Amo il latino, però…

di Carlo Maria Martini

in “Il sole 24-Ore” del 29 luglio 2007

Avendo raggiunto il traguardo degli ottant'anni, posso dire di avere vissuto per almeno trentacinque

anni l'antica liturgia, quella in uso prima del Concilio Vaticano II, tutta rigorosamente in latino, con

i suoi cinquantadue brani di Vangelo domenicali che si ripetevano ogni anno, dando occasione a

una predica per lo più non molto diversa da quella dell'anno precedente.

L'antico rito è stato quindi quello della mia Prima Comunione, delle incipienti esperienze di

chierichetto, dei contatti con la Parola di Dio offerta dalla liturgia. È stato il rito della mia

ordinazione sacerdotale, delle mie Messe, dei sacramenti ricevuti. È nel quadro di questo rito che è

iniziato e si è sviluppato quel contatto col divino che porta a riconoscere in Colui che chiamiamo

Dio il mistero ineffabile e indisponibile, quello che ci sovrasta da ogni parte, ci avvolge, ci penetra,

ci vivifica e ci fa presentire una santa vicinanza.

Anche il latino non mi ha mai fatto problema. Da bambini, soprattutto nelle risposte della Messa e

in quei canti che tutta la gente conosceva, lo storpiavamo con naturalezza e con disinvoltura (come

ricordava in uno scritto dell'epoca monsignor Francesco Olgiati, uno dei fondatori della Università

Cattolica del Sacro Cuore, citando la storpiatura di un conosciutissimo canto che diceva Procedenti

ab utroque compar sit laudatio così: «Accidenti come trotta il caval del sor Laudazio»).

Ma ben presto cominciai a imparare questa lingua e a scoprire con gioia i significati reconditi di

quanto cantavamo con fervore: perché ce la mettevamo tutta e l'entusiasmo e la gioia non

mancavano! L'insieme di tali celebrazioni aveva una qualità che non derivava tanto dai testi, che la

gente non capiva, ma dalla dedizione personale e gratuita di chi vi partecipava.

Il latino divenne poi, nei giorni dell'adolescenza e della giovinezza, la mia lingua di studio e anche

di uso quotidiano. Ancora oggi non avrei difficoltà a predicare in questa lingua. A Milano, nella

Cattedrale, ero solito celebrare in latino nelle grandi festività. Perciò ho visto con rammarico il

decadere del latino, anche nel mondo ecclesiastico, e i vani sforzi per farlo rivivere, tra cui quello

ardente e un po' ingenuo di Papa Giovanni, che considerava la sua enciclica Veterum Sapientia per

la promozione della lingua latina nella Chiesa uno dei tre atti fondamentali del suo ministero di

Papa, insieme con il Concilio Vaticano II e il Sinodo Romano.

Avrei quindi le credenziali per approfittare del recente Motu proprio e ritornare a celebrare la

Messa con l'antico rito. Ma non lo farò, e questo per tre motivi.

Primo, perché ritengo che con il Concilio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la

comprensione della liturgia e della sua capacità di nutrirci con la Parola di Dio, offerta in misura

molto più abbondante rispetto a prima.

Vi saranno certamente stati alcuni abusi nell'esercizio pratico della liturgia rinnovata, ma non mi

pare tanti presso di noi. Del resto, lo dirò per quelli che capiscono il latino, abusus non tollit usum.

Di fatto bisogna riconoscere che per molta gente la liturgia rinnovata ha costituito una fonte di

ringiovanimento interiore e di nutrimento spirituale.

In secondo luogo non posso non risentire quel senso di chiuso, che emanava dall'insieme di quel

tipo di vita cristiana così come allora lo si viveva, dove il fedele con fatica trovava quel respiro di

libertà e di responsabilità da vivere in prima persona di cui parla san Paolo ad esempio in Galati 5,

1-17. Sono assai grato al Concilio Vaticano II perché ha aperto porte e finestre per una vita cristiana

più lieta e umanamente più vivibile. Certo, c'erano anche allora dei santi, e ne ho conosciuti. Ma

l'insieme dell'esistenza cristiana mancava di quel piccolo granello di senapa che dà un sapore in più

alla quotidianità, di cui si potrebbe fare anche a meno ma che dà più colore e vita alle cose.

In terzo luogo, pur ammirando l'immensa benevolenza del Papa che vuole permettere a ciascuno di

lodare Dio con forme antiche e nuove, ho visto come vescovo l'importanza di una comunione anche

nelle forme di preghiera liturgica che esprima in un solo linguaggio l'adesione di tutti al mistero

altissimo. E qui confido nel tradizionale buon senso della nostra gente, che comprenderà come il

vescovo fa già fatica a provvedere a tutti l'Eucaristia e non può facilmente moltiplicare le

celebrazioni né suscitare dal nulla ministri ordinati capaci di venire incontro a tutte le esigenze dei

singoli.

Ricavo come valido contributo del Motu proprio la disponibilità ecumenica a venire incontro a tutti,

che fa ben sperare per un avvenire di dialogo tra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero.