di ‘episcopus’ rispettivamente, figure ancora laiche. Ma con il terzo secolo, appare la figura del sacerdote, colui che per definizione ‘pone il sacro’, ‘fa il sacrificio’. Cipriano dice “…quando radunati assieme ai fratelli si offre il sacrificio con il sacerdote di Dio…”[64]. I due termini, sacrificio e sacerdote si richiamano a vicenda, il sacrificio non può essere fatto senza sacerdote ed il sacerdote ha bisogno di un sacrificio per essere tale. La storia dell’eucaristia sembra dire che prima nacque l’idea del rito come sacrificio, ed in un secondo tempo, due secoli dopo, la figura del sacerdote[65], che diverrà poi sommo sacerdote, espressione regolarmente usata ancora oggi nella ordinazione episcopale.

Così il clero divenne presto una istituzione che si separò dal popolo laico, e fece gruppo a sé. Con il tempo questo trasformò l’eucaristia in una faccenda privata del sacerdote, uno spettacolo solo da contemplare. L’assemblea non era più protagonista, rimaneva solo una vestigia del suo ruolo nel plurale usato dal sacerdote “sacrifici che ti offriamo”, “noi tuoi servi…offriamo”, “noi peccatori tuoi servi”. Alla maniera pagana, il sacerdote è divenuto ‘mediatore’ tra il popolo e Dio, quasi l’assemblea non potesse, con il suo sacerdozio battesimale, accedere a Dio direttamente. Ne derivò una partecipazione sempre più scarsa alla comunione, tanto da dover istituire la regola di comunicarsi almeno una volta all’anno, a Pasqua (Concilio IV Lateranense del 1215). Si arrivò alla incongruenza delle messe ‘private’, dove il sacerdote era l’unico a celebrare e a comunicarsi, che scatenarono le reazioni dei protestanti. Ancora nel Concilio Vaticano II, nel “Decreto sul ministero e la vita sacerdotale” al n.14, viene raccomandata “la celebrazione quotidiana, la quale è sempre un atto di Cristo e della sua Chiesa, anche quando non è possibile che vi assistano i fedeli”, concetto ribadito nella lettera enciclica Ecclesia de Eucaristia, n. 31 del 2003.

Si può solo commentare che la eucaristia non aveva più nulla a che fare con la “cena del Signore” di Paolo. La Parola di Dio sembrava assente dalla teologia e dalla liturgia cristiana.

A proposito del rito di ordinazione del presbitero, è bene ricordare che all’inizio del III secolo, con Ippolito di Roma, il rito di ordinazione del presbitero era molto semplice, con la sola imposizione delle mani, ma susseguentemente il rito si arricchì di elementi assunti dalla società civile, specialmente dopo il X secolo, dall’ordinazione del re e dell’imperatore. I successori degli apostoli, infatti, erano divenuti signori feudali[66]. Si arrivò al Pontificale di Guglielmo Durand (XIII secolo), vescovo di Mende in Francia, che è sostanzialmente il Pontificale ancora in atto. La sua ispirazione teologica di fondo non è più quella biblica e neppure quella della tradizione liturgica antica. I riti sono divenuti spettacolari, con l’unzione crismale del capo, consegna del pastorale, anello, intronizzazione, imposizione della mitra e dei guanti, unzione delle mani… tutti simboli legati alla gestione del potere o ad uno status di gloria.

Del servire di Gesù senza potenza, in mezzo alla gente, laico tra i laici, non è rimasto quasi nulla.

 

 

Nel Concilio di Trento

 

Il Concilio di Trento non sviluppò un pensiero teologico nuovo sull’eucarestia, si limitò a riaffermare la tradizione, in polemica con le tesi protestanti.

Il tema dell’eucaristia come sacrificio acquistò una importanza mai vista prima, sia sul piano teologico che su quello cultuale e liturgico[67]. Venne sottolineata la distinzione tra sacramento e sacrificio, che risaliva alla prima scolatica, ripresa da S. Tommaso. La natura conviviale del rito fu considerata di secondo piano. La Pasqua venne menzionata solo come immolazione dell’agnello per mano dei sacerdoti, completamente sganciata dalla sua dimensione comunitaria e dall’ordine di  mangiare la pasqua (Es 12,8 ). Fu il tempo in cui Paris de Gressis disse, nel 1516, “Ma se i segreti del culto sono rivelati e le cerimonie diventano accessibili, ne risulterà ipso facto una perdita di prestigio”[68]

Il concilio vide la croce come un altare, con il doppio movimento del Cristo che si immola e della virtus salvifica che scende, secondo la categoria del sacrificio pagano. Anche il “fate questo in memoria di me” viene riferito all’offerta del sacrificio, non a prendere e mangiare il suo corpo ed a bere il suo sangue.

Il Concilio si rese conto che la prassi celebrativa non era sempre coerente con il dato della fede, ma non affrontò con coraggio il problema. Nella prassi lasciò che si desse più importanza alla comunione spirituale e alla ‘visione dell’ostia’, che al partecipare alla comunione. Si credeva che l’effetto salvifico dell’eucaristia si potesse avere semplicemente guardando l’ostia, senza mangiarla. Dopo il Concilio di Trento si iniziò l’amministrazione della comunione del tutto indipendentemente dalla messa.

Proprio perché venne sottolineato il sacrificio, acquistò maggior valore la figura del sacerdote, come ‘mediatore cultuale’, che offre all’altare il sacrificio per il popolo per fare discendere i doni dall’alto. Il prete è il ‘sacrificatore’[69], figura cultuale e sacrale, a cui viene chiesto di essere separato dalla comunità. Per questo abbandonò l’abito secolare per indossare la tunica e la cotta, per questo studiò e si preparò in luoghi separati per lui, i seminari, per avere una formazione teologica, spirituale superiore ai laici, ridotti,questi, ad essere i destinatari della azione della Chiesa.[70]

 

 

Nel  Concilio Vaticano II

 

Il Concilio Vaticano II propose un nuovo modello di Chiesa, la chiesa come popolo di Dio, e la riforma liturgica fu il riflesso di questo nuovo modello, con il recupero del ruolo fondamentale dell’assemblea, modellato sulla Qahal ebraica ( Es 24, 1-11 e Atti 7,38), che nella celebrazione della Pasqua ritrovava sé stessa come popolo di Dio (Dt 4,10; 9,10; 18,16). Il primato dell’evento spetta a Dio, è lui che convoca, non è il popolo che per sua iniziativa si raduna. Al n.6 della S.C. si dice che il popolo risponde riunendosi in assemblea e compiendo così il primo atto liturgico, a cui segue il celebrare il mistero pasquale, mediante la lettura della S. Scrittura, mediante la ripresentazione della vittoria sulla morte, mediante l’azione di grazia, per virtù dello Spirito Santo. Elementi questi che, tuttavia, non verranno più ripresi negli altri testi del Concilio.

Se l’assemblea è protagonista, non può essere passiva. Al n. 48 della Costituzione sulla sacra Liturgia (S.C.), si legge, infatti, “La Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori…partecipino all’azione sacra consapevoli, piamente e attivamente”, concetto ripreso al n. 14. Alcune modifiche del rito saranno introdotte proprio per questo, così l’uso della lingua volgare, l’altare rivolto verso il popolo, alcuni brevi interventi dell’assemblea nel rito, ecc.

Il Concilio recuperò anche l’importanza della Parola di Dio nel rito[71], suggerendo di allargare la gamma di testi da usare, e sottolineando l’importanza dell’ascolto, che caratterizza la comunità cristiana, come già caratterizzò Israele, “ Ho domandato loro solo questo: ascoltate la mia voce! Io diventerò il vostro Dio e voi diventerete il mio popolo.” ( Ger 7,23) .

 

Tuttavia il concilio rimase ancora strettamente legato alla categoria cultuale del sacro, cioè al sacrificio ed al sacerdote. Parlò spesso di Cristo come sacerdote (S.C. 7 e 83, Costituzione dogmatica sulla Chiesa, L.G., 5,10, 13, 28, 34, 41, Decreto sulla formazione sacerdotale 4,8 ecc.) e dell’eucaristia come sacrificio (S.C. 2,6,10,12, 47, L.G. 28 ecc.), con la sottolineatura dell’ offerta e dell’ offrire, così al n. 48 di S.C. “ i fedeli…rendano grazie a Dio offrendo l’ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire sé stessi…”, concetto ripreso da L.G. 10. Ed al n. 5 del Decreto sul ministero e vita sacerdotale, dice “Pertanto i presbiteri insegnino ai fedeli a offrire la divina vittima a Dio Padre nel Sacrificio della messa, e a fare, in unione con questa vittima, l’offerta della propria vita”.

Il Concilio al n. 10 della L.G.,  lega il sacerdozio dei fedeli all’immagine di Cristo Sommo Sacerdote della lettera degli Ebrei (5,1-5), invece di legarlo al loro essere membri del popolo di Dio, di cui si parla in Apocalisse 1,6, e in Pietro 2,4-5 “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa” e che pure il Concilio cita.

Nel decreto Presbyterorum Ordinis, n.2, il Concilio ripropone la sacra potestà dell’Ordine, che si esprime prima di tutto con l’offrire il Sacrificio, e, conseguentemente, con lo svolgere in forma ufficiale la funzione sacerdotale, nella linea del Concilio di Trento. La funzione sacerdotale del presbitero verrà continuamente ripresa, anche se il Concilio menzionerà altre sue funzioni come l’annunziare la Parola e il suo essere pastore (P.O.n.4 e 6).

Si può forse dire che il Concilio Vaticano II ebbe un atteggiamento poco chiaro nelle sue aperture teologiche, perché da una parte inserì nozioni bibliche nuove, vedi la Chiesa come popolo di Dio, ma non seppe o non potè trarne tutte le conseguenze, e d’altra parte non fu capace di liberarsi del vecchio mondo del sacer romano, quindi del binomio sacerdote /sacrificio, con tutte le conseguenze che ne derivavano sul piano pratico. 

 

 Questa rapida carrellata sulla storia del rito eucaristico, mostra come, sin dall’inizio del II secolo, la mentalità religiosa pagana abbia influito sulla pratica celebrativa e come nel giro di pochi secoli la cena del Signore si sia radicalmente allontanata da quello che, nel primo secolo, era un semplice riunirsi in spazi comuni, non consacrati, per mangiate il pane della vita, per ascoltare la Parola di Dio e conseguentemente ringraziare e lodare il Signore. Nel rito si inserirono atteggiamenti religiosi non biblici, quali l’offerta di un sacrificio per mano di un sacerdote, che attraverso i secoli giunsero fino a noi. Sono proprio questi atteggiamenti non biblici che ora necessitano di una radicale conversione, perché superati dalla mentalità laica della società di oggi. È tempo di riscoprire l’attualità della Parola di Dio e di Gesù, che è parola ‘laica’ e che permetterebbe agli uomini ed alle donne d’oggi di ‘sentirsi a casa’ nel rito eucaristico, prerequisito indispensabile, perché questi diventi sorgente di vita.

 

 

 

PER UN NUOVO RITO EUCARISTICO

 

 

Come si è visto, nel II° e III° secolo la cena del Signore si modificò per una vera inculturazione. Perché non seguirne l’esempio e modificare l’eucaristia attuale, quasi-fotocopia della eucaristia di S.Ambrogio (339-397), adeguandola alla nostra cultura occidentale del 2000, molto più simile alla cultura laica dell’ebreo Gesù, di quanto non fosse la cultura pagana romana dei primi secoli? Perché non ritornare alla “radice santa” (Rm 11,16), alla radice di Gesù di Nazaret?

Sia la distinzione, nel rito, tra sacrificio e sacramento, sia il romano sacrum facere non appartengono alla fede biblica, perché non superarli?

Il rigurgito di paganesimo dei movimenti della New Age, alla ricerca del sacro, può essere contrastato solo con riti cristiani, laicamente significativi, che sappiano coniugare l’esigenza di spiritualità con la secolarizzazione positiva del nostro tempo. Che sappiano creare non luoghi sacri, separati, ma luoghi dello spirito, dove si possa incontrare l’antidoto alla desertificazione della propria interiorità, provocata dalla cultura post-moderna, dove si possa sperimentare il silenzio contemplativo del mistero, e dove la spiritualità non sia astratta o al riparo dalla storia.

È da notare che una desacralizzazione della eucaristia non significa affatto una ‘desantificazione’ della stessa. La presenza di Cristo rimane più santa che mai, ma nell’intimo del cuore del fedele, dove Gesù vuole abitare. Si tratta di passare da una ‘sacralizzazione’ del secolare ad una ‘santificazione’ del medesimo, che è ben altra cosa.

 

 

Per essere concreti, si possono indicare alcune linee essenziali di trasformazione, lungo le strade indicate dal Concilio Vaticano II, che pur nei suoi limiti, aveva cercato di aprire nuovi orizzonti.

 

Prima di tutto:

# recuperare tutta la laicità dell’evento eucaristia, che non è un sacrum-facere, un sacrificio, una immolazione, da celebrare in uno spazio sacro, per mano di un sacerdote, ma un raccogliersi in assemblea per accogliere Gesù risorto, che viene in mezzo ai suoi, come dono del Padre, ricordando che non è il Figlio che si dà, ma è il Padre che dà il Figlio “il pane di Dio è quello che scende dal cielo” (Gv 6,34). Ogni evento eucaristico segna il passo cadenzato del Dio della storia che vuole stare in mezzo ai suoi, in mezzo al mondo concreto delle sue creature, come queste lo forgiano, non separato in spazi ‘addetti’ all’eucaristia. L’evento eucaristico deve quindi essere celebrato in spazi quotidiani, dove la comunità si ritrova per vivere la sua fraternità, e la sua koinonia, anche al di fuori della celebrazione eucaristica. Va ricordato che il pane disceso dal cielo è fatto per essere mangiato e non conservato. Solo se il pane/corpo di Cristo scompare nell’intimo dei credenti e non è conservato in un luogo separato, si sperimenta concretamente la trasformazione dell’assemblea in corpo di Cristo. Se l’eucaristia è un evento, non può essere partecipato a chi è assente. Vi sono altri sacramenti che possono essere distribuiti a chi è malato o morente.

