LONDRA-ADISTA n. 78 del 6
novembre 2004. (dall'inviato) "Le nostre tradizioni s'intersecano in
più punti ed è proprio di ciò che abbiamo in comune che dobbiamo parlare. Ma se
è vero che ci sono dei luoghi nei quali ci può capitare d'incontrarci, è anche
importante che ognuno di noi abbia ben presente qual è il cammino che ha
portato l'altro fino a quel punto". Parole, quelle dell'intellettuale
islamico ginevrino Tariq Ramadan, che illustrano bene il punto di vista
comune emerso nel corso dell'unico seminario incentrato su problematiche
religiose tenutosi a Londra durante l'ultimo Forum sociale europeo. Esso è
stato promosso da Pax Christi, “Noi Siamo Chiesa”, European Network Church
on the move, Iglesia de base de Madrid e CIMI (Coordinamento degli Istituti
Missionari Italiani) con il titolo :”An Ecumenical and Interfaith
Perspective for the European Union” Una
mancanza, quella dei temi religiosi, che, come ha sottolineato don Tonio
Dell'Olio, segretario di Pax Christi/Italia, nella sua relazione
introduttiva, non può non colpire, vista l'importanza che le religioni o,
meglio sarebbe dire, le loro versioni "caricaturali", sembrano avere
nei drammi che vive il mondo di oggi.
L'incontro ha visto la partecipazione, oltre che di Ramadan e di Dell'Olio,
anche del teologo spagnolo Juan Josè Tamayo e di Pat Gaffney,
presidente della sezione britannica di Pax Christi. Al centro dei rispettivi
interventi, tutti e quattro i relatori hanno voluto porre la necessità di
mettere in risalto il "servizio", per usare le parole di Dell'Olio,
che le grandi tradizioni religiose monoteiste possono rendere all'umanità. Un
futuro di pace e di tolleranza non può non essere inteso anche come frutto del
dialogo e della conoscenza reciproca, nel rispetto delle differenze e delle
identità di ognuno. Tamayo, in particolare, ha voluto ricordare nel suo lungo
intervento come, sia nella tradizione islamica che in quella cristiana, sia
possibile e necessario intendere la fede in maniera intimamente connessa a un
percorso di liberazione. Nella Bibbia come nel Corano, accanto ad un'immagine
di Dio vendicativa e violenta troviamo, più spesso, un Dio
"Misericordioso, Indulgente e Comprensivo", "lento nell'ira e
ricco di clemenza", oltre ad una proposta etica al servizio dei poveri e
degli oppressi.
Di seguito gli interventi integrali di Dell'Olio, Tamayo e Ramadan.
PERCHÉ NON TROVIAMO UN "CAMMINO COMUNE"? (Tonio Dell'Olio)
Già a Firenze, nel 2002, durante la prima edizione del Forum
sociale europeo, alcune organizzazioni appartenenti a diverse confessioni
religiose avevano proposto una riflessione sulla questione riguardante il
contributo delle grandi tradizioni religiose al progetto di un'Europa migliore,
un'Europa dei popoli e della pace. Questo affinché la presenza, sulla scena
internazionale, del vecchio continente potesse significare un modo di guardare
alle relazioni internazionali diverso da quello attualmente imperante, che
sembra conoscere l'unico linguaggio della guerra. Allora si era parlato
soprattutto della Costituzione europea, un argomento che continua a fare da
sfondo ai nostri ragionamenti, visto che questa stessa Costituzione sarà
firmata fra pochi giorni a Roma. Del resto, non potrebbe essere diversamente:
il trattato costituzionale dell'Unione continua ad ignorare la pace come
principio ispiratore ed appare particolarmente deficitario in fatto di
democrazia e di uguaglianza, soprattutto per quanto attiene alle relazioni con
i Paesi del Sud del mondo. La riflessione di Firenze è continuata poi anche a
Saint Denis, nell'edizione 2003 del Fse, durante la quale abbiamo allargato lo
sguardo dal dialogo interconfessionale, quello cioè che ha per protagoniste le
diverse confessioni cristiane, al dialogo interreligioso, che si estende a
tutte e tre le religioni del libro (cristianesimo, islam ed ebraismo), oltre
che ad altre nobili tradizioni religiose quali il buddismo, l'induismo, ecc.
Qui a Londra intendiamo continuare a proporre l'incontro e il dialogo come
valori fondamentali per raggiungere l'obiettivo di un mondo di pace. Si tratta,
a nostro avviso, di una sorta di "servizio" che le grandi tradizioni
religiose possono rendere all'umanità. Piuttosto che il confronto dottrinale e
teologico, dovremmo cercare quanto più possibile di intraprendere un cammino
comune che ci lasci davvero servire l'umanità nei suoi bisogni più alti, dalla
pace al superamento delle ineguaglianze economiche. In passato, spesso il
dialogo dottrinale è stato alla base di divisioni, rancori, odi e persecuzioni,
soprattutto qui in Europa. Vorremmo invece che, oggi, il grande potenziale
delle religioni fosse utilizzato per dire un no forte, profondo e convinto alla
violenza, cioè al terrorismo e alla guerra, un no radicato anche nei testi
sacri delle diverse religioni e nel Dio che li ispira.
La religione della "guerra contro il terrore"
Non molti anni fa, ancora si parlava frequentemente di "morte di
Dio", vale a dire di un'eclissi completa di Dio dall'orizzonte politico, sociale
ed economico. Si ignorava quasi del tutto, cioè, il ruolo che le religioni
potevano giocare all'interno della politica, della società e dell'economia.
Oggi, nel bene o nel male, siamo tenuti a fare i conti con l'ispirazione
religiosa: siamo infatti di fronte ad una caricatura religiosa che ispira il
terrorismo, e ad una concezione altrettanto caricaturale della religione che
ispira la cosiddetta "guerra contro il terrore". Se, da un lato,
alcuni terroristi di matrice fondamentalista giustificano le loro azioni
chiamando in causa il fenomeno religioso, dall'altro, l'unica superpotenza
occidentale, in nome della fede nell'unico Dio, impone la violenza e la guerra.
È triste dunque constatare come, nonostante le religioni abbiano oggi
un'influenza così forte nello scenario mondiale e rispetto ai destini del
mondo, questo seminario sia, nel presente Forum sociale europeo, l'unico con
questo indirizzo e con questa ispirazione. Dovremmo forse chiederci perché. È
l'unico seminario, questo, a parlare di religioni e pace perché, ancora una
volta, le fedi e le Chiese sono in ritardo? Le religioni sono forse assenti, o
nascoste, all'interno del movimento dei movimenti, perché guardano ancora con
sospetto ai processi di cambiamento? Oppure non riescono a cogliere l'importanza
di questo percorso? Preferiscono forse altri luoghi per riflettere sugli stessi
temi? Credo che dobbiamo cercare di comprendere fino in fondo il significato di
questa sorta di isolamento. Noi abbiamo accettato la sfida e crediamo che,
all'interno del composito mondo della società civile organizzata che aspira
alla pace e al cambiamento, le religioni possano dire la loro ed ispirare
azioni di pace.
In virtù di queste considerazioni, vorrei rivolgere a voi che mi state
ascoltando ed ai nostri relatori alcune domande: quale apporto specifico delle
religioni nella costruzione di un'Europa aperta alla pace e a rapporti solidali
con il resto del mondo? Quali difficoltà sono ancora da superare, all'interno
delle singole Chiese cristiane come di altre comunità religiose, nel
"cammino comune", ovvero al fine di congiungere le forze ed
affrontare insieme quest'opera di costruzione? Quale risorse emergono da questo
congiungersi di forze, da questo camminare insieme? Verso quali prospettive e
quali orizzonti? Cosa riusciamo a intravedere, cioè, al termine di questo
impegno? Queste, a mio avviso, sono le linee direttrici che dovrebbe seguire la
nostra riflessione.
TEOLOGIA ISLAMO-CRISTIANA DELLA LIBERAZIONE (Juan José Tamayo)
L'idea che l'islam sia "la civiltà meno tollerante
delle religioni monoteiste" (Huntington) è molto diffusa in Occidente,
dove si va avanti con stereotipi sul cristianesimo e sull'islam che diventano
uno degli ostacoli più seri al dialogo interreligioso, insieme alla non
conoscenza che una religione ha dell'altra, anche all'interno di settori
considerati colti. Le svalutazioni sono tanto più grossolane e viscerali quanto
maggiore è l'ignoranza reciproca. Le certezze si rafforzano quanto l'ignoranza
è più crassa. Quando si giudica e si valuta un'altra religione, non si è soliti
partire da una informazione oggettiva a riguardo, ma da stereotipi o
interpretazioni interessate che finiscono col deformare il senso profondo della
religione. La mancanza di fiducia e la diffidenza hanno caratterizzato
storicamente le relazioni fra il cristianesimo e l'islam. Il risultato è stato
lo scontro, quando non la guerra aperta fra le due. Però ci sono stati anche
momenti di pacifica convivenza, di dialogo interreligioso, di feconda
interculturalità, di convergenze ideologiche, di lavoro scientifico comune e di
dibattito filosofico creativo.
È questo, credo, il cammino da seguire in futuro ed è questo lo spirito che
deve presiedere alle relazioni tra cristianesimo e islam. Cosa che implica
rifuggire dagli stereotipi e delle generalizzazioni ed evitare una religione
usi termini minacciosi nei confronti di un'altra, senza per questo rinunciare
alla critica e all'autocritica. In quanto religioni nate da un tronco comune,
l'abramitico; in quanto caratterizzate dal monoteismo e impegnate nel vivere
alcuni valori religiosi emanati da una rivelazione che intende liberare
l'essere umano dalle schiavitù e dalle oppressioni, il cristianesimo e l'islam
non possono costituire l'uno per l'altro una minaccia. Soprattutto quando i
loro testi sacri e i loro fondatori richiamano costantemente a rispettare le
altre credenze e ad affermare espressamente che non c'è coazione nella
religione.
Bisogna impegnarsi a costruire una teologia cristiana e musulmana di
liberazione. Forse la teologia cristiana della liberazione è più conosciuta ed
è più sviluppata della teologia islamica della liberazione, ma ciò non
significa che questa non esista. Ci sono importanti studi in questa direzione.
Concentrerò il mio intervento in tre campi in cui è possibile una siffatta
teologia della liberazione: l'immagine di Dio, l'etica e la prospettiva
di genere.
1 - Dal Dio della guerra al Dio della pace
L'immagine di Dio che ha predominato nel cristianesimo e nell'islam è quella di
un Dio violento, vendicativo, al quale tutte e due le religioni hanno fatto
frequentemente ricorso per giustificare gli scontri, le aggressioni e le guerre
tra di loro e contro gli altri popoli e religioni considerati nemici. Anche per
giustificare le azioni terroristiche, le invasioni e le aggressioni belliche ci
si appella a Dio, come è successo negli attentati terroristici dell'11
settembre contro le Torri Gemelle e negli attentati dell'11 marzo a Madrid, ed
anche negli attacchi degli Stati Uniti e della coalizione internazionale contro
l'Afghanistan e l'Iraq. È rivelatore, a questo riguardo, il seguente testo di
Martin Buber:
"Dio è la parola più vilipesa di tutte le parole umane. Nessuna è stata
tanto sporcata, tanto mutilata. Le generazioni umane hanno buttato su di essa
il peso di tutte loro. Le generazioni umane, con i loro patriottismi religiosi,
hanno stracciato questa parola. Hanno ucciso e si sono fatte uccidere per essa.
Questa parola porta le loro impronte digitali ed il lor sangue. Gli esseri
umani disegnano un fantoccio e ci scrivono sotto la parola 'Dio'. Si
assassinano gli uni gli altri e dicono 'lo facciamo in nome di Dio'. Dobbiamo
rispettare quelli che proibiscono questa parola, perché si ribellano contro
l'ingiustizia e gli eccessi che con tanta facilità si commettono con una
presunta autorizzazione da parte di 'Dio'".
Così è, di fatto. In non pochi testi fondanti del giudaismo, del cristianesimo
e dell'islam, l'immagine di Dio è violenta e associata al sangue, fino a
combaciare con quella che René Girard chiama sacralizzazione della violenza o
violenza del sacro (cfr. R. Girard, La violencia y lo sagrado, Anagrama,
Barcellona 1983; L. Maldonado, La violencia de lo sagrado. Crueldad
"versus" oblatividad o el ritual del sacrificio, Sígueme,
Salamanca, 1974).
Ebbene, malgrado l'uso e l'abuso del nome di Dio, invano e con intenzioni
distruttive, concordo con Martin Buber quando dice che "sì, possiamo:
sporcata e mutilata com'è la parola 'Dio', sollevarla da terra ed erigerla in
un momento storico trascendentale". Perché, se nelle tre religioni
monoteiste esistono numerose ed importanti tradizioni che fanno appello al
"Dio degli eserciti" per dichiarare la guerra a miscredenti e
idolatri, altre ce ne sono che presentato Dio con un linguaggio pacifista e gli
attribuiscono atteggiamenti pacificatori e tolleranti.
La Bibbia descrive Dio come "lento all'ira e ricco di grazia", il
Messia futuro come "principe di pace" e arbitro di "innumerevoli
popoli". Fra le più belle immagini bibliche del Dio della pace bisogna
citarne tre: l'arcobaleno come simbolo dell'alleanza duratura che Dio
stabilisce con l'umanità e con la natura, dopo il diluvio universale (Gn
8,8-9); la convivenza ecologico-fraterna dell'essere umano - violento lui - con
gli animali più violenti (Is 11,6-8); l'idea della pace perpetua (Is
2,4). Nelle Beatitudini, Gesù dichiara felici coloro che lavorano per la pace,
perché essi saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).
Allah è invocato nel Corano come il Molto Misericordioso, il più Generoso,
Compassionevole, Clemente, Prudente, Indulgente, Comprensivo, Saggio,
Protettore dei poveri, ecc. Allah viene definito "Pace, Colui che dà
Sicurezza, Custode" (Corano, 69,22). Tutte le sure del Corano,
eccetto una, cominciano con l'invocazione "Nel nome di Dio, il Clemente,
il Compassionevole…". Il rispetto del prossimo, della sua reputazione e
delle sue proprietà è quello che in modo più completo definisce il credente,
secondo uno dei hadizes (detti) del Profeta Muhammad.
C'è un imperativo coranico che ordina di fare il bene e di non seminare il
male: "Fa' il bene degli altri come Dio ha fatto il tuo bene; e non
seminare il male nella terra, perché certamente Dio non ama chi semina il
male" (28,77). Il Corano chiarisce che non è la stessa cosa operare bene e
operare male, chiede di avere pazienza e di rispondere al male con il bene,
anzi con qualcosa che sia meglio (13,22; 23,96; 28,54), fino al punto che la
persona nemica si converta in "vero amico" (41,34). C'è sintonia con
le raccomandazioni di Gesù e di Paolo. Il primo invita a non resistere al male,
ad amare i nemici e a pregare per i persecutori (Mt 5,38ss). Paolo
chiede ai cristiani di Roma che non restituiscano il male a nessuno, che non si
lascino vincere dal male, ma che vincano il male con il bene (Rom
12,21).
Anche nel Corano è presente il perdono dei nemici e la rinuncia alla vendetta:
"Ricorda che un male ha per pagamento un male eguale. Ma chiunque perdona
e si riconcilia verrà ricompensato da Dio. In Verità Egli non ama gli
ingiusti" (42,40).
Come credenti delle diverse religioni abbiamo condannato gli attentati
terroristici dell'11 settembre contro le Torri Gemelle e dell'11 marzo contro i
cittadini madrileni, abbiamo celebrato atti interreligiosi per la pace e contro
la violenza e ci siamo opposti alle ultime aggressioni contro i popoli
dell'Afghanistan e dell'Iraq richiamando il precetto divino "non
uccidere", che costituisce l'imperativo categorico per eccellenza e
afferma la vita come il principio di tutti i valori. Il richiamo al Dio della
pace e il rifiuto delle guerre in suo nome possono essere un importante punto
di partenza per passare definitivamente dall'anatema religioso e dallo scontro
di civiltà al dialogo fra le religioni, le culture e le civiltà. Le differenze
religiose non dovrebbero essere motivo di divisione, ma la migliore garanzia
per il rispetto di tutte le fedi e gli agnosticismi e il lavoro comune nella
costruzione di alternative comunitarie di vita.
2 - Etica liberatrice nel cristianesimo e nell'islam
Il cristianesimo e l'islam sono due religioni monoteiste, di un monoteismo non
dogmatico, ma etico, con un orizzonte morale. Così è stato vissuto dagli stessi
fondatori e dai profeti di Dio di entrambe le religioni.
