Un'analisi critica dell'enciclica Ecclesia de Eucharistia

Articolo pubblicato sul numero 19 della rivista Parvis, settembre 2003.

Il giovedì santo, 13 aprile 2003, Giovanni Paolo II ha pubblicato un'enciclica sull'Eucaristia di cui si può leggere il testo completo sul sito del Vaticano. Il teologo Pierre de Locht ne opera qui un'analisi critica.

 

L'enciclica Ecclesia de Eucharistia

La recente enciclica sull'eucaristia, testimonianza della devozione e della fede di Giovanni Paolo II, è in quanto tale del tutto rispettabile, pur divenendo problematica nella misura in cui questa espressione personale è presentata e si vuole esemplare e normativa per i cristiani del mondo intero.

Nella misura in cui l'enciclica può essere oggetto di un dibattito franco ed aperto, rivestirà allora un'importanza autentica. Imposta come "la fede" della Chiesa, è destinata ad accrescere le divisioni all'interno della Chiesa e a rendere più difficile l'avvicinamento ecumenico.

Chiudendo l'enciclica Giovanni Paolo II chiede di dare all'Eucaristia tutta l'importanza che merita, "badando con ogni premura a non attenuarne alcuna dimensione né alcuna esigenza" (n. 61).

È in questa prospettiva che vorrei porre il mio intervento. Perché l'Eucaristia, presentata essenzialmente come oggetto di culto e di adorazione e puntellando una certa concezione della Chiesa, non risponde molto all'ampiezza che un gran numero di cristiani le riservano. È proprio l'approccio unilaterale e parziale, e persino tendenzioso all'Eucaristia, come è presentata nell'enciclica, che pone un serio problema.

1° - L'Eucaristia, come ci è proposta, è incentrata non sull'insieme della vita di Gesù, ma esclusivamente sulla sua passione, morte e risurrezione, da cui la sua realtà innanzi tutto sacrificale.

Non è la vita di Gesù che sarebbe rischiarante e alla quale saremmo chiamati ad ispirarci, ma soltanto la sua passione e la sua morte. Importa "vivere nell'Eucaristia il memoriale della morte di Cristo" (57).

L'insistenza sul carattere sacrificale dell'eucaristia, sul "sacrificio eucaristico" (30) o sul "convito sacrificale" (48) porta a pensare che solo la sofferenza sia redentrice. Una sofferenza valorizzata in se stessa, quando Gesù ha lottato senza sosta contro tutte le forme di sofferenza. "Li guarì tutti", ci dice il Vangelo. Questa insistenza esclusivamente sacrificale rischia di mantenere l'immagine perversa di un Dio che avrebbe avuto bisogno del sacrificio di suo figlio per riscattare il genere umano. Questo sacrificio, ci dice l'enciclica, "è dono innanzitutto al Padre... Sacrificio che il Padre accettò" (13). Serviva dunque la morte di suo Figlio e un'obbedienza che arrivasse fino a quel punto, per salvare l'umanità e riconciliarla con il Padre?

Gesù non ha però assolutamente cercato né la sofferenza né le condizioni ignominiose della sua morte. Ma non ha voluto, per sfuggire alla propria fine tragica, rinnegare l'orientamento dato alla propria vita, tutta incentrata sull'amore. L'attenzione a ognuno e in particolare ai più miseri e abbandonati, la lotta per la liberazione da qualunque oppressione, compresa quella dei sommi sacerdoti e del tempio, la costante preoccupazione di raccogliere nella comunità coloro che la società è incessantemente tentata di scartare... hanno animato tutta la sua maniera di essere. Invece che una realtà sacrificale, la condivisione del pane e del vino, lasciata in testamento da Gesù, non sarebbe il segno di una vita animata interamente dall'amore, e fino alla passione e morte? "Perché siano una cosa sola" (Gv 17,11)?