Chi presiede, secondo l’Ordine ricevuto dalla Chiesa, dovrebbe essere cosciente di essere, come era Gesù, laico tra laici. È ancora tutta da scoprire l’altezza, la profondità, la larghezza del compito del Presbitero, come costruttore di comunità, maestro di preghiera, esegeta, custode del vangelo, educatore dei credenti e loro guida. Il Presbitero deve essere cosciente che i due co-protagonisti dell’evento-eucaristia,  sono il Signore e l’assemblea, che lui deve solo servire.

 

# Se laicizzare il rito significa superare la categoria di sacrificio, concretamente bisogna cominciare con l’eliminare l’offertorio, ricordando che Gesù nell’ultima cena non offre nulla al Padre e nemmeno agli apostoli dice di offrire, dice piuttosto di fare in sua memoria i suoi gesti, di benedizione, di ringraziamento, e dice poi di prendere e di mangiare.

L’offertorio, che è l’elemento portante di ogni sacrificio, andrebbe sostituito dalla presentazione dei doni di Dio, come già si tenta ora “ Benedetto sei tu Signore, Dio dell’universo…lo presentiamo a te”, che riecheggia la preghiera del padre di famiglia ebreo all’inizio del pasto[72]. Andrebbe eliminato l’arcaico “Orate frates” dell’VIII secolo (“Pregate fratelli perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre Onnipotente….)[73]. Tutto fa pensare che l’Orate fratres sia stata mantenuto perché si ebbe il timore che le aperture del Concilio Vaticano II facessero eclissare la categoria cultuale del sacrificio. Questo era necessario per mantenere il celebrante sacerdote. Fu persino immessa una frase, che non esisteva nel rito eucaristico prima del Concilio Vaticano II, nel bel mezzo delle parole sul pane e sul vino, che secondo i vangeli Gesù non disse, e che, in quanto ebreo, è impensabile che abbia detto, precisamente la frase “offerto in sacrificio per voi”. Il fatto che solo la lingua italiana abbia questa frase, mentre le altre lingue correnti adoperano la frase di Luca “consegnato per voi”, rinforza l’ipotesi che i liturgisti romani considerino tabù intoccabile il concetto di sacrificio.

Superare la categoria di sacrificio significa anche eliminare la distinzione tra sacrificio e sacramento della scolastica, ripresa dal Concilio di Trento, che pone il cibarsi del corpo di Cristo alla fine del rito. È per mangiare il corpo di Cristo e bere il suo sangue, che si è convocati. Non ha senso, perciò, relegare questo atto alla fine, come accade ora, seguito dall’immediato scioglimento dell’assemblea. Le parole di Gesù “prendete e mangiate”, andrebbero messe subito in atto, senza separare, come è ora, la sua venuta dalla sua manducazione (sacramento). Se le preghiere di lode, di ringraziamento e di intercessione al Padre fossero fatte dopo la comunione, e non prima, queste sarebbero dette veramente “per Lui, con Lui, in Lui”, e sicuramente sarebbero più gradite all’Altissimo.

 

# laicizzare il rito significa anche evidenziare il carattere conviviale del rito, che è un banchetto escatologico. È un pasto festoso, perché si accoglie Gesù risorto, che vuole entrare nell’intimo del credente per trasfigurarlo “colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6, 57). Il c. 6 di Giovanni dà materiale in abbondanza per esprimere questo concetto: “Io sono il pane della vita (Gv 6,35 e 48), “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51), “il pane di Dio è quello che scende dal cielo e dà la vita al mondo” (Gv 6,34), “Chi si ciba del mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui” (Gv 6, 5). …È il grande tema di Adonai che sazia la fame delle sue creature “Tu sazi la fame di ogni vivente” (Sl 145,16), “Ristorerò l’anima stanca, sazierò ogni anima che languisce” (Ger 31,25), “Mi sazierò come a lauto convito e con voci di gioia ti loderà la mia bocca” (Sl 63/62,6).

Il convito eucaristico è un banchetto particolare, perché è mangiare la pasqua (Mt 26,17; Mc 14,12.14; Lc 22,8.11.15), “Gesù è l’agnello pasquale che nel suo passaggio al Padre conduce alla salvezza tutti i credenti (Gv 13,1 in rapporto a Gv1,29.36)”[74]. Mangiare la sua carne è quindi un evento di liberazione dagli idoli dell’Egitto, che ci rendono schiavi.  Più che mai l’uomo d’oggi, irretito dal numerosissimi idoli di cui si è circondato, ha bisogno di riconoscere la necessità di una continua liberazione, che da solo non è in grado di procurarsi. Liberazione dai determinismi sociali, politici, religiosi, che inconsciamente si è costruito, e che lo allontanano da quell’immagine di figlio di Dio che gli appartiene con il battesimo. Ad ogni eucaristia il cristiano deve rendesi conto che la liberazione di cui ha bisogno, viene solo da Dio ed ha uno scopo preciso: renderlo servo del Signore, che mette in pratica i suoi insegnamenti. Questa liberazione segue altre vie rispetto a quelle della società civile. Dice Maggioni “La libertà evangelica non solo si distingue radicalmente dalla libertà intesa come esaltazione dell’istinto, ma anche della nobilissima libertà dello stoico, intesa come dominio consapevole e forte di sé….paradossalmente il vangelo dice che l’uomo trova la sua libertà ‘consegnandosi’ e non possedendosi”[75].

 

Il credente non può non ricordare che ogni pasto è sempre anche una condivisione dei beni, tanto più lo è la cena del Signore, lo ricordava Paolo ai Corinzi (1Co 11,17-22). L’eucaristia, allora, deve fare scoprire il rapporto dono-responsabilità-condivisione, legato alla gratuità del servizio al fratello, di cui ci si deve sentire responsabili, a somiglianza del Figlio venuto ad essere solidale con l’uomo nella vita e nella morte. Questo va espresso attraverso gesti di fratellanza, costruzioni di progetti di solidarietà, di impegno sociale e politico, che dovrebbero nascere spontanei nel confronto con la parola di Dio appena ascoltata e interiorizzata .

 

# laicizzare il rito significa agganciare il rito eucaristico alla vita, tramite il tema cardine dell’alleanza. Gesù è morto per fedeltà all’alleanza. Il sangue di Gesù è sangue di alleanza “ Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti” (Mc 14,24). Gesù muore perché ha ascoltato il Padre nel suo desiderio di vederlo ‘aderire’ a Lui. “ Dice il Signore…come questa cintura aderisce ai fianchi di un uomo, così io volli che aderisse a me tutta la casa di Israele e tutta la casa di Giuda, perché fossero mio popolo, mia forza, mia lode, e mia gloria, ma non mi ascoltarono” (Ger 13,11). Gesù fu colui che aderì al Padre “fino alla fine”, ricalcando il cammino del ‘servo sofferente’ di Isaia, il servo fedele all’alleanza, sino alla fine. Il credente non può se non seguire la stessa strada ed è bene che se lo ricordi ad ogni eucaristia. Chi partecipa all’eucaristia dovrebbe sentirsi in prima persona partner dell’alleanza (“io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo”), e cominciare a confrontarsi con questa sin dal momento penitenziale.

 

#  laicizzare l’eucarestia significa, ancora, rendere il memoriale (zikaron) della morte di Gesù, una haggadah, un racconto, una lettura dei fatti storici che l’hanno prodotta, avvenuti in un luogo preciso, in un tempo preciso. Fatti storici che non vanno sublimati, ma espressi in tutta la loro crudezza, in tutto il loro scandalo (tradimento di Giuda, connivenza del potere politico e religioso per eliminare una persona ‘scomoda’, l’uso corrotto della giustizia (Lc 23,12), la sofferenza di Gesù “Come sono angosciato finché sia compiuto” Lc 14,50)…). Dice Maggioni “Il divino si è fatto umano eccetto il peccato, ma non eccetto le sue conseguenze, cioè non escludendo dalla propria esistenza il trauma che il peccato produce…L’umanità di Gesù va pienamente difesa, perché solo così l’uomo può avvicinarsi sempre più al volto vero di Dio, al mistero.[76]” Il memoriale dovrebbe essere epifania di quel mistero che si è incarnato, e continua ad incarnarsi,  nel terreno accidentato della storia.

I fatti storici accaduti a Gesù si ripropongono ancora oggi e perciò nella lettura della storia di Gesù, e della sua morte, il cristiano non solo contempla il mistero, ma trova una guida di comportamento, l’haggadah diventa così halakah, la via che l’uomo deve seguire.