2.1. Nel cristianesimo
Gesù è stato un uomo di grande statura morale, che è stato paragonato a
Socrate, Budda, Confucio, ecc. Nella sua persona si armonizzano mistica e
liberazione, esperienza religiosa ed orizzonte etico in una unità
differenziata. Lo ha percepito molto bene il Mahatma Gandhi, che ha mostrato
grande ammirazione per Gesù, persona morale che gli è servita d'esempio nella
sua vita personale e nella sua azione politica nella prospettiva della
nonviolenza attiva. L'insegnamento morale del vangelo è stato per lui fonte di
ispirazione permanente nella sua attività politica e nel suo programma
economico. Gandhi invitava a studiare la vita di Gesù e a mettere in pratica il
suo messaggio ugualitario e pacificatore (cfr. M. Gandhi, The message of
Jesus Christ, Bharatiya Vidya Brhavan, Bolbeay 1963). Racconta il leader
religioso indù che durante il secondo anno del suo soggiorno in Inghilterra
conobbe, in una pensione vegetariana, un buon cristiano di Manchester che gli
parlò del cristianesimo e lo invitò a leggere la Bibbia. Cominciò a leggerla e
non gli riuscì di arrivare alla fine dell'Antico Testamento. Diversa fu
l'impressione che produsse in lui il Nuovo Testamento, specialmente il Sermone
della Montagna, che lo colpì profondamente. "Lo paragonai - riferisce - al
Bhagavad Gita. I versetti dove dice: 'ma io vi dico: non opponetevi (con
la violenza) al male; a chi ti colpisce la guancia destra tu porgi l'altra. E
se qualcuno si impossessa del tuo mantello, dagli anche la tua tunica' mi
piacquero oltremodo…'. La mia giovane mente cercava di armonizzare
l'insegnamento del Gita con quello del Sermone della Montagna" (M.
Gandhi, La mia vita è il mio messaggio. Scritti su Dio, la verità e la
nonviolenza).
Messaggio etico e prassi di liberazione guidano la vita di Gesù di Nazareth e
devono guidare anche la vita della comunità cristiana in ogni contesto storico,
se si vuole essere fedeli all'etica dell'iniziatore del cristianesimo. Fra le
caratteristiche dell'etica di Gesù è importante citare le seguenti:
liberazione, giustizia, gratitudine, alterità, solidarietà,
fraternità-sororità, pace inseparabile dalla giustizia, difesa della vita, di
tutta la vita, tanto della natura come dell'essere umano, della vita in
pienezza qui, sulla terra, e non solo della vita spirituale e della vita
eterna, conflitto, debolezza, compassione per le vittime, riconciliazione e
perdono. La grande rivoluzione del Nazareno consistette nell'avere eliminato
l'idea così escludente del popolo eletto e nella proposta di una comunità
fraterna, senza frontiere né discriminazioni.
Una delle migliori espressioni di questa etica è data dal cristianesimo
liberatore vissuto nel Terzo mondo e nelle enclave di emarginazione del Primo
mondo, e dalla teologia della liberazione, nata in America Latina alla fine
degli anni '60 del secolo XX e diffusa oggi in tutto il Sud del pianeta. È una teologia
che, con diversi accenti a seconda dei contesti nei quali si sviluppa, cerca di
rispondere alle sfide poste dalle alterità negate - culture, donne, razze,
etnie, ecc. - e dal mondo della povertà strutturale, cioè dall'"altro
povero", così come dalla pluralità delle religioni, cioè dall'"altro
religioso".
2.2. Nell'islam
L'islam condivide con il cristianesimo lo stesso orizzonte morale, che deriva
dal monoteismo etico nel quale tutti e due si situano e al quale non possono
rinunciare. La sua etica mostra profonde affinità con quella del cristianesimo,
fino al punto che non è difficile stabilire un consenso su alcuni punti
basilari morali fra le due religioni e il giudaismo.
I precetti orali del Corano si focalizzano su: essere buoni con i genitori, non
uccidere i figli per paura della povertà, evitare le disonestà, pubbliche o
private, non toccare quanto spetta agli orfani, se non in modo conveniente,
fino alla loro maggiore età, dare con equità a ciascuno il suo, non chiedere a
nessuno qualcosa che vada oltre le sue possibilità, essere giusti quando si
deve dichiarare qualcosa, anche se si tratti di parente, essere fedeli
all'alleanza con Allah (6,151-153). La pietà per il Corano non sta nel volgere
il volto a Oriente o a Occidente, ma nel credere in Dio, nella Scrittura e nei
profeti, "nel dare ricovero… a parenti, orfani, bisognosi, pellegrini
(seguaci della causa di Dio), mendicanti e schiavi, nel fare la azalá
(orazione istituzionale obbligatoria) e dare l'azaque (imposta-elemosina
per legge), nel mantenere gli impegni… (2,177).
L'opzione per i poveri costituisce il principio vertebrale del discorso
dell'ayatollah Khomeini (1902-1989) in sintonia con il discorso della teologia
cristiana della liberazione elaborata in America Latina: "L'islam ha risolto
il problema della povertà e ha fatto di essa il principio del suo programma: sadaqt
(la carità) è per i poveri. L'islam è cosciente che la prima cosa che si deve
fare è porre rimedio alla situazione dei poveri" (Khomeini, Islam and
Revolution: Writing and Declarations of Imam Khomeini, Mizan Press,
Berkeley, 1981).
Come il cristianesimo e come altre religioni, l'islam ha ispirato molti
dirigenti politici e sociali nella loro lotta per la liberazione in parole e
opere. Al suo interno si è dato origine a una teologia della liberazione.
Il punto di partenza dei movimenti di liberazione nati nell'islam è
l'esperienza di oppressione vissuta dai popoli musulmani e la perdita della
loro identità culturale e del loro potere sociale durante le tappe coloniale e
postcoloniale. Credenti musulmani di rilievo vedono nel Corano e nella Sunna
progetti originali per realizzare una forma di vita integrale e liberatrice.
Possiamo citarne quattro: Sayyid Abu'l-A'la Mawdudi (1903-1979), dirigente
morale e politico musulmano nato ad Aurangabad (India), che si mostrò critico
tanto della società moderna secondo il modello occidentale quanto dell'islam
tradizionale, che considerava cristallizzato, e difese il ritorno ad un islam
autentico; il dottore iraniano Ali Shari'ati (1933-1977), che John L. Esposito
considera teologo della liberazione per il suo tentativo di combinare il credo
islamico liberatore con il pensiero sociopolitico moderno emancipatore;
l'indiano Asghar Ali Engineer, impegnato nella difesa dei diritti umani e a favore
dell'armonia tra le religioni, che fa risalire gli elementi liberatori
dell'islam al Profeta il quale, con la sua vita e il suo messaggio, vuole
rispondere alle situazioni di oppressione e di ingiustizia, di ignoranza e di
superstizione, di schiavitù e di discriminazione della donna, imperanti nella
Mecca.
3 - Ermeneutica femminista della liberazione
3.1. Il Corano, strumento a favore della liberazione delle donne
Da vari decenni si stanno sviluppando nell'islam importanti correnti riformiste
e femministe che denunciano il monopolio tradizionale dei maschi, e più in
concreto dei "chierici", nell'esegesi del Corano e nella sua
interpretazione patriarcale, contraria allo spirito originario e alla difesa
dell'uguaglianza fra uomini e donne in esso contenuta. Queste correnti vogliono
liberarsi dalla casta degli intermediari e dalla burocrazia degli ulema, perché
credono che l'islam si basi sulla relazione diretta dei credenti con Dio e non
ha bisogno di chierici. Reclamano il diritto delle donne ad accedere
direttamente ai testi e ad interpretarli nella prospettiva di genere.
Prospettiva che le porta a considerare il Corano come un importante strumento
in favore della liberazione della donna. Le cose stanno così o tale
affermazione è frutto di una lettura troppo interessata?
Certamente l'islam costituisce un significativo passo avanti nel riconoscimento
della dignità delle donne. In più, come osserva Jadicha Candela, sostituisce il
sistema socioculturale sessista vigente nell'Arabia preislamica con un sistema
umanitario capace di integrare le diverse minoranze discriminate: le donne, le
bambine orfane, gli schiavi, ecc. Sono numerosi i testi del Corano, soprattutto
quelli dell'epoca de La Mecca, che riconoscono uguaglianza di diritti e doveri
fra uomini e donne.
Intanto, bisogna constatare che non esiste alcun racconto della creazione della
donna come costola dell'uomo, come nella Bibbia ebraica (Genesi 2,21-22).
Racconto che è stato assunto dal cristianesimo ed è molto presente
nell'immaginario dei cristiani e delle istituzioni ecclesiastiche per
giustificare la superiorità dell'uomo sulla donna e le relazioni di dipendenza
e sottomissione di questa rispetto all'uomo. Secondo il testo coranico, uomo e
donna sono creati uguali senza subordinazione né dipendenza di uno dall'altro.
La relazione fra i credenti e le credenti è di amicizia e mutua protezione. Nel
Corano compare 25 volte il nome di Adamo, che non è arabo ma ebreo, e 21 volte
ha il significato di umanità, non di uomo-maschio. Tantomeno si trova, nel libro
sacro dell'islam, un racconto che renda responsabile la donna del peccato e
dell'espulsione dal paradiso, come invece all'inizio della Bibbia ebraica
(Genesi 3,6).
Nella situazione di discriminazione, anche di disprezzo della vita, nella quale
si trovavano le donne nella società araba preislamica, il Corano costituisce un
avanzamento importante. Era tale l'offesa suscitata dalla nascita di una
bambina in quella società, che alcuni genitori arrivavano a ucciderla alla
nascita, come constata il Corano che condanna fermamente questa pratica:
"Quando si annuncia a uno di essi una bambina, rimane cupo e angosciato.
Schiva la gente per vergogna, chiedendosi se la conserverà, a suo disonore, o
se la nasconderà sotto terra… Che pessimo modo di giudicare" (16,58-59).
Il Corano riconosce uguaglianza di diritti e di doveri di uomini e donne
rispetto alla religione, come dimostra il seguente testo che utilizza un
linguaggio chiaramente inclusivo di uomini e donne: "Dio ha preparato
perdono e magnifica ricompensa per i musulmani e le musulmane, i credenti e le
credenti, i devoti e le devote, i sinceri e le sincere, i pazienti e le
pazienti, gli umili e le umili, quelli e quelle che fanno l'elemosina, quelli e
quelle che digiunano, i casti e le caste, quelli e quelle che ricordano molto
Dio" (33,35). La ricompensa e la buona vita per le buone opere spettano
agli uomini e alle donne credenti allo stesso modo (16,97).
3.2. Tradizioni patriarcali nel Corano ed ermeneutica di genere
Con tutto ciò vi sono testi chiaramente patriarcali che difendono la
superiorità del maschio, la sua funzione protettrice della donna e la
dipendenza di questa. In essi la virtù delle donne è essenzialmente legata alla
devozione, all'obbedienza e all'atteggiamento di sottomissione nei confronti dei
mariti. La ribellione è considerata una mancanza di rispetto nei loro
confronti, che deve essere castigata. Leggiamo nel Corano: "Gli uomini
hanno autorità sulle mogli in virtù della preferenza che Dio ha dato agli uni
piuttosto che agli altri e dei beni che ottengono. Le donne virtuose sono
devote. E badano, in assenza dei loro mariti, a ciò a cui Dio ha ordinato loro
di badare. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole
nei loro letti, battetele! Se vi obbediscono, non scontratevi con loro"
(4,34).
Come interpretano le teologhe femministe e i teologi riformisti all'interno
dell'islam questo testo ed altri analoghi? Tutti sono d'accordo sul fatto che
riflettono la mentalità dell'epoca, nella quale l'inferiorità della donna era
molto radicata. Vi è chi ritiene che i testi che giustificano la soggezione
della donna all'uomo devono essere intesi in senso metaforico. In generale si
tende ad affermare che la traduzione non è corretta. Dáraba è una parola
che ha molti significati. Alla base del giudizio contro l'imam di Fuengirola, i
filologi arabi credono che l'imperativo di dáraba di 4,34 non può essere
tradotto con "battetele" o "date loro una bastonata". La
traduzione corretta sarebbe "date loro un tocco di attenzione". Vi
sono anche coloro che credono che possa essere tradotto con "fate
l'amore".
Alcune tendenze femministe islamiche tendono a spiegare la misoginia e la
struttura patriarcale di molte società musulmane facendo riferimento alla
influenza che nell'islam aveva esercitato la misoginia del mondo mediterraneo,
quando questa religione entrò in contatto con la cultura mediterranea.