Quando Gesù dice "Questo è il mio corpo", propendo a pensare che intenda esprimere con ciò di fare pienamente corpo con noi, di essere in comunione totale con l'umanità in divenire. Gesù presenta in qualche modo la sua morte vicina e manifesta anche il dono di se stesso, la propria solidarietà, qualunque ne sia il costo. E ci chiama ad una solidarietà simile. Con la parola che accompagna la condivisione del calice afferma, a mio parere, che è la stessa vita a colare nelle nostre vene. Siamo dello stesso sangue. Ciò che costituisce la nostra unità di fondo e che spiega peraltro questa ricerca innata di un mondo veramente fraterno e solidale, un mondo in cui regna l'amore. Perché Dio è amore, ed è la vita stessa di Dio che cola nelle nostre vene. Ed è perché noi siamo dello stesso sangue, sangue che ha la propria fonte in Dio, che il meglio di noi è tutto teso verso l'amore.

E tuttavia è l'aspetto sacrificale che l'enciclica ci ripropone senza sosta. "Questo sacrificio è talmente decisivo per la salvezza del genere umano che Gesù Cristo l'ha compiuto soltanto dopo averci lasciato il mezzo per parteciparvi come se vi fossimo stati presenti. Ogni fedele può così prendervi parte e attingerne i frutti inesauribilmente" (11).

Come? Pensavo che fosse edificando la propria vita in linea con la sua Buona Notizia. Invece no, celebrando l'Eucaristia: "Con un contatto attuale, questo sacrificio ritorna presente, perpetuandosi sacramentalmente in ogni comunità" (12). Così, la Chiesa accede a questo sacrificio redentore mediante l'Eucaristia. In tal modo "applica agli uomini di oggi la riconciliazione ottenuta una volta per tutte da Cristo" (12).

Tutto si muove dunque all'interno di una liturgia sacrificale, sufficiente a se stessa.

2° - L'eucaristia, rappresentazione sacramentale del sacrificio di Cristo, non è soltanto il ricordo di ciò che è accaduto un tempo all'ultima cena, ma è ogni volta "un autentico sacrificio" (17). E questo mediante "una presenza specialissima, una presenza reale" (15), cioè sostanziale, con la quale Cristo si rende interamente presente. Viene allora proposta nuovamente la dottrina sempre valida del concilio di Trento, "la transustanziazione".

Il concilio di Trento (1545-1563) non ha soltanto definito la presenza reale, ma anche il modo con cui questa presenza si realizza: mediante l'onnipotenza di Dio si opera una conversione completa di tutta la sostanza del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo.

Ad ogni Eucaristia il pane e il vino, dei quali non resta che l'apparenza, smettono di esistere, sostituiti dal corpo e sangue di Cristo. Bisogna veramente intendere in senso del tutto materiale la parola di Gesù all'ultima cena? S. Efrem, nel iv secolo, scrive: "Prendete, mangiatene tutti, e mangiate con lui lo Spirito Santo. È veramente il mio corpo, e colui che lo mangia vivrà eternamente". Questa citazione, ripresa dall'enciclica (17), non indica che "mangiare" non deve essere inteso alla lettera, in senso materiale? Non più che in Ez 3,1 e Ap 10,10-11, dove si tratta di "mangiare il libro".

"Mangiare il corpo e bere il sangue di Gesù", presi in senso materiale, sollevano domande enormi. Quando Gesù era presente, all'ultima cena, ci sarebbe stata, quando pronuncia queste parole, una duplicazione della sua persona nel pane e vino condivisi con i suoi discepoli? Nuova anomalia: sebbene la sostanza del pane e del vino sia mutata, questi continuano a condizionare la durata della presenza eucaristica. È in effetti materia di fede, secondo il concilio di Trento, ed è ripreso nell'enciclica, che "il Cristo è presente nell'Eucaristia immediatamente dopo la consacrazione e vi rimane fintanto che le specie sussistono" (25). Specie che, pur non avendo più sostanza, sarebbero tuttavia sottomesse alla digestione. Qual è allora la realtà del pane e del vino da cui dipenderebbe la permanenza della presenza eucaristica? Sottigliezze sorprendenti!

