Per
un rinnovamento del servizio papale nella Chiesa. I primi “cento giorni”
(Da “L’officina bolognese”, pp. 209-213)
Gli atti iniziali di un nuovo pontificato rivestono un’importanza decisiva
anche per tutto lo sviluppo successivo, perché costituiscono un indizio
pubblico degli orientamenti del papa e della Chiesa, e soprattutto perché nelle
prime settimane il nuovo eletto ha una freschezza interiore intatta e un
prestigio non ancora mortificato dalla routine. È pertanto fondamentale che nei
primi “cento giorni” emergano con chiarezza e vigore gli orientamenti-guida,
che indichino coraggiosamente la fisionomia dominante del nuovo periodo di
servizio petrino che si apre.
VESCOVO DI ROMA SENZA PIÙ VICARI
In quanto vescovo di Roma sarà decisivo che il nuovo eletto mostri di sentirsi
tale (indipendentemente dalla sua nazionalità di provenienza), assumendosi in
prima persona oneri e funzioni attinenti alla vita della Chiesa di Dio
pellegrina in Roma. Non vi è possibilità di onorare le dichiarazioni dottrinali
del Vaticano II e di Paolo VI sul fatto che il papa è anzitutto vescovo di Roma
se non facendo in modo effettivo, cioè non solo simbolico od occasionale, il
vescovo di questa Chiesa: una Chiesa d’altronde che ha un antico bisogno
insoddisfatto di una diretta paternità episcopale. Occorrerà dunque esprimere
con atti non equivoci che il papa ha la consapevolezza di fede di essere tale
in forza non del titolo, ma del fatto reale di essere in concreto il vescovo
che celebra a Roma l’eucarestia, diffidando dalle formule “vicariali”, che
hanno ormai un significato di sgravio di responsabilità e di disimpegno.
GOVERNO COLLEGIALE
In quanto patriarca della Chiesa occidentale e capo della Chiesa cattolica
romana alcuni dei primi atti non potranno non riguardare il nodo cruciale degli
organi preposti alla comunione, alla solidarietà e all’unità delle Chiese. A
questo proposito si pone anzitutto il problema della creazione di un vero e
proprio organo che insieme al vescovo di Roma presieda agli aspetti comuni
della vita delle Chiese (in analogia con il concistoro medievale e con il
sinodo permanente orientale). Si può pensare cioè a un organo collegiale che,
sotto la presidenza personale ed effettiva del papa, tratti almeno
bisettimanalmente i problemi che si pongono alla Chiesa nel suo insieme,
prendendo le decisioni relative.
La formazione di tale organo potrebbe, inizialmente, non essere che “ad
experimentum”, a condizione che comprenda esclusivamente membri del collegio
episcopale scelti liberamente dal papa. In un secondo tempo alcuni di essi
potranno essere designati dal sinodo dei vescovi e altri ancora cooptati con
una maggioranza speciale dai membri di nomina papale e sinodale. Questo organo,
dovendo adempiere essenzialmente a un servizio di orientamento, di guida e di
decisioni operative, dovrà essere stabile (ma con rinnovamenti periodici) e di
composizione ristretta e perciò agile: forse non più di dodici membri. Potrà
esere opportuno che di volta in volta esso sia integrato da presidenti o delegati
di determinate conferenze episcopali per argomenti specifici. La competenza di
questo organo dovrebbe essere la stessa del capo del collegio episcopale, cioè
tutte le “causae maiores” sulle quali singoli membri dovrebbero riferire di
volta in volta. Le decisioni dovrebbero essere prese all’unanimità o, in caso
di necessità, a maggioranza, purché essa comprenda sempre anche il voto del
papa. Dovrebbe essere chiaro che non si tratta di uno strumento di
coordinamento delle congregazioni della curia romana, ma bensì di un organo
nuovo che si situa al livello della guida suprema della Chiesa cattolica per
esprimere e rendere operante la corresponsabilità del collegio episcopale
universale col suo capo, il vescovo di Roma. Ciò implicherebbe rendere abituale
la modalità collegiale di esercizio della responsabilità suprema nella Chiesa
ed eccezionale la modalità personale.
SINODO DELIBERATIVO
Simmetricamente sarebbe necessario riconoscere al sinodo dei vescovi una
capacità legislativa vera e propria, sempre sotto la presidenza e direzione del
papa. Conseguentemente esso potrebbe avere una periodicità almeno annuale e
forse semestrale (in analogia con i sinodi romani che per secoli si sono
celebrati nel periodo pasquale e in quello dell’avvento) e possibilmente anche
una maggiore rappresentatività del popolo di Dio.
CURIA IN SUBORDINE
È facile vedere che la curia romana – possibilmente snellita e in taluni casi
dislocata in altre aree cristiane – dovrebbe svolgere un servizio subordinato
di preparazione e, rispettivamente, di esecuzione delle decisioni del sinodo
dei vescovi ed dell’organo collegiale di governo.
CHIESE LOCALI VALORIZZATE
Peraltro, direttamente connesso con questi aspetti istituzionali generali dovrà
essere l’atteggiamento e la prassi del papa di promuovere con rispetto e
delicatezza fraterna la responsabilità e i carismi delle singole Chiese locali
nel fermo ed esplicito convincimento che ciascuna di esse consuma
nell’eucarestia l’intero mistero del Cristo Signore e che, nello stesso tempo,
tutte hanno bisogno di vivere, di confermare la propria fede e di correggersi
nella comunione universale presieduta e alimentata dal successore di Pietro
sulla cattedra romana. In questa prospettiva il criterio di sussidiarietà
attende ancora di essere reso operante nel riconoscimento di ambiti nei quali
l’originalità cristiana delle Chiese, e soprattutto delle Chiese del terzo
Mondo, può recare apporti preziosi a una maggiore fedeltà della Chiesa intera
al suo Signore e all’Evangelo.
VESCOVI ELETTI IN LOCO
A questo proposito un segno inequivocabile potrebbe riguardare sin dai primi
giorni l’accettazione e la promozione da parte di Roma di modalità
differenziate e sperimentali nella scelta dei vescovi, onde preparare una
progressiva riappropriazione effettiva di tale responsabilità da parte delle
comunità ecclesiali interessate, evitando che ciò avvenga attraverso
lacerazioni conflittuali, ma in un equilibrio sano tra spontaneità e comunione
ecclesiale.
NUNZIATURE ABOLITE
Un segno diverso, ma di significato analogo, potrebbe consistere nell’affidare
le funzioni attualmente deputate ai nunzi ai presidenti delle conferenze
episcopali nazionali, accentuando progressivamente lo spostamento di tale
servizio dai rapporti tra la Santa Sede e i governi alle relazioni di comunione
tra le Chiese di una determinata area e il centro della comunione stessa. Con
ciò si supererebbe una delle sopravvivenze più sconcertanti della concezione
della Chiesa come potenza tra le potenze e del papato come “monarchia”.
NUOVI GESTI ECUMENICI
Se si dilata ulteriormente l’orizzonte a tutte le Chiese e comunità ecclesiali
cristiane dell’Oriente come dell’Occidente, è evidente che i tempi sono maturi
– soprattutto per l’opera di Giovanni XXIII e di Paolo VI, del Vaticano II e di
molte altre istanze ecclesiali – perché la dimensione effettivamente ecumenica
del servizio petrino cominci a riacquistare la sua consistenza. In questa
direzione si possono immaginare almeno due atti iniziali.
Anzitutto un invio ai grandi patriarcati della tradizione apostolica
(Costantinopoli, Antiochia, Alessandria e Gerusalemme), alle altri sedi
maggiori – a cominciare da Mosca – e a coloro che sono preposti alla comunione
delle Chiese e comunità delle grandi tradizioni cristiane (nestoriani,
monofisiti, protestanti, anglicani) della comunicazione dell’elezione del nuovo
vescovo di Roma. Una comunicazione che, pur senza assumere del tutto il modello
delle antiche lettere di comunione, trascenda completamente i livelli
burocratici o diplomatici e costituisca un umile e consapevole atto di offerta
e di richiesta di comunione nella fede e nella carità. Ciò rappresenterebbe uno
sviluppo della “teologia delle Chiese sorelle” profilata ripetutamente da Paolo
VI, e un rilancio della ricerca di unità potentemente alimentata dal Vaticano
II.
A breve distanza potrebbe far seguito una seconda iniziativa consistente in una
solenne e pubblica dichiarazione di disponibilità del papa, in accordo col suo
organo collegiale, a partecipare a un’assemblea cristiana preconciliare destinata
a raccogliere tutte le Chiese cristiane nel rispetto della loro attuale
consapevolezza evangelica, nella prospettiva di realizzare livelli sempre più
pieni di unità, destinati a trovare infine sanzione in un concilio “ecumenico”
vero e proprio.
PAPA MONARCA, ADDIO
Non occorre qui sottolineare il valore e i limiti di atti e inziative
prevalentemente istituzionali, come quelli ora ipotizzati. Basti aggiungere che
anche tali atti o altri equivalenti, e magari anche più adeguati, potrebbero
mancare quasi completamente gli effetti di rinnovamento del servizio papale
nella Chiesa se non fossero accompagnati e animati da un’attitudine di servizio
tanto profonda da far superare la vischiosità tenacissima di un costume papale,
in cui i secoli hanno lasciato vistose incrostazioni.
Il convincimento di dovere decidere da solo, di non potere rinunciare ai
simboli monarchici del potere e dell’autorità, la rassegnazione a nascondere la
virtù personale sotto i paludamenti pontificali (residenza, abiti, titoli, segreto,
ecc.) costituiscono solo gli aspetti più vistosi di tale vischiosità. Sarebbe
perciò altamente desiderabile che il futuro vescovo di Roma fosse confortato e
incoraggiato a mostrarsi per quello che realmente è, e non sotto le spoglie di
suoi antecessori forse lontanissimi. Per questa generazione la prova della
perennità del papato consisterà soprattutto nell’assistere alla sua capacità di
rinnovamento e di veracità, e non nella sua immutabilità, come è stato in altri
tempi. Nella misura in cui tutto ciò è vero, occorrerà prestare grande
attenzione alla prassi ordinaria del servizio papale, affinché la sua routine
non contraddica lo sforzo di rinnovamento ma anzi lo esprima con coerente
docilità. Ciò potrà essere agevolato se il nuovo papa vorrà compiere tempestivamente,
secondo il suo genuino carisma personale, alcuni segni emblematici realmente
capaci di realizzare ciò che significano, e non altisonanti enunciazioni
ideologiche.
Altrettanto importante sarebbe la convinzione che nel papa le virtù pubbliche
sono almeno altrettanto indispensabili di quelle private. Il che significa che
la salvezza del papa si gioca non solo sulla sua fedeltà interiore all’Evangelo
ma ancor più sulla sua capacità di essere papa secondo modalità evangeliche, di
modo che nel papa e al di là del papa ogni uomo possa e debba riconoscere
l’unico Signore della Chiesa e della storia che salva nell’amore.