L'evoluzione stessa della tradizione del Hadiz pare confermare questa
tendenza, poiché le prime compilazioni, basate sulle informazioni di A'isha, la
vedova del profeta, difendono, generalmente, l'uguaglianza tra uomini e donne,
mentre le compilazioni posteriori non riconoscono tanta importanza ad A'isha e
introducono una serie di regole che restringono la libertà delle donne.
Le tendenze islamiche riformiste e femministe sono solite convenire sul fatto
che il Corano deve essere interpretato alla luce dei diritti umani e non
viceversa. Questo è applicabile ai testi sacri di tutte le religioni. In questa
direzione va la Dichiarazione Islamica Universale dei diritti umani proclamata
il 19 settembre 1981 alla sede dell'Unesco dal Segretario generale del Consiglio
Islamico per l'Europa, che difende "un ordine islamico in cui tutti
gli esseri umani siano uguali e nessuno goda di alcun privilegio né subisca uno
svantaggio o una discriminazione, a motivo della sua razza, colore, sesso,
origine o lingua".
Questa interpretazione, tuttavia, non si ferma al terreno dei principi. Vi sono
musulmani che la mettono in pratica, come Shirin Ebadì, avvocata iraniana e
docente di Diritto all'Università di Teheran, che ha ricevuto il Premio Nobel
per la pace l'anno scorso per la sua lotta a favore dei diritti umani. È una
musulmana praticante che ha levato la voce nelle aule e nella sua attività
contro la discriminazione delle donne in un Paese musulmano come l'Iran dove
continua ad essere applicata la Shari'a. Il suo atteggiamento mostra e dimostra
non solo la compatibilità tra fede in Allah e difesa dei diritti umani, ma
anche la relazione intrinseca tra entrambi. Shirim Ebadì difende l'uguaglianza
fra uomini e donne e la conseguente emancipazione di queste, mentre considera
il maschilismo una malattia come l'emofilia, trasmessa dalle madri ai propri
figli.
"Alcune madri hanno nel loro corpo gli elementi latenti della malattia, e
anche se non la mostrano visibilmente, la trasmettono ai loro figli e li
contagiano. Considero questo male simile alla cultura patriarcale nel mondo.
Nel sistema patriarcale, le donne sono le vittime, ma al tempo stesso, sono
coloro che trasmettono questa cultura ai loro figli maschi. Non si può
dimenticare che ogni uomo repressore è stato creato da una madre. Le stesse
madri fanno parte del ciclo di espansione del maschilismo".
3.3 Dalla prospettiva dei diritti umani e dell'ermeneutica del sospetto
Senza interpretazione le religioni sboccano direttamente nel fondamentalismo.
Senza l'orizzonte dei diritti umani le religioni finiscono per giustificare
pratiche contrarie a dignità, libertà, uguaglianza e inviolabilità della
persona, come torture, maltrattamenti, violenza di genere, esecuzioni, ecc. E
lo fanno facendo riferimento a Dio per dare legittimazione religiosa e validità
normativa a queste pratiche, cosa che implica una contraddizione, poiché si
invoca il Dio della Vita e della Pace, il Dio del Perdono e della
Riconciliazione per praticare la vendetta e la violenza, nel caso di cui ci
stiamo occupando, contro le donne.
Il cristianesimo e alcune tradizioni islamiche tendono a difendere la
superiorità del maschio sulla donna, basandosi su tre presupposti: a) la
creazione del maschio prima della donna, uscita da una costola dell'uomo, cosa
che la rende ontologicamente inferiore; b) la responsabilità della donna nel
peccato originale, che provoca la cacciata dal paradiso; c) il compito
ausiliare di servire il maschio che viene assegnato alla donna e, di
conseguenza, il carattere strumentale della sua esistenza (cfr. R. Hassan,
"Las mujeres en el islam y en el cristianismo". Concilium 253,
giugno 1994), pp. 39-44).
Il ricorso all'ermeneutica critica, del sospetto, dalla prospettiva di genere,
svuota di contenuto questi tre miti o principi fondamentali, che sono
registrati nell'immaginario religioso dei credenti, nei loro predicatori e nei
loro teologi, nelle loro istituzioni, e nega loro ogni legittimità.
Nel suo libro pioniere La Bibbia delle donne, la teologa cattolica
nordamericana Elisabeth Cady Stanton stabiliva già nel 1895-1898 (Ediciones
Cátedra, Universitat Valencia, Instituto de la Mujer, Madrid, 2000) i principi
di una nuova ermeneutica dei testi fondanti del cristianesimo e dell'ebrai-smo,
validi anche per l'islam: è l'ermeneutica del sospetto, che mette in
discussione il contesto patriarcale, il linguaggio patriarcale, il contenuto
patriarcale, le traduzioni patriarcali e le interpretazioni patriarcali della
Bibbia. La Bibbia, affermava Cady Stanton, è un libro scritto da maschi che non
hanno visto Dio né hanno parlato con lui. L'ermeneutica del sospetto di Cady
Stanton è stata ripresa dalle teologhe femministe del XX secolo con la lettura
dei testi biblici a partire dalla prospettiva di genere, che prevede due
momenti metodologici: quello della decostruzione e quello della ricostruzione.
