Intervista a Jürgen Moltmann

Dalla teologia della speranza all’ecumenismo

 

a cura di Mario Arnoldi

 

In margine alla Tavola di Riflessione dal titolo “Dio e l’Europa tra rimorsi e speranze”, svoltasi a Vercelli il 29 gennaio scorso, è stato intervistato in esclusiva da Tempi di Fraternità il prof Jürgen Moltmann sugli aspetti principali della sua Teologia della Speranza. Riportiamo l’intervista per esteso.

 

Dalla sua relazione al Convegno abbiamo già avuto molte indicazioni sulle prospettive di speranza riguardanti il processo di unificazione dell’Europa. Vorrei porre ora delle domande su la “Teologia della speranza”, Queriniana, 1964 e edizioni seguenti. Prendo spunto dal titolo di un suo scritto di poco successivo, “Il futuro come nuovo paradigma della trascen-denza. Un tentativo”, in “Dialogo”, Morcel-liana, 1969.1. Lei traccia un percorso della trascendenza che si snoda sulla linea della storia. Spesse volte, noi di provenienza cattolica siamo bloccati dal concetto di trascen-denza di origine aristotelico-tomista, che vede un Dio, e tutte le realtà a Lui connesse, interpretate in modo statico, verticale, esistenti al di sopra del mondo in cui viviamo, inaccessibili e immutabili. Questa concezione crea molte difficoltà per una visione di speranza riguardo alla storia. Da tener presente inoltre che il pensiero del ‘900 ha relativizzato il concetto di trascendenza inteso in modo verticale. Come questo concetto può essere rifor-mulato ai fini di una visione di speranza?

 

Nella visione aristotelico-tomista c’è una concezione verticale della trascendenza ed una orizzontale della storia che non coincidono e confluiranno solo alla fine dei tempi in un riassorbimento della storia dell’umanità nel Regno. Rimandare alla fine dei tempi l’avvento del Regno toglie ad esso la capacità di orientamento, di guida, di accompagnamento, di trasformazione di quanto viviamo storicamente giorno per giorno sulla terra.

Nella Bibbia abbiamo, invece, più che la dimensione verticale separata da quella orizzontale, il tempo di Dio che diviene fonte del tempo dell’uomo. Il tempo di Dio dà all’uomo una speranza futura. Il futuro è ciò che guida la nostra storia e dà ad essa la speranza di un prospettiva messianica per questa terra. A cominciare dall’Esodo e dalla profezia di Israele nell’antico Testamento sino alla passione e resurrezione di Gesù, nel nuovo Testamento, nella storia c’è una speranza di futuro, un movimento in avanti, una trasformazione del presente. Il Dio di cui stiamo parlando non è quindi né sopra di noi, né nel mondo, ma è un Dio che si è manifestato dall’Esodo alla Resurrezione e che è sempre di fronte a noi e ci guida. Eliot affermava: “alla fine l’inizio”. Alla fine dei tempi, cioè, si origina l’inizio del tempo. L’escatologia si fa storia, non viene dell’alto, crea di giorno in giorno la storia.

La fine dei tempi è non solo un punto di arrivo, ma è anche la fonte e l’origine della vita che ci spinge a vivere nel presente la speranza del futuro di Dio.

Troviamo posizioni simili in Teilhard de Chardin e in Dietrich Bonhoeffer che vedevano il cammino di Dio parallelo e incrociato al cammino del mondo verso la meta di maggior pienezza.

 

Bonhoeffer, nella sua esposizione, parla di un Dio che si ritira dalla storia, dell’assenza di Dio affinché l’uomo possa percorrere la sua strada da adulto. ‘Etsi Deus non daretur’ è un’espressione significativa del suo pensiero.

 

Bonhoeffer non intende tanto l’assenza di Dio. Egli afferma piuttosto un Dio che in Gesù Cristo soffre accanto all’umanità delle sue stesse sofferenze, senza sovrapporsi, ma permettendo ad essa di percorrere il suo cammino. Ne deriva quindi l’assunzione della sofferenza e del male dell’uomo in tutte le sue forme. Dio, in Gesù Cristo, sta accanto agli umiliati, agli offesi, a chi vive nell’oppressione, in un cammino che già ora si realizza nel mondo, escludendo un’attesa neutra e passiva di una salvezza che avverrà solo nel giorno finale. Bonhoeffer scrive i suoi testi più significativi come lettere dal carcere, mentre vive sulla sua carne la sofferenza dell’uomo accompagnato dalla sofferenza di Dio e di Gesù Cristo. Nel secondo Novecento queste riflessioni sono state sviluppate nella Teologia del dopo Auschhwitz, che si è domandata dov’è Dio dopo gli orrori accaduti con la guerra. Dio è lì che soffre con l’uomo è stata la risposta.

 

Il tema della sofferenza di Dio è stato trattato anche da lei, professore, in una sua opera.

 

Nel mio testo “Il Dio crocefisso”, 1972, ho trattato il tema in specifico della sofferenza di Dio e di Gesù Cristo. è un fatto molto importante considerare che Dio soffra insieme all’uomo sofferente, in un cammino tuttavia d’apertura di speranza verso il futuro. Il tema della sofferenza di Dio accanto alla sofferenza umana ha anche ispirato la Teologia della Liberazione. In particolare Leonardo Boff nel suo saggio “Gesù Cristo liberatore”, 1972, a partire dall’attività sociale e politica, che ha un primato sull’ortodossia dei principi, deduce una “sequela”, nel senso del termine usato da Bonhoeffer, cioè un mettersi al seguito di Gesù, in cui la prassi liberatrice appare come anticipazione del Regno.

