Giulio Girardi ha ottanta anni
Di Domenico
Jervolino
Giulio Girardi ha compiuto ieri 80 anni. Nato al
Cairo da famiglia italo-libanese, in un crogiuolo
cosmopolita di culture e di fedi, salesiano e professore di filosofia a Roma,
negli anni Sessanta, partecipò come esperto del Segretariato vaticano per il
dialogo coi non credenti al rinnovamento conciliare e
alle prime esperienze di confronto fra cristiani e marxisti. Un suo libro su
“Marxismo e cristianesimo” divenne un classico di quella stagione che fu
appunto detta del dialogo. Ma ben presto le posizioni si radicalizzarono,
mentre nel campo del marxismo ufficiale venivano
archiviati e repressi i tentativi di “socialismo dal volto umano”, nella Chiesa
cattolica si manifestava una crescente spinta restauratrice, rispetto alle
aperture giovannee e conciliari, già nel pontificato di Paolo VI. Nel
Sessantotto e negli anni seguenti un numero crescente di credenti passò dal
dialogo alla scelta di classe e all’adozione, in forme originali, del marxismo.
Quegli anni memorabili, densi di esperienze tragiche
ma anche di grandi speranze (dal Cile all’Argentina, dal Centroamerica
al Portogallo) videro nascere nuovi movimenti come i Cristiani per il
socialismo e le Comunità di base. Un nuovo ecumenismo abbatteva storiche
barriere fra cattolici e protestanti, fra credenti e non credenti. Sorgeva la
“teologia della liberazione” nel contesto di un più
ampio movimento intellettuale che coinvolgeva una pluralità di culture della
liberazione (dalla sociologia della dipendenza alla pedagogia degli oppressi).
Di tutti questi fermenti Giulio Girardi fu uno dei
protagonisti, al livello internazionale, entrando sempre più dall’interno nel
movimento operaio e marxista e problematizzando il
suo rapporto con la teologia e con la Chiesa. A Santiago del Cile, nel 1972, lo
ritroviamo tra i fondatori dei Cristiani per il socialismo, che si espandono rapidamente in Europa, in particolare in Italia e
in Spagna. Quando l’anno successivo si organizzò a Bologna il primo convegno
italiano di quel movimento fu naturale rivolgersi a
lui per la relazione di apertura. Ricordo quella sera di settembre in cui,
insieme ad un altro compagno del gruppo promotore,
accolsi Giulio alla stazione di Bologna, pochi giorni dopo il golpe cileno,
quando già quel sogno si era macchiato di sangue. Non sapevamo quanti compagni
avrebbero accolto il nostro appello, non si trattava infatti
di un movimento organizzato, e tutto era affidato alla generosità e all’impegno
volontario. Ci saremmo accontentati di trecento persone, ne arrivarono
quasi duemila. Poi sapemmo che il fenomeno nuovo che quel movimento
rappresentava (e che fu amplificato l’anno seguente dal voto di milioni di
cattolici contro la proposta di cancellare il divorzio) era
stato persino oggetto di dibattito nell’ufficio politico del Pci, allora guidato da Berlinguer.
Il Pci ebbe per lungo tempo difficoltà a capire e a entrare in sintonia col dissenso cristiano (a differenza
di personalità come Basso, Foa e Ingrao,
di una parte della nuova sinistra e della sinistra sindacale trasversale di
quegli anni). Comunque quell’incontro a Bologna fu per
me l’inizio di una lunga amicizia con Giulio, che in seguito non è venuta mai
meno. Egli ben presto fu costretto a lasciare l’ordine e il sacerdozio e scelse
di dedicarsi sempre di più in modo volutamente antiaccademico ad una elaborazione intellettuale in ascolto alle esperienze di
base: non solo quelle delle comunità cristiane ma anche quelle dei
metalmeccanici torinesi, presso i quali trovò rifugio per un certo tempo,
svolgendo una memorabile inchiesta, e ancora quelle delle comunità di recupero
dalla tossicodipendenza, alla ricerca di una pratica della libertà, affidata
all’educazione liberatrice. E sempre con grande
costanza e speranza (dividendo il suo tempo fra Europa e America Latina) con
una grande attenzione ai movimenti nuovi di liberazione, dai sandinisti allo zapatismo, ai
movimenti indigenisti, a una Cuba sempre amata, senza
ignorare le zone d’ombra di quella esperienza, rileggendo e facendo sua la
lezione del Che. Sarebbe troppo lungo l’elenco dei libri e degli articoli
prodotti da Giulio. Chi avesse la pazienza di rileggerli
troverebbe straordinarie anticipazioni di scelte che poi sono diventate
patrimonio di molti, come per esempio una riflessione sul valore rivoluzionario
della nonviolenza compiuta in comunione e non già in contrapposizione coi
movimenti di liberazione latinoamericani, che la violenza hanno sempre patito
sulla propria carne ma che anche sono stati costretti dalla situazione storica
a considerarla come un’opzione con cui confrontarsi. La scelta prioritaria
della prassi liberatrice diventa criterio che travalica e chiarifica molti
dibattiti che spesso restano al livello meramente ideologico e astratto. Questa
prassi diventa anche criterio discriminante per una comprensione nuova della
propria fede da parte dei credenti e per un incontro coi
compagni non credenti che sia riconoscimento reciproco e non riproposizione di vetuste diffidenze e incomprensioni. Queste cose compagni come Giulio Girardi
possono ancora insegnarcele, soprattutto in momenti in cui questione religiosa
e questione cattolica tornano all’ordine del giorno, e perciò è importante che
essi restino fra noi a testimoniarle e ad aiutarci nella nostra ricerca per
ancora molti anni.
Da “Liberazione”, 24 febbraio 2006”
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