La lettura dei testi fondanti del cristianesimo e dell'islam a partire dalla
prospettiva di genere porta direttamente a superare il patriarcalismo
nell'organizzazione di entrambe le religioni e l'androcentrismo nel loro
pensiero teologico. Credo che sia giunto il momento di stabilire un'alleanza,
tanto nel campo della ricerca quanto in quello della strategia, per porre le
basi di una teologia islamo-cristiana femminista che recuperi le tradizioni
bibliche e coraniche di emancipazione delle donne e dei settori esclusi,
restituisca loro la dignità umana e li riconosca come soggetti politici nella
società e soggetti religiosi nelle rispettive comunità di fede, con pienezza di
diritti, senza discriminazioni di genere, etnia, classe o cultura (un esempio
di tale ermeneutica sono i libri di Fátima Mernisi, scrittrice marocchina e
docente all'Istituto Universitario di Ricerca Scientifica dell'Universi-tà
Mohamed V del Marocco, specializzata nello studio della condizione femminile
nelle società musulmane; tra le sue opere, cfr. Marruecos a travéò de sus
mujeres, Ediciones del Oriente y del Mediterraneo, Madrid 1998; id., El
Harén politico. El profeta y las mujeres, Ediciones del Oriente y del
Mediterraneo, Madrid 2002, 2ª ed., opera in cui investiga le origini dell'islam
a ricerca delle cause dell'attuale misoginia nelle società musulmane).
VENIAMO DA STRADE DIVERSE, INCROCIAMO IL NOSTRO CAMMINO (Tariq Ramadan)
Per arrivare all'impegno comune di cui parlava Tonio
Dell'Olio, abbiamo innanzitutto un grande bisogno di comprendere le nostre
rispettive tradizioni. La mia, come sapete, è quella islamica. Non è affatto
facile, al giorno d'oggi, con tutto il gran parlare che si fa dell'islam e del
terrorismo in Occidente, e anche altrove, dare un'immagine un po' più adeguata
della variegata realtà musulmana. Nei Paesi occidentali finisce spesso per
prevalere una concezione dicotomica dell'islam, che divide i musulmani in
moderati e radicali, i primi vicini a noi, e i secondi contro di noi.
Una concezione decisamente superficiale. La realtà dell'islam è ben più
complessa e andrebbe analizzata, a mio avviso, a tre livelli: bisogna innanzitutto
considerare quelle che sono le dimamiche interne all'islam stesso, ai suoi
insegnamenti e alle sue fonti. Anche fra di noi, come in tutte le grandi
tradizioni religiose, ci sono diverse tendenze e diversi approcci. Secondo, è
necessario cercare di comprendere, a partire da tali dinamiche, con quali
soggetti e correnti è possibile, oggi come in futuro, interagire ed
intraprendere un percorso comune. Infine, dobbiamo capire quali sono gli
obiettivi che, come parte di questo grande movimento per un mondo migliore,
possiamo cercare di perseguire insieme, ognuno a partire dalla sua tradizione e
dal suo sistema di valori.
Mi fanno molta paura quelli che si fanno alfieri della visione manichea e
binaria di cui si diceva: noi contro di loro. Laddove questo “loro” è a sua
volta diviso fra i "buoni" e i "cattivi". In realtà,
volendo considerare la realtà islamica un po' più da vicino, è importante
innanzitutto distinguere fra due piani: quello prettamente religioso e quello
culturale. Quando si parla di "cultura" o "civiltà"
islamica, bisogna rendersi conto che parliamo allo stesso tempo di Africa, di
Asia e, oggi, anche del Nordamerica e dell'Europa. Siamo di fronte ad una
realtà religiosa in cui vengono condivise una serie di fonti d'ispirazione
fondamentali ma che comprende culture diverse. L'islam non è una
cultura. È fondamentale, in questo senso, che gli occidentali si
"decentrino", cessando di pensare all'islam a partire dal loro punto
di vista e cercando invece di comprendere il punto di vista dei musulmani, di
chi vive l'islam dall'interno. C'è la tendenza, in Occidente, ad avere una
visione riduttiva del mondo musulmano. Ne è un tipico esempio l'identificazione
fra musulmani e arabi. Se è vero che il Corano è stato scritto in arabo, la
cultura araba non è la cultura dell'islam. Io, tanto per fare un
esempio, sono un musulmano europeo, e la mia cultura è quella europea, anche se
i miei tratti somatici sono nordafricani.
La lettura riformista
Dunque, innanzitutto nell'islam abbiamo diverse culture. Secondo, in qualsiasi
Paese musulmano è possibile trovare diverse correnti, diverse interpretazioni
dell'islam: da quelle più letterali e tradizionaliste (ad esempio quella wahabita)
a quella sufi, per finire con quelle cosiddette "riformiste".
Io che vi parlo non rappresento tutto l'islam, non posso essere considerato
"la voce islamica", ma solo una voce fra le tante, che definirei
appunto riformista. Allo stesso modo, l'islam radicale non rappresenta tutto il
mondo musulmano, non più di quanto, per fare un parallelo, la teologia della
liberazione non rappresenti tutta la cristianità.
Ora, fra queste diverse interpretazioni, ce ne sono attualmente alcune che, pur
essendo ben radicate nella tradizione islamica, promuovono una nuova lettura
delle fonti, motivata dalla novità del contesto. In altre parole, promuovono
una sorta di dialettica fra testo e contesto. Non solo: all'interno del mondo
musulmano, c'è chi interpreta i testi in un'ottica di liberazione. Così come
esiste una teologia della liberazione, c'è anche un approccio al Corano
finalizzato a favorire la liberazione delle masse islamiche, liberazione a
partire dal Corano e da valori islamici e opposta ad una lettura delle
fonti riduttiva ed arcaicizzante. Il problema è che pochi sono al corrente di
tutto ciò. Pochi sanno di quanti propendono per una simile lettura in Indonesia
e in alcune parti dell'Africa, in particolare nel Maghreb e in Egitto. E questo
perché chi adotta un simile approccio lo fa in maniera relativa alle fonti
dell'islam, usandone la terminologia e i concetti. E siccome la maggior parte
degli studiosi e dei teologi, qui in Occidente, non sa lavorare con questa
terminologia e questi concetti, rimane interdetta.
Una visione multidimensionale dell'identità
Personalmente, sono impegnato nel promuovere la lettura "riformista"
del Corano, cioè un tipo di interpretazione che ha molto poco spazio nei media
e nella vulgata che circola qui in Occidente riguardo all'Islam. Beh, tenetevi
forte: la corrente riformista è maggioritaria in tutto il mondo musulmano.