Basta fare appello all'autorità del concilio di Trento e alle dichiarazioni del magistero, tra cui il Catechismo della Chiesa Cattolica pubblicato nel 1992, e nel contempo affermare che si tratta di un dogma di fede, per fare accettare oggi una concezione simile della presenza reale, che solleva enormi interrogativi?

A questo proposito si innesta in effetti una domanda molto più ampia riguardante le modalità di alleanza tra Dio e noi. Il divino non può essere presente nel nostro universo se non facendo da parte le nostre condizioni abituali d'esistenza? Perché il pane e il vino, pur continuando ad apparire tali, devono cambiare di sostanza per essere espressione della presenza dell'amore di Dio là dove siamo raccolti nel suo nome? Inoltre perché, se Dio si incarna in Gesù di Nazaret, è necessaria una nascita al di fuori delle condizioni normali di ogni concepimento umano? Come sarebbe richiesta la nascita verginale di Gesù, non ci sarebbe presenza del Cristo risuscitato a meno che non vi sia più né pane né vino?

Tutto ciò pone alla nostra ragione e alla nostra fede serie obiezioni che non si possono schivare. Se si deve cancellare l'umano perché Dio sia presente nel mondo, l'unico atteggiamento degno dell'uomo non sarebbe di rifiutare un Dio che gli impedisce di essere completamente se stesso, responsabile e libero? Una tale presentazione di Dio non spiega, almeno in parte, l'ateismo contemporaneo? In quanto cristiano, non posso più accettare un Dio che non sarebbe presente se non scartando l'umano. Non corrisponde né al messaggio di Gesù Cristo, né al Dio del Primo Testamento. Ricordiamoci che è per celebrare la pasqua giudea, in memoria del Dio che libera da ogni schiavitù, che Gesù ha riunito i suoi in questo banchetto eucaristico.

3° - Nell'enciclica nessun riferimento alla liturgia della Parola. Sarebbe quindi senza importanza questo tempo in cui la comunità, riunita nella riconoscenza e nell'azione di grazie, si nutre dei grandi testi biblici per penetrare la portata vivificante e il loro senso nell'oggi?

Così, vengono passati sotto silenzio gli anni di vita pubblica di Gesù, il suo modo di essere con i contemporanei, il tono del suo insegnamento, come se importassero solo la sua passione e morte, che tuttavia non prendono il loro vero senso se non nell'insieme degli anni vissuti con i suoi.

Da allora l'umanità, nella sua varietà di condizioni di vita, di approcci e di comprensione della Buona Notizia, è assente da questo pasto eucaristico amputato della liturgia della Parola.

Senza alcun legame esplicito con la vita quotidiana, l'Eucaristia costituisce anche una realtà in sé, sufficiente a se stessa e che dà vita ad un culto, un'adorazione. È peraltro richiesto di "restare in adorazione davanti ad essa al di fuori della messa. ... Il culto reso all'Eucaristia fuori della Messa è di valore inestimabile nella vita della Chiesa" (25). Questa è la devozione, il culto di Giovanni Paolo II riguardo all'Eucaristia.

4° - L'Eucaristia che edifica la Chiesa e con la quale la Chiesa si identifica, come è presentata nell'enciclica, è un'Eucaristia amputata, concentrata esclusivamente sulla parola di consacrazione del celebrante.

L'assemblea è assente. Non è lei a celebrare, è il sacerdote. Solo lui recita (è il vocabolo utilizzato dall'enciclica) la preghiera eucaristica. È "insostituibile per collegare validamente la consacrazione eucaristica al sacrificio della Croce e all'Ultima Cena" (29). Si ricorda anche che a presenza dei fedeli non è indispensabile (31).

Il sacerdote che celebra lo fa "in persona Christi", cioè identificandosi in modo "specifico, sacramentale col sommo ed eterno Sacerdote... Il ministero dei sacerdoti che hanno ricevuto il sacramento dell'Ordine, nell'economia di salvezza scelta da Cristo, manifesta che l'Eucaristia, da loro celebrata, è un dono che supera radicalmente il potere dell'assemblea" (29).

