IL MATRIMONIO NEL VANGELO E
NELLA TEOLOGIA. IL RICHIAMO CHE NEL 1974 FECE E. BALDUCCI IN OCCASIONE DEL
REFERENDUM SUL "DIVORZIO" (DA ADISTA, 10-2-07)
Svelare le
mistificazioni e le menzogne
di Ernesto Balducci
A mio modo di vedere, è bene affrontare il referendum traendone
tutti i vantaggi possibili, una volta che una certa parte ne ha messo in
moto la macchina e nonostante che esso, con tutta evidenza, voglia coprire
una manovra con obiettivi reazionari.
Credo che il primo vantaggio sia proprio quello di convocare le masse ed in
specie le comunità cristiane, come qui, stasera, ad affrontare in modo
critico questo come altri problemi in cui rimane inceppata, per mancanza di
consapevolezza, la nostra crescita sociale. Affrontare questi problemi, per
svelare tutte le mistificazioni, le menzogne, concretizzate e dissimulate
all’interno di certi principi suggestivi.
Parlando da cristiano a gente che in gran parte si ritiene tale, ci tengo a
dire che il momento che stiamo vivendo è proprio il momento in cui dobbiamo
abbattere (noi ne siamo i primi responsabili) quella che chiamerei
l’ideologia cattolica, come ideologia di copertura del mondo borghese, il
quale mondo borghese trova vantaggio nel coprire i suoi obiettivi di conservazione
sociale con dei valori cosiddetti cristiani che hanno ancora una
grandissima forza di suggestione nelle coscienze.
La difesa della famiglia cristiana è un aspetto dell’ideologia cattolica
che, molto di più di quanto potremmo pensare, nasconde la volontà di
conservare un certo tipo di società e un certo tipo di sistema di rapporti
di proprietà. Alzare quindi questo velo è in un sol momento recuperare la
possibilità di un rapporto più vivace, più liberatorio col Vangelo e
smascherare le reali intenzioni della classe dominante.
Così, quando i nostri vescovi hanno creduto di dover convocare i cattolici
a una battaglia, la battaglia della indissolubilità giuridica del
matrimonio in Italia, hanno fatto riferimento a un modello cristiano della
famiglia, e certo un tale riferimento non può non avere risonanza nella
coscienza di una larga parte del popolo italiano, anche di quella che
politicamente ha fatto delle scelte dissenzienti nei confronti della
Chiesa.
Non esiste un modello cristiano di famiglia
Che cosa si nasconde, però, dietro questo cosiddetto modello cristiano
della famiglia? È lecito attribuire al messaggio cristiano un modello di
famiglia quale quello che abbiamo ereditato dal passato e che ancora
sopravvive? Ecco, la risposta è subito no. Si
tratta appunto di una menzogna, non di quelle architettate da chi sa quale
mal intenzionato, ma di quelle menzogne che nascono per una specie di
escrescenza storica progressiva, sulla spinta di altre ragioni che non sono
di tipo ideale, ma pratico.
Non esiste la “famiglia cristiana”, essa è appunto un falso valore. Io
vorrei mostrarvi come liberandoci da questa falsificazione, ricercando
anche le ragioni per cui essa è nata e si è fatta valere e riferendoci con
coscienza liberata alle esigenze evangeliche, noi ci mettiamo in movimento
tra le forze che mirano a far crescere la nostra società e liberarla anche
da altre schiavitù.
Che cosa intendiamo quando si parla di modello cristiano della famiglia?
Noi possiamo riferirci o al particolare ordinamento giuridico della
famiglia, quello che è stato elaborato lungo i secoli dalla Chiesa
cattolica, oppure ad un particolare concetto etico, morale della famiglia,
che, anche indipendentemente dall’ordinamento giuridico-canonico,
si è fatto valere da parte della società italiana. Per cui si dice che la
famiglia tipica italiana è una famiglia di formazione cristiana.
Ora, spieghiamoci su questo punto. Intanto sta di fatto che quando noi
parliamo della famiglia secondo l’ordinamento canonico, quello che per
adesso rimane in prima gestione della Sacra Rota e dei Tribunali diocesani,
noi non dobbiamo affatto ritenere che si tratti della traduzione giuridica
di un ideale evangelico. Si tratta invece di una creazione storica,
precisamente databile, di cui è responsabile la Chiesa cattolica.