 

Nel suo testo “Teologia della speranza”, in appendice c’è un dialogo con Ernst Bloch dal titolo “‘Il principio speranza’ e la ‘teologia della speranza’”. Professore, quali posizioni di Bloch lo hanno trovato particolarmente consonante e quali differenze invece vi caratterizzano? Bloch afferma, per quanto io ricordo, che nella struttura stessa della realtà ci sono gli elementi della speranza. Non è forse un’affermazione troppo ottimistica?

 

Bloch afferma che la struttura costitutiva della realtà è la possibilità di una novità che permette di sperare. Già nel 1918/23 pubblicò il testo “Spirito dell’utopia”, dell’utopia concreta, in cui vedeva le prospettive di apertura verso il futuro della realtà e della storia, pur avendo sofferto anche lui i disagi della prima guerra mondiale. La prima edizione di “Spirito dell’utopia” fu scritta durante il periodo del matrimonio con la sua prima moglie Else von Stritzky, che l’aveva portato a vivere il suo cristianesimo. Se la von Stritzky fosse vissuta più a lungo avrebbe rafforzato in Bloch l’impronta cristiana. Sarebbe stato un cristiano. L’adesione al marxismo, evidente nel passaggio dalla prima alla seconda edizione, non modificherà tuttavia sostanzialmente la sua posizione. Bloch è un pensatore di origine ebraica e la sua interpretazione del marxismo ha sempre fortemente risentito del messianismo ebraico cristiano.

Finita la seconda guerra mondiale ritornò dagli Stati Uniti nella regione orientale della Germania, nella DDR, dove insegnò nell’università di Lipsia. Le sue posizioni ritenute “revisio-niste” e la sua critica nei confronti della dittatura sovietica gli procurarono gravi difficoltà e quindi passò nella Germania occidentale, dove insegnò all’università di Tubinga. Il suo testo fondamentale, “Il principio speranza”, uscito nel 1954-59, tratta della speranza insita nella storia dell’umanità. Io ho messo al mio libro il titolo “Teologia della speranza” per indicare il parallelismo della mia visione teologica alla filosofia di Bloch.

Altro scritto importante di Bloch per il nostro tema è “Ateismo nel Cristianesimo”, 1968, con sottotitolo “Per la religione dell’esodo e del Regno”, ad indicare che già il cammino di liberazione terreno è preparazione al Regno finale. Bloch sostiene che solo un ateo può essere un buon cristiano ed io gli ho suggerito la seconda parte e cioè che solo un cristiano può essere un buon ateo, cioè un laico capace di lotte per il percorso storico verso il Regno finale, capace di valori veri umani, di lotta per la giustizia, la fratellanza, la pacificazione.

 

In una sua opera del 1980 ha affrontato il tema della Trinità, “Trinità e Regno di Dio”. Lei attribuisce in qualche modo una priorità all’idea del Dio trinitario rispetto a quella di un Dio assolutamente uno. Può esplicitare questa sua posizione?

 

Nella Bibbia Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo. è un Dio plurale. Noi ci rivolgiamo al Padre creatore dell’universo e dell’uomo, al Figlio che si è incarnato e condivide la condizione umana nella sofferenza e nella speranza del futuro di salvezza ed infine allo Spirito Santo come fonte di vita. Si tratta di una pluralità di relazioni all’interno della divinità stessa, che si riflettono quindi su di noi, caratterizzano il nostro essere umano e religioso e ci permettono di vivere le diverse dimensioni della vita. Il Dio assolutamente unico è un Dio senza dialettica interna e nella realtà è storicamente legato a una struttura politica oppressiva nella forma. Sin dal Sacro Romano Impero si affermava “Un Dio, un imperatore, un regno”. Così è stato e così avviene in tutte le nazioni che, partendo dall’affermazione del Dio unico, realizzano forme di governo integraliste. Il Dio trinitario invece è il fondamento di rapporti paritari e di relazioni tra le persone.

 

Il tema dell’ecumenismo è ugualmente a lei caro. Le tre confessioni cristiane, che sono tuttora divise per motivi storici e dottrinali, troveranno nel processo di unificazione dell’Europa uno stimolo per accelerare il loro riavvicinamento, oppure il cammino dell’unione dei cristiani sarà ancora lungo?

 

Tra le confessioni cristiane le differenze dottrinali sono risolvibili. Il problema maggiore non è tanto tra noi occidentali, cioè tra protestantesimo e cattolicesimo, quanto piuttosto tra occidentali e paesi dell’Est, cioè col cristianesimo ortodosso. Con l’Est europeo le differenze dottrinali sono state e sono più marcate. Un elemento grave delle nostre divisioni è l’impossibilità di accostarsi all’Eucarestia presso la liturgia di una confessione diversa dalla propria. L’intercomunione negata è il segno principale delle nostre divisioni, che fa scandalo nell’Europa e nel mondo, dal momento che dovremmo tutti noi cristiani essere accomunati nel nome e nel gesto di unione che Gesù ha compiuto ed ha chiesto di compiere in nome suo. La mia posizione è capovolta rispetto a quelle che affermano che prima si devono affrontare e risolvere i problemi teorici che ci dividono e solamente dopo ci si potrà accostare allo stesso banchetto eucaristico. E cioè penso che prima di tutto si debba realizzare l’intercomu-nione, cioè condividere insieme la comunione eucaristica e poi, successivamente, si discuterà delle cose che ci dividono. In una tale prospettiva, l’ecumenismo avrebbe un cammino più facilitato. Dopo aver “mangiato” insieme è più facile risolvere i problemi che ci separano…

 

Vercelli, 29 gennaio 2005