Ministero tanto indispensabile "che conduce a non perdere nessuna occasione di avere la celebrazione della Messa, anche approfittando della presenza occasionale di un sacerdote" (33). Anche quando l'enciclica fa riferimento alla preghiera rivolta al Signore perché invii operai alla sua messe, si tratta evidentemente di sacerdoti.

Alla preghiera eucaristica il popolo "si associa nella fede e nel silenzio" (57). "Il popolo che celebra fedelmente la messa secondo le norme liturgiche e la comunità che vi si adegua manifestano, in modo silenzioso ma eloquente (!) il loro amore per la Chiesa" (52). Non si tratta di "alcuna diminuzione per il resto del Popolo di Dio, giacché... questo dono ridonda a vantaggio di tutti" (30).

Tutto si realizza mediante la parola consacrante del sacerdote; è lui a "compiere la consacrazione", per riprendere la formulazione dell'enciclica, mentre nella liturgia ufficiale è lo Spirito che dona al pane e al vino la loro portata autentica, da cui l'invocazione dell'epiclesi: "Che questo stesso Spirito Santo, te ne preghiamo, santifichi queste offerte, perché diventino il corpo e il sangue di tuo Figlio". Gesù non dice: "È bene che me ne vada. Perché se non parto, non verrà a voi il Paraclito. Se al contrario parto, ve lo manderò... Quando verrà lo Spirito di verità, vi farà accedere alla verità tutta intera" (Gv 16,7.13...)? È perché il pane e il vino si trasformino secondo il senso materiale della parola in corpo e sangue di Cristo che si invoca nell'epiclesi lo Spirito Santo . O perché lo Spirito di Dio, il soffio di santità, lo Spirito che soffia ovunque nel mondo, sia accolto da ognuno e che il così il nostro mondo diventi, grazie all'Amore che si incarna nelle nostre vite, sacramento di Dio, icona terrestre dell'amore infinito di Dio?

5° - La consacrazione eucaristica basta a se stessa, senza un legame esplicito e vitale con il modo d'essere cristiani nel quotidiano.

Poi improvvisamente, al numero 20, un bellissimo passo sui nostri doveri di cittadinanza terrena, sull'impegno cristiano nella vita concreta. Ma rapidamente, anziché mettere in evidenza e sviluppare la relazione essenziale tra la celebrazione e la vita quotidiana in tutta la sua complessità, dove si pongono i grandi appelli di Gesù all'aiuto vicendevole e all'amore del prossimo, al servizio e dono di sé, là dove si vive il messaggio delle beatitudini, l'enciclica torna senza indugio alla liturgia.

È a quel punto che mi è apparso chiaro dove si ponesse il nocciolo della mia difficoltà e il motivo del crescente malessere che avvertivo avanzando nella lettura dell'enciclica. Ci troviamo davanti due comprensioni molto diversi dell'eucaristia.

O la celebrazione dell'eucaristia costituisce il cuore stesso della vita cristiana, il luogo in cui si realizza l'essenziale del mistero cristiano, oppure l'eucaristia esprime e celebra liturgicamente ciò che si compie innanzi tutto nel quotidiano dell'esistenza. Viene prima la vita che è sacramentale, di cui la celebrazione è l'espressione liturgica, oppure la celebrazione liturgica che è primordiale, pur avendo delle conseguenze nella vita quotidiana?

Mi sembra che tutto l'orientamento cristiano contemporaneo tenda a far uscire la fede cristiana dai luoghi di culto, nella coscienza che il modo di condurre la propria vita alla luce dello stile di vita e del messaggio di Gesù è il terreno per eccellenza della vita di fede. Non è forse quello che ha ispirato il Vaticano II? E prima ancora, lungo diversi decenni, lo sviluppo dell'apostolato, delle forme diverse dell'azione cattolica?