Nel mondo attuale che sottolinea come massimo valore il vincere, il primeggiare, l’ottenere la soddisfazione dei propri desideri, anche a scapito dei desideri degli altri, trasformando gli altri in antagonisti (mors tua vita mea), piuttosto che in fratelli, è indispensabile ricordare ad ogni eucaristia lo scendere sempre più in basso di Gesù ed il suo rifiuto di ogni violenza: “Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). “Se dunque io, il Signore ed il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14). Rovesciamento questo, che non solo indica che non bisogna primeggiare, ma che bisogna ‘servire’ in umiltà e non in ‘potenza’. La Chiesa, come istituzione, molto spesso ha dato un pessimo esempio di cosa vuol dire servire in umiltà, e non in potenza. Non è stata capace di fidarsi unicamente dell’assistenza di Dio, e così nel corso della sua storia ha considerato indispensabile usare mezzi umani con potenza. Ma non è questa la via del cristiano, ogni eucaristia ce lo dovrebbe ricordare.

 

La lista dei cambiamenti necessari per laicizzare il rito potrebbe continuare ( vedi il rendere l’assemblea protagonista del rito), ma con quanto detto sopra, è già stato dato materiale sufficiente per stimolare una riflessione, che sappia spingere, con l’aiuto dello Spirito Santo, ad un radicale aggiornamento del rito eucaristico, basato su un ritorno alla Parola di Dio e su una presa di distanza dalla ‘tradizione degli antichi’, come faceva Gesù.

Quello che tutti ci auguriamo è di essere capaci di leggere i segni dei tempi e di ascoltare la voce dello Spirito, che soffia dove vuole e forse parla dove meno ce lo si aspetta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nicoletta Crosti

Vernate CH,  agosto 2004

nicolettacrosti@bluewin.ch

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1]  Squeri Pier Angelo “Ma che cosa è questo per tanta gente?”, Ed. Glossa Milano, 1998, pg 18 e 89.

[2] Maggioni B. “La parola si fa carne”, EMI della Coop. SERMIS, Bologna, 1996, 138

[3] Fugier H Recherches sur l’espression du sacrè dans la lange latine, Publ. Faculté des lettres, Strasbourg, 1963.

[4] Block R. The origins of Rome, Thames and Hudson, London, 1958

[5] Sabbatucci D.  Sacer, Studi e materiali di storia delle religioni, n. 23, Roma, 1951-52., 91-101.

[6] ibidem, 98

[7] secondo Fuget la parola sacerdote viene dal sanscrito sakro-dot = colui che pone il sacro.

[8] Lea Scazzocchio Sestieri “Sacralità delle norme giuridiche del Pentateuco”, Il Diritto La Società Il Sacro n.1 1974, La Nuova Italia, Firenze, 65-80.

[9] ne deriva che la parola sacrifici delle Bibbie in lingua corrente, riferiti ai riti del tempio (zebâch, selâmîm, minhâ, hâttât), è fuorviante, anche se generalmente usata, non avendo un corrispettivo nelle lingue correnti. Già l’ellenismo sperimentava lo stesso problema. Ultimamente si è cominciato a non tradurre i termini ebraici dei riti, vedi la Bibbia Ebraica Interlineare, Ed S. Paolo, Cinisello Balsamo, 2000.

[10] De Vaux “Le istituzioni dell’Antico Testamento”, Marietti, Casale Monferrato, riedizione del 2000, 405.

[11] “Le traduzioni ‘sacrificio pacifico’, e ‘sacrificio di salvezza’ si ispirano alla versione greca, ma rituale e prassi definiscono piuttosto tale sacrificio come rendimento di grazie a Dio e mezzo di unione con lui”. R. De Vaux , ibidem, 406.

[12] Lea Scazzocchio Sestieri, ibidem, 71.

[13] non è un caso che la liturgia cristiana parli di ‘presentazione’ di Gesù al tempio e non di ‘offerta’ di Gesù al tempio.

[14] l’unica cosa che l’uomo può offrire a Dio è la sua volontà.

[15]citato da  C. Di Sante “La preghiera di Israele” Marietti, Casale Monferrato, 1985, 37

[16] Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1948, 843.

[17] il verbo immolare viene da ‘in’ (= sopra) e ‘mola’ (= macina, era il farro macinato con cui si cospargeva il capo della vittima sacrificale).

[18] nel secondo Tempio ricostruito dopo l’esilio, lo spazio più interno resterà vuoto, suscitando l’ilarità dell’imperatore Tito ; infatti l’arca era andata perduta nella precedente distruzione di Gerusalemme.

[19] The Hebrew-Greek Key Study Bible, 1984, Chatta Nooga, Tn 37422, USA, sotto la voce ‘kippur’ e ‘kapporet’.

