Alla brezza del Vangelo
di Vincenzo Marras
  

Pagine di un libricino sfogliate dalla brezza del ponentino romano. È l’immagine che ci evoca la morte di Paolo VI, giusto venticinque anni fa, il 6 agosto 1978. Egli stesso aveva disposto per il suo funerale una bara d’acero, nuda, sulla gradinata di San Pietro. C’era solo il libro dei Vangeli, aperto. Un’immagine che compendia la vita di questo grande Pontefice, maestro della Parola. La povertà di quella bara accoglieva la grandezza di un padre che, al servizio degli uomini, ha voluto morire come un povero, mentre tutti udivamo le sue parole: «Comprendetemi; tutti vi amo nell’effusione dello Spirito Santo, ch’io dovevo a voi partecipare. Così vi guardo, così vi saluto, così vi benedico. Tutti». Vedendo quella bara di legno chiaro con sopra il Nuovo Testamento, abbiamo scoperto di aver perso qualcuno che era stato capace di riservarci – uomo e donna, religioso o no, credente o no – un’attenzione e una cura tutta speciale. Aveva saputo ascoltare il gemito del povero, la voce candida del bambino, il grido pensoso dei giovani, il lamento del lavoratore stanco, il sospiro dei sofferenti, la critica del pensatore. La sua passione fu pari alla sua acutezza. «Bisogna, ancor prima di parlare», ha scritto nella sua enciclica programmatica Ecclesiam suam, «ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo, comprenderlo, e, per quanto possibile, rispettarlo e, dove lo merita, assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi, il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l’esempio e il precetto che Cristo ci lasciò».

Atteggiamento e stile che abbiamo avuto il privilegio di incontrare nella vita di tante persone che hanno condiviso il nostro cammino di credenti, da don Mazzolari a padre Turoldo, da monsignor Romero a don Tonino Bello, per fare dei nomi tra i tanti che ciascuno ha registrato nel suo ideale taccuino. Era lo stile anche di don Leandro Rossi. È stato uno dei teologi che, negli anni del Concilio, hanno dato un contributo originale allo sviluppo della teologia morale e, in particolare, alla morale sessuale. È morto all’inizio dello scorso mese di luglio. Difficile trovarne tracce nei media, anche in quelli cattolici, se non in qualche frettoloso necrologio, condividendo in ciò il silenzio, non proprio incolpevole, riservato al suo ispiratore, Bernhard Häring. Sulle orme di questo grande "maestro di teologia morale", don Leandro è stato un grande testimone di Cristo e del suo messaggio di libertà e di amore. Se ne trova traccia nella sua ampia bibliografia. Ha curato, con Ambrogio Valsecchi, il Dizionario enciclopedico di Teologia morale. Ha pubblicato numerosi libri, tra i quali: Morale sessuale in evoluzione, Il dono della sessualità, Norma morale, Pastorale familiare, Nuove scelte morali, Problemi di morale oggi. Ha dato il suo prezioso contribuito a due libri curati da Valentino Salvoldi: Mai più la guerra e Anche i preti sanno amare. Sensibile ai problemi della società e della nonviolenza, ha saputo cogliere la valenza politica dell’impegno di volontariato. Contro la società del profitto, sempre più totalizzante, affermava la necessità della "società del gratuito". Del Vangelo amava citare un versetto di Matteo: «Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore». Nasce da qui l’impegno di don Leandro a favore dei giovani, cui riservò una cura speciale. Non ne ignorava le paure e le contraddizioni. E tuttavia li amava con una solidarietà intima dettata dall’amore per il Signore e per i fratelli. Per questo – anche per questo – gli siamo grati.

Vincenzo Marras

( da “Jesus”, agosto 2003)