Ora, lo sviluppo dell'enciclica va esattamente nel senso opposto. Per Giovanni Paolo II l'essenziale si vive nella celebrazione eucaristica, che bisogna peraltro prolungare il più possibile con il culto eucaristico, "sostando in adorazione davanti a essa al di fuori della messa" (25). Adorazione del Santo Sacramento che non esiste in oriente, presso i greco-cattolici o i melchiti. Non esiste nelle chiese un tabernacolo, ma solo un deposito in sacrestia per la comunione dei malati e dei morenti.

Al numero 20, quando si tratta dell'impegno di trasformare la vita, si cita la lavanda dei piedi, ma senza mostrarne il legame vitale e insieme sacramentale con la condivisione del pane e del vino. Si tratta solo del prolungamento nel quotidiano dell'essenziale che si compie nella celebrazione. È là che si "effettua l'opera della nostra redenzione" (21).

C'è stata l'occasione di sottolineare che nel racconto pasquale il vangelo di Giovanni non parla della condivisione del pane e del vino, ma, con una identica solennità, della celebrazione pasquale sotto forma di lavanda dei piedi. "Prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora..., Gesù si alza da tavola, prende un panno... e si mette a lavare i piedi dei suoi discepoli" (Gv 13,1 e ss.). Così, grazie ai due racconti, si stabilisce un legame vitale e sacramentale tra la condivisione del pane e del calice e il servizio del prossimo, espresso dal padrone di casa che prende il posto dei servi ai piedi dei discepoli.

Nell'enciclica la fede è concentrata interamente sulla celebrazione eucaristica. Sarebbe quindi in essa, e non nella vita corrente, che si partecipa fondamentalmente alla vita del Cristo. Il cuore della vita cristiana non sarebbe nel modo di vivere nel quotidiano, ma nella partecipazione o assistenza alla celebrazione eucaristica?

La richiesta di Gesù: "Fate questo in memoria di me" è citata in riferimento a Maria. Come lei, dobbiamo aver fiducia nella parola di suo Figlio, "egli, che fu capace di cambiare l'acqua in vino, è ugualmente capace di fare del pane e del vino il suo corpo e il suo sangue" (54). Eppure, quando Gesù dichiara: "Fate questo in memoria di me", ci raccomanda soprattutto di moltiplicare il gesto liturgico, o di tradurre nella vita di tutti i giorni il servizio di aiuto reciproco e di solidarietà, l'unico adatto a costruire un mondo di giustizia e di amore a misura di Dio?

Dopo questo bel passo del n. 20, mi attendevo dunque che l'enciclica sviluppasse il modo con cui Cristo si rende presente in qualche modo nel nostro stile di vita nel quotidiano. Ricordandomi oltre tutto, secondo Matteo 25, che è solo di questo che si tratterà sulla soglia dell'eternità: "Quello che avete fatto al più piccolo dei vostri fratelli, l'avete fatto a me". No, questo passo non è che una parentesi, e si ricade in considerazioni puramente interne sul ruolo riservato nella celebrazioni al sacerdote, sulle condizioni di validità della sua ordinazione, sulla disciplina e gli interdetti liturgici...

6° - L'enciclica accentua ancora la distanza tra il sacerdote e i cristiani comuni.

Questo ministero ordinato è "un dono che la comunità riceve attraverso la successione episcopale risalente agli apostoli" (29).

Accostandomi al capitolo sull'apostolicità, credevo ingenuamente che si parlasse finalmente dell'apertura dell'Eucaristia alla vita, del suo legame con il modo di incarnare la Buona Notizia di Gesù nel mondo presente. No, si tratta esclusivamente del legame ininterrotto, attraverso i venti secoli di vita cristiana, tra gli apostoli riuniti all'ultima cena e i vescovi della nostra epoca. Ora, le altre Chiese, che l'enciclica definisce "separate" e non Chiese sorelle, non avrebbero rispettato questo legame ininterrotto! "Comunità ecclesiali da noi separate (separazione che sarebbe dovuta interamente alla loro responsabilità?), cui manca la piena unità con noi e che non hanno conservato la genuina ed integra sostanza del Mistero cristiano" (30).