[20] Brueggermann W. ‘Teologia dell’Antico Testamento’ Queriniana, Brescia, 2002, 859

[21] Il termine ebraico kapporet è di origine incerta, ma molti esegeti ora la fanno derivare dal verbo ‘coprire’. Secondo Brueggermann là la presenza di Dio ‘copriva’ i peccati, le colpe, le offese che avevano allontanato Israele da Adonai. Breuggermann, ibidem, 861.

[22] Secondo R. De Vaux solo nei riti pubblici intervenivano i sacerdoti e i leviti (2Cron 29,22.24.43; Ez 44,11.), quando la vittima entrava in contatto con l’altare. Ibidem, 405.

[23] Ska J.L. “Introduzione alla lettura del Pentateuco”, EDB, Bologna, 2000, 154

[24] Ska ibidem, 154

[25] Così l’episodio di Core (Num c.16) e l’ordine contradditorio di Adonai, che ordina a Mosè di andare dagli anziani (Es c. 3) e poi gli manda incontro Aronne ( Es 4,21 ).

[26] R. Aron “Così pregava l’ebreo Gesù” Marietti, Casale Monferrato, 1982, 127

[27] Odasso G. “L’esilio come luogo di salvezza” in Parola Spirito e Vita n. 47, EDB Bologna, 2003,36.

[28] da cui le nostre preghiere cristiane dette ‘delle ore’: vespri, mattutino, lodi, ora media.

[29] Maggioni B. ‘Liturgia e culto’ in Nuovo dizionario di Teologia Biblica, Ed Paoline, Cinisello Balsamo, 1988, 843

[30] Bianchi E. Evangelo secondo Marco, Qiqajon, Bose, 1984, 241.

[31] Perroni M.”La tensione culto-comprensione: la teologia liturgica-sacramentale di Paolo” in Corso di Teologia Sacramentaria, 1, Queriniana, Brescia 2000, 250

[32] Perroni, ibidem 253.

[33] Lc 23,12 “Erode e Pilato, che prima erano nemici, da quel giorno diventarono amici”.

[34] Maggioni B. ‘Padre Nostro’, Vita e Pensiero, Milano, 1995, 25.

[35] Grelot P. “ I canti del servo del Signore”, EDB, Bologna, 1883, 141.

[36] “L’ira del Signore è una espressione metaforica con la quale si connota la sua totale e assoluta avversità al peccato”  Odasso G. ‘L’esilio come luogo di salvezza’ Parola Spirito e Vita n. 47, EDB, 2003, 45.

[37] Il fatto che al tempo di Gesù,  gli agnelli pasquali venissero macellati al tempio era solo per comodità, dato che la gente che veniva da ogni dove non poteva portarsi dietro l’agnello, e la macellazione non poteva farsi da chiunque.

[38] è il Pentateuco, i primi 5libri della Bibbia.

[39] L’eucaristia cristiana celebra, allora, non solo la memoria della passione e morte di Gesù, ma anche l’effusione dello Spirito, secondo la profezia di Gioele (3,1-5; cfr Atti 2,14-36 “Io effonderò il mio spirito sopra ogni persona”).

[40] il vino sarà bevuto dai fedeli fino al XII secolo.

[41] per Gesù Mt,4,23; 9,35; 13,54; Mc 1,21; 6,2; Lc 4,15-16; 6,6; 13,10; Gv 5,59; 18,20 e per gli apostoli Atti 4,2. 18; 5,21-25.28.42; 11,26; 15,35…..

[42] Tragan P.R. ‘L’eucaristein neotestamentario, orizzonte ermeneutico di una teologia dei sacramenti cristiani’ in Corso di Teologia Sacramentarla vol 2, Queriniana, Brescia, 2000, 44-45.

[43] Tragan P.R. ‘Culto e Scrittura:una dinamica ermeneutica’ in Corso di Teologia Sacramentarla vol 1, Queriniana, Brescia, 2000, 202.

[44] Marsili S. ‘La cena del Signore è una eucarestia’ in  Anàmnesis  3/2 la Liturgia, eucaristia, Marietti Casale Monferrato 1983,16.

[45] o Dottrina dei Dodici Apostoli è di autore anonimo, scritto probabilmente tra il 90 ed il 110. Si rivolge a uditori che provengono dal paganesimo, il suo insegnamento è fondato su la tradizione giudeocristiana.

