Un articolo della “Repubblica” di Firenze e la meditata e documentata replica della Comunità di Base di piazza del Luogo Pio di Livorno  al superiore dei francescani di Firenze

 

"Viviamo fra rom e barboni solo per dire: siamo con voi"

"Il nostro scopo non è distribuire il catechismo insieme ai panini. Non siamo qui necessariamente per fare qualcosa" Il nuovo progetto di "Piccola fraternità inserita" si estenderà presto a quartieri popolari periferici e chinatown "Non ci sentiamo speciali, san Francesco viveva così. è una causa dell' Uomo" "Resteremo finché le ruspe o i vigili non ci cacceranno via insieme ai più poveri" Nel campo nomadi di Quinto Basso o fra gli homeless di piazza Santissima Annunziata

di MARIA CRISTINA CARRATU

FRA' Giulio lava i panni nell' acquaio, un coniglio scuoiato giace nel catino di plastica, l' albero luccica contro i vetri di plexiglass. E' Natale nelle baracche di legno e lamiere del campo rom di Quinto Basso, Comune di Sesto, perduto fra discariche e campi senza vita. Giulio, Luigi e Andrea Maria, frati minori dell' Ordine riformato dei francescani, vivono da un anno in questo ostinato presepio vivente, fatto di nomadi, donne che partoriscono, natività che si susseguono per tutto l' anno. Un «luogo», come lo chiamano appunto i nomadi, il luogo dove ci si ferma, per poi ripartire. Precario, abusivo, come quella capanna antica, minacciato dalle ruspe del Comune. Anche la baracca dei frati è abusiva, fatta di assi e lamiere, sebbene non sia solo la loro casa, ma un convento. Istituito dal ministro provinciale dei Francescani di Firenze con tanto di formula di rito («…casa filialis ad Quintum Bassum…») e intitolato a Maria, Madre dell' incontro. Ma non c' è aria di «missione», qui. Piuttosto, uno stare da nomadi fra i nomadi. Strappare una frase ai tre fraticelli sarebbe stupido. Non sono qui per parlare. E se è per questo, nemmeno per fare. Sono qui per esserci, concetto che per il «mondo» è quasi impossibile da capire. Via Giacomini, sede della Curia dei frati minori della Toscana. «Vede» dice il padre provinciale fra' Maurizio Faggioni, «per fare, qui da noi, c' è uno Stato sociale abbastanza organizzato. E tutto sommato, morire di fame non si muore. Ma forse che san Francesco non servirebbe più a nulla il giorno in cui l' umanità risolvesse per sempre il problema del suo sostentamento?». C' è qualcosa che sta accadendo al campo di Quinto Basso, ma anche sotto i portici di piazza Santissima Annunziata, e accadrà presto nei quartieri emarginati della città - gli altri luoghi eletti dai francescani a loro dimora di strada - che non si può spiegare con la categoria del fare, ovvero dell' efficienza. «Parliamo piuttosto di efficacia» dice Faggioni. «Non è la stessa cosa, sa? Quando ci chiedono: ma di questi nomadi, quanti ne avete battezzati? E a quei barboni, quanti letti avete offerto, quante mense, quante cure mediche? Noi rispondiamo: nessuno, niente. Non siamo di quelli che con la scusa del panino, offrono anche il catechismo. Non voglio dire che l' efficienza della carità non serva, è ovvio. Ma non è che se non si risolve per forza una qualche mancanza materiale, non si fa niente. Succede lo stesso qualcosa, che va descritto in un altro modo». Aiuta un po' a capire, suggerisce il padre provinciale, la parola testimonianza. «Io sto lì, sotto i cartoni, con i barboni di piazza Santissima Annunziata, o con i nomadi di Sesto, giorno e notte, vivendo come loro, anzi, da meno di loro, non dimentichiamoci che noi siamo frati minori, cioè gli ultimi degli ultimi. E così, semplicemente gli testimonio che per me la loro vita è importante così com' è, perché è la loro vita. Punto e basta». «Oh no, non c' è niente di eroico in tutto questo. Di esagerato. Siamo noi stessi, siamo francescani. E san Francesco ha abbracciato i poveri. E' stato in mezzo ai poveri. Non ha cercato di cambiarli, di soccorrerli, di convincerli a uscire dalla loro condizione. E' stato, e basta. E c' è stato davvero, non è che è andato a prestare la sua opera