L'insistenza sull'apostolicità della Chiesa ha come obiettivo di riaffermare che il sacramento è limitato agli apostoli e trasmesso in continuità "fino a noi". Noi non è l'assemblea dei cristiani, ma il magistero e i suoi sacerdoti.

Apostolicità, dunque, perché l'Eucaristia è celebrata in conformità alla fede degli apostoli, e quindi del magistero che succede a loro. "La Chiesa è apostolica nel senso che, fino al ritorno di Cristo, continua ad essere istruita, santificata e guidata dagli Apostoli grazie ai loro successori nella missione pastorale: il collegio dei Vescovi, coadiuvato dai sacerdoti ed unito al successore di Pietro e supremo pastore della Chiesa" (28).

Avanzando nella lettura dell'enciclica si percepisce che tutto si mantiene, in una logica perfetta, intorno ad un tema centrale, che posso descrivere come segue: Il ricentramento della fede e della vita cristiana sulla liturgia e sul vescovo e sacerdote, attori principali, anzi unici, del mistero cristiano nel mondo.

Questa teologia dell'Eucaristia rafforza in modo sostanziale il potere sacerdotale, e più ampiamente la costituzione gerarchica della Chiesa, presentata come voluta ed anzi imposta da Dio. "L'Eucaristia, celebrata dai sacerdoti, è un dono che supera radicalmente il potere dell'assemblea... Dono che la comunità riceve attraverso la successione episcopale risalente agli Apostoli" (29).

7° - Tutto questo porta a riaffermare con ancora maggiore forza un certo numero di divieti destinati a salvaguardare l'autenticità dell'Eucaristia.

"Emerge talvolta una comprensione assai riduttiva del Mistero eucaristico. Spogliato del suo valore sacrificale, viene vissuto come se non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro conviviale fraterno. Inoltre, la necessità del sacerdozio ministeriale, che poggia sulla successione apostolica, rimane talvolta oscurata e la sacramentalità dell'Eucaristia viene ridotta alla sola efficacia dell'annuncio... L'Eucaristia è un dono troppo grande, per sopportare ambiguità e diminuzioni" (10).

7-1. L'enciclica denuncia innanzi tutto la mancanza di successione ininterrotta di ordinazioni episcopali che risalgano fino alle origini (28). In ragione di questa esigenza di verità, è vietata la comunione nelle altre Chiese. In effetti non si può derogare all'esigenza "della completa comunione nei vincoli della professione di fede, dei Sacramenti e del governo ecclesiastico" (44). Fede nella Buona Notizia di Gesù e governo ecclesiastico esigono quindi la medesima adesione incondizionata!

È per questo motivo che i fedeli cattolici "debbono astenersi dal partecipare alla comunione distribuita nelle loro celebrazioni... Ciò finirebbe per ritardare il cammino verso la piena unità visibile" (30).

7-2. La comunione è vietata a diverse categorie di persone. Dapprima "alla persona che rifiuti l'integra verità di fede sul Mistero eucaristico", perché "il Sacramento non consente finzioni" (38). Quindi il percorso tentennante, proprio del ritmo di ciascuno nella scoperta della verità, ben lungi dall'essere rispettato, viene definito "rifiuto dell'integra verità" (38.46), o addirittura di finzione. Ora, non si tratta esclusivamente dell'adesione alle grandi prospettive del messaggi evangelico, bisogna anche, per aver accesso alla comunione, "di accettare integralmente l'organizzazione della Chiesa, oltre che il suo governo" (39). In particolare si richiede una comunione autentica con il vescovo, mentre non si fa alcun riferimento alla comunione del vescovo e del sacerdote con la comunità dei cristiani (39). Ho ancora conosciuto, nella mia gioventù, l'obbligo di baciare l'anello episcopale prima di ricevere la comunione dalle sue mani, segno che non si accede a Cristo se non mediante il vescovo.

