BENEDETTO XVI AD AUSCHWITZ: PIÙ INQUIETANTE QUELLO CHE NON HA DETTO
di Daniele Garrone, decano
della Facoltà valdese di teologia di Roma
La lettura del discorso tenuto da papa Benedetto XVI ad Auschwitz-Birkenau
suscita alcune considerazioni, sia per quello che ha detto, sia per quello
che ha taciuto: i silenzi sono più eloquenti e più inquietanti delle parole;
le cose dette sono accompagnate dall'omissione di parole che avrebbero
dovuto essere dette.
1. "Perché, Signore, hai taciuto? Perché
hai potuto tollerare tutto
questo? . Dov'era Dio in quei giorni? Perché Egli ha
taciuto?" Il papa ha
ripreso una domanda che i Salmi di Israele pongono a
Dio, senza remore, da
adulti nella fede. Un conto, però, è se questa domanda, anzi questa
protesta, la pongono quelli che ad Auschwitz morivano
o ad Auschwitz sono
sopravvissuti, un conto è se la pone un cristiano sul luogo del loro
patibolo, un tempo circondato da una massa di cristiani indifferenti, più
spesso corrivi o direttamente complici. "Dov'è
Dio?" non è stata la sofferta
preghiera dei cristiani rispetto ad Auschwitz. Negli
anni del nazismo le
chiese cristiane non hanno invocato il Dio di Abramo,
di Isacco, di Giacobbe
e di Gesù perché intervenisse a favore del suo popolo
Israele e neppure lo
hanno fatto per molto tempo dopo. Non "dov'era Dio?", ma "dove
erano i
cristiani, in particolare i vertici delle chiese?": questa è la prima e
più
drammatica domanda che ogni cristiano - tanto più il papa che pretende di
parlare come vicario di Cristo e pastore della chiesa universale - doveva
porre ad Auschwitz. Non dell'imperscrutabile segreto
di Dio, ma delle
scrutabilissime responsabilità dei cristiani doveva
parlare. Doveva dire una
parola sul rapporto tra il secolare e radicato antigiudaismo cristiano,
virulento anche nella sua chiesa nei decenni che precedono la Shoah, e lo
sterminio nazista. Avrebbe dovuto ricordare che l'odio antiebraico è uno dei
risvolti sinistri delle da lui tanto celebrate radici
cristiane dell'Europa
e che è stato propagato da predicatori e teologi di ogni confessione, da
vescovi, cardinali e papi, non da "figli della chiesa" sviati.
Avrebbe
potuto lasciarsi ispirare dalle voci significative di
tanti cristiani della
sua terra che hanno detto, ad esempio: "Dichiariamo che, con le nostre
omissioni e con i nostri silenzi, siamo stati complici davanti al Dio della
misericordia del crimine che è stato commesso contro gli ebrei da membri del
nostro popolo" (Dichiarazione del Sinodo della Chiesa evangelica di
Germania, Weissensee, 1950), oppure: "Riconosciamo
la corresponsabilità e la
colpa dei cristiani nell'olocausto, nella diffamazione, nella persecuzione e
nell'assassinio degli ebrei nel terzo Reich"
(Sinodo evangelico della
Renania, 1980). Avrebbe dovuto dire, insomma, che il
primo pensiero di un
cristiano ad Auschwitz è quello della colpa della
propria chiesa, non quello
dei silenzi di Dio. Nulla di tutto questo si trova nel suo discorso.
2. Solo partendo dal riconoscimento delle colpe della propria storia, il
tema della riconciliazione - una delle parole più ricorrenti nel discorso
papale - avrebbe potuto avere una vera pregnanza e
l'auspicata
"purificazione della memoria" non avrebbe eluso i drammatici
interrogativi
che pone la storiografia. Come molti hanno già rilevato, la sua lettura
della storia tedesca durante il nazismo come quella di un "popolo sul
quale
un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde", di
un popolo "usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione
e
di dominio", è una interpretazione revisionistica.
Come se non sapessimo
nulla della storia, come se non sapessimo che con quel "gruppo di
criminali"
un suo predecessore stipulò un concordato invece di condannarlo, come se non
sapessimo che l'altra metà della cristianità tedesca, quella protestante, a
quel "gruppo di criminali" diede il suo appoggio. Come se non
sapessimo che,
salvo poche, sparute eccezioni - che il Papa non ha menzionato, dalla Rosa
Bianca al gruppo di cospiratori dell'ammiraglio Canaris
- non ci fu una
resistenza tedesca a quella che Bonhoeffer ha
definito "la grande mascherata
del male". Se di tutto questo ci si ricordasse,
"la Chiesa" non sarebbe
risparmiata dal fango e dal sangue della storia umana e le sarebbe molto più
difficile parlare ad Auschwitz. Invece, l'immagine che
esce dal discorso del
Papa ad Auschwitz è quella
della "Chiesa" che può parlare a nome di tutti i
popoli, per tutte le colpe, perché in fondo essa non ne ha, che può tutto
riconciliare e purificare come se fosse super partes.
3. Il papa ha voluto parlare anche come "figlio del popolo
tedesco". Non si
capisce perché, allora, ha parlato in italiano. Avrebbe dovuto avere il
coraggio dell'ex presidente della Repubblica Federale di Germania, Johannes
Rau, recentemente scomparso, un pio cristiano,
predicatore laico nella sua
chiesa, che in tedesco si rivolse alla Knesset, il
parlamento di Israele,
uditorio ben più difficile della paludata delegazione che ascoltava il Papa
ad Auschwitz. La lingua che ad Auschwitz
non può che suonare sinistra a
memoria d'uomo avrebbe potuto esprimere con la massima pregnanza il no all'
orrore che essa stessa ha veicolato. Oppure avrebbe
potuto ricordarsi di
Willy Brandt, che si inginocchiò in silenzio. Parla di più un tedesco
ammutolito che un tedesco che parla italiano. (Notizie Evangeliche 22/06)