per un periodo, e poi è tornato a casa. Con i poveri non si gioca. Con i poveri si deve vivere. Quando non manca da mangiare, come da noi, può continuare a mancare qualcosa di ugualmente vitale. Noi stiamo con questa gente, perché in noi si rifletta il senso della loro vita». La causa dell' Uomo: sembra un' astrazione, ma nella baracca del campo nomadi, come dentro lo studio ordinato di frate Maurizio, è come se se ne rimettesse a fuoco l' essenza - di primo, anzi il più terrestre, dei bisogni dell' uomo. «In fondo, è una ragione così forte, no? Non ha mica bisogno di affermarsi con l' imposizione, e nemmeno con le parole. E comunque, in una città cinica, le parole a che servono. Nessuno sa più ascoltare». E i pochi che lo fanno, subito obiettano a colpi di cose fatte, le tonnellate di delibere che compongono, come un puzzle, lo Stato sociale. Ma, oltre, o prima, di ogni intervento sociale, a disegnare lo sfondo di quel puzzle, i colori, l' orizzonte…"senza cui ogni intervento è efficiente, magari, ma non necessariamente efficace: ecco, a questo, chi ci pensa? In nome dell' efficienza, obblighiamo gli zingari a urbanizzarsi, i barboni a trovare un tetto, gli immigrati a integrarsi. Ma se Dio vuole, questi gruppi umani, che la città attira, che le stanno nelle pieghe, nei margini, non hanno nessuna voglia di diventare come noi. E d' altra parte, chiediamocelo: integrarsi a che cosa, dovrebbero? Ad una cultura che si propone come modello soltanto perché può offrire a tutti da mangiare? Tutto questo, in realtà, è molto violento…». Meglio non parlare, dunque, «a nome di». E siccome fare, c' è chi «fa», i francescani hanno scelto di «stare». «Ma non vogliamo mica mimetizzarci, sa? Ognuno deve restare se stesso. Abbiamo già fatto un errore negli anni Settanta, quando fondammo a Livorno una comunità di frati operai. Un' e sperienza fallita, perché ci eravamo appiattiti in un ruolo sociale. Era l' epoca, c' era un clima. Coi nomadi di Quinto Basso si sta da frati. Si prega, si fa vita in comune, come in ogni convento, e si lavora, perché ci si deve mantenere. A turno in una cooperativa che fa pulizie. E si dà, e si riceve. Nessun assistenzialismo di partenza. Spesso sono gli zingari che ci aiutano, ci portano da mangiare, ci regalano vestiti. Nessun apostolato. Qui sono quasi tutti cristiani, fanno delle processioni per l' Assunta che sembrano delle armate brancaleone, ma vivono il Natale con un senso di mistero che noi neanche ci immaginiamo, però il presepio l' abbiamo fatto solo nella baracca convento. E i bambini vengono a guardarlo. Le famiglie di qui si arrangiano, rubacchiano in giro, chiedono l' elemosina, come dicono loro. Quando il discorso ci cade sopra, ci limitiamo a dire: lo sai che non mi piace… Senza giudizi, con rispetto. Del resto, anche a noi potrebbe capitare di chiedere l' elemosina, non sempre il lavoro ci basta. Ma loro sanno che non rubiamo, nemmeno se abbiamo fame. E l' esempio, pesa». Fino a quando? «Finché non arrivano le ruspe. O finché i vigili non cacciano barboni e frati da sotto i portici». E poi? «I poveri li avrete sempre con voi, ha detto Gesù…». E' vero, per fare tutto questo bisogna essere giovani a forti. Ma è stato l' intero Capitolo provinciale a varare il Progetto sperimentale di Pfi (vedi box a fianco), ovvero di Piccola fraternità inserita (fra i poveri) come quella di Quinto Basso: ne sono stati entusiasti anche i frati di ottant' anni. Ottocento anni dopo Francesco, una nuova spinta alle origini, che, per capirsi, si potrebbe dire post-moderna. Ancora fra Maurizio: «La contestazione dell' ufficialità, anche della Chiesa, mi sembra come decantata. C' è una generazione di giovani con una mentalità ecclesiale nuova, testimoni con la loro vita del mistero di un Dio che si fa incontrare negli ultimi, ma che sentono la Chiesa come madre che li invia. E senza i quali, d' altra parte, le opere, l' efficienza dell' organizzazione della Chiesa, indispensabile per affrontare le sfide del tempo, rimarrebbero senz' anima…».  