7-3. Incapace di riconoscere che per gli umani, e quindi anche per la Chiesa, l'accostamento a Dio è sempre limitato ed imperfetto, l'enciclica vieta la partecipazione alla comunione eucaristica a chiunque si accosti "a questa sacra Mensa con una coscienza macchiata e corrotta" (36). Sebbene l'enciclica dichiari che "il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, spetta soltanto all'interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza" (37), "nei casi però di un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale, la Chiesa, nella sua cura pastorale del buon ordine comunitario e per il rispetto del Sacramento, (non può ammettere) alla comunione eucaristica quanti ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto" (37). Sebbene non siano citati, si tratta chiaramente dei divorziati risposati, e forse anche di altri. Poco sotto verranno delle precisazioni, sembra.

Non è dunque la coscienza di un peccato grave che esclude dalla comunione eucaristica, ma il semplice fatto di un comportamento esteriore contrario alla norma stabilità dalla Chiesa. Si vincola così ad un giudizio di esclusione delle persone che in coscienza non sono per nulla peccatrici. È là che si deve porre la preoccupazione pastorale? Anziché ricordare che nessuno ha gli elementi né il diritto di giudicare la condotta altrui, anziché aiutare i cristiani a regolare la propria condotta personale su convinzioni interiori e non sulle forme esteriori di conformità alla norma, la Chiesa preferisce salvaguardare una certa rispettabilità di facciata, libera di calpestare coloro che si trovano in situazioni particolarmente difficili da vivere. Ricorda al riguardo che non si è pienamente inseriti nella Chiesa se non "si accetta integralmente la sua organizzazione" (38). Quando l'enciclica parla di "questa peculiare efficacia nel promuovere la comunione, che è propria dell'Eucaristia" (41), qual è la comunione fraterna alla quale ci invita Cristo, "lui che mangiava con i peccatori"?

Si è lontani dai pasti di cui ci ha dato l'esempio Gesù nel corso della sua vita pubblica. "L'ultimo pasto di Gesù, scrive José Reding, ricorda gli innumerevoli pasti da lui assunti con persone con le quali non si mangiava, sui quali i farisei avevano apposto l'etichetta di "peccatori" per escluderli; è dunque il ricordo dell'audacia di Gesù nell'oltrepassare parecchie frontiere, che l'ha portato alla morte; è il simbolo del profeta che condivide la vita con gli esclusi, i senza voce, per donare loro una voce. Nell'eucaristia vi è qualcosa di tutto ciò, un "fuori giri" possibile, un'audacia. È anche un rischio di raccogliere delle ferite" (Sonalux, gennaio-marzo 2003, p. 8).

8 - L'ultimo capitolo, intitolato "Alla scuola di Maria, donna eucaristica", stabilisce una continuità sorprendente tra l'Incarnazione e l'Eucaristia. Giovanni Paolo II arriva persino a mettere a confronto ciò che si compie sacramentalmente in ogni credente che riceve, sotto le specie del pane e del vino, il corpo e sangue di Cristo, e ciò che accadde all'Annunciazione, "quando Maria ha concepito il Figlio di Dio nella verità fisica del corpo e del sangue".

Ci sarebbe quindi, se capisco bene, una generazione di Cristo in noi a ogni comunione, come in Maria all'Annunciazione. Da dove "un'analogia profonda tra il fiat pronunciato da Maria alle parole dell'Angelo, e l'amen che ogni fedele pronuncia quando riceve il corpo del Signore... In continuità con la fede della Vergine, ci viene chiesto di credere che quello stesso Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, si rende presente con l'intero suo essere umano- divino nei segni del pane e del vino" (55). Dichiarazione sconvolgente che, nella sua brevità, pone tuttavia domande enormi.

Questo mistero eucaristico deve essere vissuto nella sua integrità, cioè, secondo l'enciclica, "sia nell'evento celebrativo, sia nell'intimo colloquio con Gesù appena ricevuto nella comunione, sia nel momento orante dell'adorazione eucaristica fuori della Messa" (61). Se si dice che "l'Eucaristia ci è data perché la nostra vita, come quella di Maria, sia tutta un magnificat" (58), ci si sarebbe augurati che venisse sviluppato il rapporto stretto, vitale, tra la liturgia e la vita. Ma si resta insoddisfatti!