Le correnti più radicali, al contrario, non sono affatto maggioritarie. Hanno
sicuramente più risonanza e più visibilità, ma non sono maggioritarie. La
maggior parte dei musulmani cerca, grazie anche all'aiuto dei propri
intellettuali, di trovare il modo di essere allo stesso tempo profondamente
religiosa e radicata nel proprio tempo e nella propria società. Non solo: il
mondo islamico è oggi attraversato dalla stessa discussione sull'identità che
attraversa l'Occidente. Anche i musulmani, cioè, discutono e si dividono circa
la differenza che c'è fra una concezione chiusa dell'identità, una concezione
di tipo oppositivo (definisco il mio esser me stesso in opposizione e per
contrasto con l'altro, ovvero "sono me stesso dal momento che non sono te")
ed una, per così dire, "multidimensionale". Si discute del problema
delle nuove possibili strade che un'istruzione religiosa in grado di affrontare
le sfide della contemporaneità dovrebbe imboccare. Queste sono tutte
discussioni che riguardano il mondo musulmano, così come riguardano l'Europa e
il Nordamerica.
Noi europei, in particolare, dobbiamo renderci conto della nostra enorme
responsabilità. Se riuscissimo effettivamente a favorire una maggiore
comprensione delle nostre rispettive tradizioni religiose, a creare dei ponti
fra di esse, ciò aiuterebbe non poco il mondo islamico. Ripeto, la
responsabilità che abbiamo, come liberi cittadini degli Stati democratici in
cui viviamo, è enorme. In Europa, abbiamo una capacità di farci ascoltare e di
incidere molto maggiore di quanto non avvenga in tanti Stati a maggioranza
islamica, dove anche solo leggere, discutere ed esprimersi liberamente è molto
più difficile. Ho accennato prima al problema dell'istruzione. Bene,
all'interno dei nostri sistemi educativi, possiamo far risaltare il carattere
interreligioso della nozione di giustizia, mostrando come essa possa essere
resa operativa in contesti culturali e religiosi diversi. Altri valori che
condividiamo sono quelli della libertà e della lotta contro la discriminazione.
E ce ne sono altri ancora. Le nostre tradizioni s'intersecano in più punti ed è
proprio di ciò che abbiamo in comune che dobbiamo parlare. Ma se è vero che ci
sono dei luoghi nei quali ci può capitare d'incontrarci, è anche importante che
ognuno di noi abbia ben presente qual è il cammino che ha portato l'altro fino
a quel punto. Oltre al punto di confluenza, è importante, anzi essenziale,
anche la strada che si è percorsa per raggiungerlo. Dobbiamo cercare per quanto
possibile di essere allo stesso tempo centrati (nei nostri valori comuni) e
decentrati (per capire l'altro e incontrarlo).
Servire Dio nei propri simili
Da tutte queste riflessioni, personalmente traggo una conclusione: non ridurrò
mai il mio essere religioso a qualcosa di separato e di lontano dal mondo in
cui vivo, ad un rapporto privilegiato con Dio che prescinde dalle persone. Sono
convinto che credere in Dio significhi servire i miei simili o, meglio,
servirlo nei miei simili. E che essere giusto con gli altri e con me
stesso sia l'unico modo che ho a disposizione di credere nel Dio dei giusti. In
arabo, uno dei nomi di Dio è proprio "Il Giusto". Ma servire le
persone in che modo? Innanzitutto, proprio attraverso una lettura delle fonti
che sia in grado di promuovere i diritti delle persone e il loro percorso di
liberazione. Da questo punto di vista, c'è nell'islam un concetto d'importanza
capitale che è quello di jihad. Bisogna parlare della jihad, non si può
evitare la questione. Ci sono diverse interpretazioni di questa nozione. Il
primo significato di jihad è quello di "resistenza". Ciascuno di noi,
nella sua vita più intima, sperimenta la violenza e sa di avere istinti
violenti. Alle volte siamo violenti, menzogneri, desiderosi di opprimere il
nostro vicino per "costruire" la nostra personalità. Jihad è
innanzitutto il resistere a questi aspetti negativi della personalità di
ognuno. È il punto di partenza di ogni spiritualità: non si può essere migliori
se non ci si rende conto che la prima forma di resistenza è quella verso noi
stessi. Jihad è il resistere alla violenza che facciamo a noi stessi. Questo ad
un livello micro. Ad un livello macro, il termine 'jihad' dovrebbe avere lo
stesso significato, ovvero quello di "resistenza contro
l'oppressione". Ciò non vuol dire che, per resistere, si possa usare
qualsiasi mezzo. Esiste un'etica anche nella resistenza. Può accadere che
qualcuno resista legittimamente facendo però uso di mezzi illegittimi. Penso
che il punto sia quello di promuovere una forma di resistenza che sia allo
stesso tempo diretta contro l'oppressore esterno e contro quello interno, il
che equivale a resistere contro chi ci opprime essendo allo stesso tempo severi
con noi stessi e con le caratteristiche più negative della nostra personalità.
Questo è, a mio avviso, il significato più profondo del concetto di
"nonviolenza". Può accadere di dover resistere con le armi in pugno,
ma ciò non significa giustificare qualsiasi mezzo di resistenza.
Prendiamo il caso della Palestina, visto che sappiamo tutti che è anche di
questo che parliamo. Sono convinto che è sbagliato uccidere degli innocenti,
sempre. La violenza che opprime da decenni la popolazione dei territori
occupati non giustifica certe forme di resistenza illegittime, e tuttavia le spiega.
Ma se diciamo questo, e se vogliamo aiutare veramente i palestinesi ad adottare
forme di resistenza nonviolente, abbiamo il dovere di denunciare l'oppressione,
non dobbiamo smettere di farlo neanche per un momento. Altrimenti, il nostro
starcene qui seduti a dire che siamo per la nonviolenza rischia di diventare
colpevole. È il nostro silenzio che promuove la violenza degli oppressi.