[46] il termine ‘episcopo’ è mutuato dalla società civile, significa ‘ispettore’, ‘sorvegliante’, è presente anche in Atti 20, 28; Filip 1,1; 1Tim 3,1-2; Tt 1,7, con una accezione laica, slegata dal mondo del sacro. Maggiani  dice che  solo con il III secolo vescovo e presbiteri diventano ‘sacerdoti’. ( ‘La prassi ecclesiale dei sacramenti’ in Corso di Teologia  Sacramentarla vol 1, Queriniana, 2000, 60.

[47] Marsili S.ibidem 28.

[48] il termine greco è thysia, preso dalla versione greca dei LXX.

[49] la minhâ era un rito incruento del tempio in cui si presentava a Dio, farina (con o senza olio), riconoscendola come suo dono e  per fargli piacere. 

[50] Giustino è nato in Palestina da famiglia greca, ha studiato i filosofi greci  e cerca di fare incontrare le religione cristiana con la filosofia greca. Si conosce solo la data della sua morte il 165 e.v., scisse l’Apologia I ad Antonino Pio.

[51] scrittore cristiano di lingua greca, scrisse la Tradizione Apostolica.

[52] Brox N. “Lineamenti del cristianesimo delle origini” Concilium, 1971/7,Queriniana, Brescia, 53.

[53] Rigetti M. Storia Liturgica IV, Áncora, Milano, 1959, 504.

[54] la consacrazione allora consisteva solo in una prima celebrazione eucaristica solenne, con carattere pubblico. Vedi Rigetti M, Storia Liturgica IV, Áncora Milano, 1959, 504.

[55] Hist. eccl 10,2-3: PG 20, 845ss. citato da Marsili ‘La celebrazione dell’eucaristia nella teologia dei Padri’in Anàmnesis 3/2, ibidem, 33.

[56] Octavius 32,1 citato da Marsili  Anàmnesis 1, la Liturgia, Marietti, Casale Monferrato, 1979, 57

[57] in tutti i documenti del Concilio Vaticano II si parla di eucaristia come Sacrificio. Vi è un unico tentativo di esprimere in modo diverso l’eucarestia alla fine del n. 6 della Costituzione sulla Sacra Liturgia, che tuttavia inizia ricordando che l’eucaristia è Sacrificio.

[58] De Sacramentis, IV, 27 citato da Nocent E. ‘La Liturgia dell’eucaristia’ in Anàmnesis 3/2, Marietti, Casale Monferrato,1983, 234. Eucaristia 234.

[59]  l’esegesi odierna dà un altro significato a questa espressione paolina.

[60] citato da E. Nocent ‘La liturgia dell’eucarestia’ in Anàmnesis 3/2, Marietti, Casale Monferrato, 1983, 225.

[61] Epistola 5,2 citato da Marsili ‘La celebrazione dell’eucaristia nella teologia dei Padri’, ibidem  30

[62] citato da Marsili S. ‘La cena del Signore è una eucaristia’ in Anàmnesis 3/2, ibidem 29

[63] Nocent A. ibidem, 238.

[64] De domin. orat. 4, citato da Marsili S. ‘La celebrazione dell’eucaristia nella teologia dei Padri’, ibidem, 30.

[65] il Concilio di Trento fece derivare in maniera esplicita il sacerdozio dal sacrificio.

[66] Brovelli F. ‘Dell’analisi dello sviluppo storico’,  Anàmnesis Liturgia I Sacramenti, teologia e storia delle celebrazioni. Marietti,  Casale Monferrato, 1989, 255.

[67] Marsili S. Anamnesi 3/2, ibidem, 60.

[68] citato da Vogel C. in “Alienazione del culto nei confronti della comunità cristiana”, Concilium 1972/2, Queriniana, Brescia, 26.

[69] Xerees Rivista del Clero Italiano n. 5 2003, 344.

[70] Colombo Rivista del Clero Italiano, 2, 2004, 122.

[71] Costituzione sulla sacra Liturgia n. 51 e Costituzione sulla Divina Rivelazione al n. 21 e 26.

[72]attualmente in questa preghiera la liturgia inserisce anche l’azione dell’uomo (“frutto dell’azione dell’uomo”), alterando quell’aspetto tipico della preghiera ebraica che mette solo Dio al centro di tutto.

[73] da notare la distinzione, che non ci dovrebbe essere, tra ‘mio’ e ‘vostro’ e l’ipotesi che il rito possa non essere gradito a Dio, quasi fosse questo, un atto dell’uomo e non di Dio.

[74] Festorazzi F. “La celebrazione della pasqua ebraica” Parola Spirito e Vita n.7 Ed. Dehoniane, Bologna, 1979, 21

[75] Maggioni B. “Il seme e la terra” Vita e Pensiero, Milano, 2003,41.

[76] Maggioni B. ‘La parola si fa carne’, ibidem, 48-49.