 

"La Chiesa vive dell'Eucaristia": questo è il titolo dell'enciclica. Ma quale Chiesa, e di quale eucaristia?

La chiesa che ha dato vita a questa concezione dell'eucaristia e che ne vive è una Chiesa sostanzialmente gerarchica, tutta incentrata sul vescovo, il sacerdote, in dipendenza dal papa, che diventa anche lui, in qualche modo, oggetto di culto. La comunità dei fedeli, svuotata di qualunque responsabilità, non ha alcun ruolo se non nel silenzio, nella sottomissione e nell'adorazione di ciò che compie la casta sacerdotale. Il legame tra l'eucaristia e il vissuto di tutti i giorni avrebbe concesso un ruolo ben diverso ai laici, principali artefici dell'inserimento della Buona Notizia di Gesù nell'attualità del mondo in divenire. La vita d'oggi, in tutta la sua effervescenza, non vi è praticamente presente. Importa innanzi tutto la parola consacratrice, di cui solo il sacerdote detiene il potere, e che basta a rendere presente e attuale, ovunque e in ogni luogo, il sacrificio realizzato un tempo da Gesù.

Si vede come una percezione di questo tipo dell'eucaristia puntella e rafforza una concezione magisteriale e assolutamente conservatrice della Chiesa-istituzione.

Infine a rattristarmi è l'atteggiamento quasi unanime dei vescovi per i quali l'enciclica non può che suscitare delle reazioni d'ammirazione e non si apre per nulla ad un'analisi franca ed aperta. Indizio ancora di una Chiesa non è più, al momento, un'assemblea vivente.

La mia analisi dell'enciclica e dei suoi snodi è evidentemente discutibile. Non ha altro scopo che di aprire un dibattito che sia costruttivo e liberatore.

Questa enciclica manifesta chiaramente l'orientamento dato oggi alla Chiesa, decisamente più vicino al concilio di Trento che al Vaticano II. È importante esserne coscienti, valutarne le conseguenze, essere attenti alle reazioni della base, almeno di una sua parte non trascurabile, anch'essa preoccupata e responsabile del modo con cui la Buona Notizia di Gesù e quindi la Chiesa sono presenti nell'oggi del mondo. Lasciare senz'altro parlare sarebbe in qualche modo ratificare con il proprio silenzio l'orientamento della fede cristiana e della Chiesa-istituzione, privilegiata in questi tempi dal magistero. Significherebbe dimenticare che la ricezione di un documento ufficiale da parte della comunità cristiana è una condizione fondamentale perché sia accolto come documento autenticamente ecclesiale.

È importante che le comunità cristiane (parrocchie, comunità di base, varie assemblee) dicano ora, sotto la spinta dello Spirito che le abita allo stesso modo, ciò che è per loro la celebrazione dell'Eucaristia, il posto che le danno, come ne vivono. Si tratta allora dell'Eucaristia vissuta non dal sacerdote ma dall'assemblea che si raccoglie rispondendo alla chiamata di Gesù. Non è anche a loro che si rivolge la parola del Cristo: "Ho desiderato ardentemente mangiare questa pasqua con voi" (Lc 22,15)?

È a partire dall'assemblea riunita nel suo nome che si pongono allora, ma in modo assai diverso, le domande sulla partecipazione o esclusione di certi, la condivisione della Parola, il legame tra l'eucaristia e la vita quotidiana, l'inserimento della comunità celebrante nella grande assemblea del popolo cristiano. Il ruolo dei diversi servizi apparirà anche sotto modalità diverse, tra le quali il ministero di presidenza, di cui la comunità ha bisogno per raccogliersi e celebrare in nome di Gesù Cristo.

Le questioni si presentano dunque in modi molto diversi se le si richiama a partire dall'assemblea o dal ministero sacerdotale. Prospettive diverse e complementari, indispensabili per delimitare un poco una realtà che in ogni modo ci supera e di cui non si finirà mai di scrutare il senso. Anche la parola delle comunità deve essere compresa ed ascoltata.

 

Pierre de Locht, 1 giugno 2003