 

 

 

Lettera a la Repubblica - Firenze

 

            Abbiamo letto con molto interesse l’articolo “Il convento è una baracca al campo rom” su Repubblica-Firenze il 6 c.m. Vorremmo rivolgerci al padre Provinciale dei frati minori della Toscana che ha rilasciato l’intervista.

            Prima di tutto vogliamo felicitarci con lui e con tutto il Capitolo provinciale per aver dato vita ad una iniziativa che ci pare in chiara sintonia con lo spirito di S.Francesco e che allarga il ventaglio di esperienze consimili già esistenti da molti anni in varie parti del mondo.

            C’è però nell’intervista un riferimento molto negativo all’esperienza della comunità di frati dei frati al campo nomadi fiorentino.

Siamo la comunità di base (cdb) detta “di piazza del Luogo pio”, sorta nel 1973 intorno ai frati franc operai di Livorno degli anni settanta, alla quale letteralmente si contrappone quella attuale escani operai dei quali parla il padre Provinciale nella sua intervista. Ora siccome molti di noi sono stati non solo in contatto ma anche diretti partecipi dell’esperienza di quei frati operai dal lontano 1969 fino ad oggi, ci sentiamo in diritto-dovere di fare alcune osservazioni.

1. La comunità dei frati operai di Livorno degli anni settanta non è stata né ideata né fondata né voluta dal Capitolo provinciale, ma nacque grazie all’intuizione e alla volontà personale di alcuni frati e fu accettata, più con rassegnazione che con convinzione, dai superiori dell’epoca, con una certa dose di sarcasmo da alcuni frati e con aperta ostilità da molti altri. Noi che l’abbiamo vissuta dal di dentro possiamo affermare che non solo non c’è stato l’appoggio che pare ci sia oggi per la nuova iniziativa, e ne siamo lieti,  ma che c’è stato un vero e proprio boicottaggio. Perché quella fu osteggiata e questa invece, fortunatamente, favorita?

2. Si afferma nell’intervista che oggi i frati al campo nomadi non vogliono mimetizzarsi; con un chiaro riferimento a quelli degli anni settanta a Livorno. I frati operai di Livorno non si sono mai mimetizzati. Sul campanello e sulla porta c’era scritto “Fraternità francescana”; nelle fabbriche, dove lavoravano, tutti sapevano che quelli erano frati; dopo pochi mesi di permanenza in città il loro appartamento era un ritrovo di molta gente che andava lì proprio perché sapeva chi erano gli inquilini. Non solo; per lungo tempo hanno celebrato quotidianamente l’eucaristia, all’inizio da soli, poi con compagni occasionali che volevano unirsi a loro; successivamente le persone interessate divennero tanto numerose che abbiamo deciso, tutti insieme, di riunirci in un “fondo”. Lì si è celebrato l’eucaristia tutti i sabati, come si è continuato a fare, in luoghi diversi, fino ad oggi. Lì, in quel “fondo” abbiamo fatto incontri di ogni tipo, corsi di studio sulla bibbia, sui sacramenti, sulla pace e nonviolenza, dibattiti pubblici, ecc, senza nessuna mimetizzazione.

3. E non è per niente vero che i frati operai si erano “appiattiti in un ruolo sociale”. Erano a tutti gli effetti, ed ufficialmente, frati operai; andavano ogni giorno in fabbrica (48 ore a quei tempi!), talvolta si occupavano di sindacato (mai a tempo pieno), partecipavano alle lotte degli operai, ma non hanno mai voluto svolgere un ruolo sociale. Anche loro hanno sempre rifiutato di dar vita ad “opere” di supplenza. Si sono invece impegnati nell’aiuto alle parrocchie cittadine; tutte le domeniche per dieci lunghi anni, sono andati nelle parrocchie che ne facevano richiesta a celebrare l’eucaristia.

4. “La comunità dei frati operai di Livorno è stata un’esperienza fallita”. Altra falsità. I frati operai di Livorno erano animati dalle stesse intenzioni di quelli di oggi al campo nomadi: siamo frati minori, gli ultimi degli ultimi. Per i frati di oggi vuol dire andare a convivere con i nomadi; per quelli di trentacinque anni fa voleva dire condividere, in tutto e per tutto, la vita degli operai, la classe sociale allora più significativa e rappresentativa dei poveri. E’ vero che alcuni di quei frati hanno preso altre strade rispetto a quella iniziale. Ma chi può dire che cambiare strada sia un fallimento, se la mèta è la stessa? Noi preferiamo dire che quelle persone hanno maturato cammini diversi per essere meglio coerenti con lo spirito delle loro scelte iniziali. L’accusa di fallimento ci pare anche in stridente contraddizione con quanto afferma lo stesso padre Provinciale: se non è l’efficienza che conta e nemmeno l’efficacia, come si fa a dire che è fallita una iniziativa comunitaria durata dieci anni, che ha dato vita a centinaia di incontri, di contatti, di scambi e che, non dimentichiamolo, è in modo diverso ancora in vita?

5. Uno dei frati operai, Martino Morganti, è stato giudicato “indegno” di appartenere all’Ordine ed espulso ufficialmente, con suo profondo rammarico, nel 1997, poco prima di ammalarsi di un tumore che lo avrebbe in breve portato alla morte. Questa espulsione è stata il tentativo di porre la pietra tombale sull’esperienza dei frati operai di Livorno. Essa getta un’ombra di profonda incoerenza verso le esperienze attuali come quella dei frati del campo rom. E suscita pesanti interrogativi.

Per la nostra cdb, e per le comunità di base nazionali, Martino è stato un punto di riferimento importantissimo ed anche la Chiesa livornese lo ha apprezzato fino alla morte: il vescovo mons. Ablondi è andato a fargli visita spessissimo durante la malattia ed il vescovo ausiliare era presente alle sue esequie.

L’ itinerario di Martino Morganti è partito da un forte inserimento istituzionale nella Chiesa e nell’Ordine francescano. Dopo la formazione, entrò molto presto nel Consiglio definitorio della Provincia dell’Ordine come consigliere. Ha insegnato Diritto Canonico e Liturgia per circa quindici anni nello Studio teologico francescano di Fiesole e in quello del Seminario di Firenze. Ha tenuto corsi di Liturgia in molti istituti e diocesi. E’ stato relatore in molte «Settimane liturgiche nazionali». Ha collaborato a pubblicazioni periodiche come Rivista del Clero, Settimana del Clero, Rivista di Pastorale liturgica, Rivista Liturgica, L’Osservatore Romano della Domenica. Dal 1969 ha diretto per circa dieci anni e rivitalizzato «Studi francescani», antica rivista della Provincia toscana dell’Ordine francescano. Fu dimissionato per incompatibilità con la linea ideologica della proprietà.

E’ dell’ottobre 1969 la scelta di vivere la fraternità francescana in mezzo alla gente, fuori dal convento, guadagnandosi da vivere col lavoro, insieme ad altri confratelli. Si stabiliscono in una comune abitazione a Livorno e danno vita così alla prima «piccola fraternità francescana». Martino lavora prima come addetto alle pompe di benzina, poi in una fabbrica di tonno in scatola e quindi è assunto come operaio alla SPICA, una delle poche grandi fabbriche livornesi. Ha smesso di lavorare nel 1987 per pensionamento.

Nel 1995 gli è stato imposto di rientrare in convento pena la espulsione dall’Ordine francescano per mancanza di “conformità”. L’espulsione è avvenuta nel 1996.

Ecco, se Martino è l’esempio di un fallimento, allora ci auguriamo milioni di fallimenti.

 

                                                       La comunità cristiana di base di piazza del Luogo Pio

 

Livorno 10 gennaio 2005.