I primi cattolici non avevano un ordinamento giuridico proprio della
famiglia. Essi vivevano la vita di famiglia, ed anche diremmo istitutivi,
secondo il costume del tempo. Non c’era, per dir così, il matrimonio in
chiesa; non c’era una anagrafe o un tribunale ecclesiastico per i
matrimoni, non c’era il prete, al matrimonio. I cattolici si sposavano come
tutti gli altri. Non sentivano alcun bisogno di dare al loro matrimonio un
ordinamento giuridico particolare all’interno del generale ordinamento
giuridico della società in cui vivevano, specialmente in quella romana.
Ad esempio, là dove erano le famiglie a stabilire il matrimonio dei figli,
i primi cristiani facevano come gli altri: il padre di famiglia destinava
alla figlia un dato marito, d’accordo con la famiglia del promesso sposo,
senza che i due interessati potessero aggiungere nulla, perché questo era
il costume.
Inutile quindi andare a cercare nei primi cristiani un modello di “famiglia
cristiana”. Così, per quanto riguarda il modello etico della famiglia, non
esiste un concetto etico specificamente cristiano, nei primi secoli. C’è
una visione, se vogliamo, di fede, teologale, cioè legata al riferimento a
Cristo. Non esiste però un ideale di famiglia con particolari contenuti morali.
La prassi familiare si modellava sul costume morale del tempo. Anche se è
chiaro che il cristianesimo impose un rigore morale, un rifiuto di certe
forme di depravazione, una condanna di certe degenerazioni; però non disse
cose diverse da quelle che poteva dire l’etica degli stoici o dei
pitagorici. Quindi il cristianesimo non si presenta con una sua etica
familiare formulata nei primi tempi.
Come nasce il modello cristiano della famiglia
Solo quando la Chiesa, dopo Costantino, e precisamente con Giustiniano,
acquista una responsabilità di tipo sociale, per cui tutti i momenti della
vita sociale vengono gestiti dal clero, incomincia a formarsi un
ordinamento matrimoniale cristiano che, come vedremo, si è poi accresciuto,
si è arricchito, si è accreditato in ogni modo fino a trovare il suo
sigillo nel Concilio di Trento e a diventare anche un modello di
ispirazione per molti ordinamenti giuridici civili. Il codice napoleonico
fu in gran parte tributario di questa tradizione giuridica della Chiesa medioevale.
Tuttavia ci domandiamo se il matrimonio cosiddetto cristiano ha veramente
obbedito alle esigenze evangeliche o non piuttosto alle esigenze della
società del tempo. La risposta è chiara: la cosiddetta famiglia cristiana,
con tutti i connotati giuridici ritrovabili nel codice canonico, con tutti
i connotati etici ritrovabili nel costume esemplare, è un prodotto storico
e, come tale, relativo.
Per cui io non riesco a capire, proprio dal punto di vista diremo
dell’individuazione culturale, che significhi difendere in una società
pluralistica un modello cristiano di famiglia, perché non so quale dia
questo modello, perché non si dà un modello proprio del cristiano.
La famiglia cristiana, se noi la conserviamo come prodotto storico
ereditario, nasconde invece in sé particolari pregiudizi, particolari difformazioni, particolari rapporti sociali legati allo
sfruttamento che sono tutti da rifiutare.
Caratteristiche superate della famiglia cristiana
Quali sono queste caratteristiche storiche da considerare superate?
Innanzitutto è chiaro che l’unità della famiglia cristiana usufruiva di un
dato economico, era l’unità patrimoniale. Il padre di famiglia era l’unico
responsabile del patrimonio familiare, era lui l’unica figura economica
della famiglia. E quindi l’unità della famiglia, anziché essere il prodotto
della scelta cosciente dei coniugi, era un portato fatale dell’indivisibile
unità patrimoniale. Che cosa avrebbe potuto fare una buona donna cristiana,
si fa per dire, di ceto povero, se avesse avuto mille motivi per lasciare
il marito: andare a morire di fame o essere rifiutata dalla società
abbiente come donna deplorevole, di cattivi costumi, ecc. La donna era
legata a questo giogo dell’indissolubile monarchia economica del padre di
famiglia.
A reggere l’indissolubilità della famiglia, oltre a questa ragione
economica, esisteva un ambiente cosiddetto monoculturale, cioè a cultura
unica, per cui tutti gli elementi culturali dell’ambiente spingevano a
ricercare la propria identità nella famiglia di appartenenza.
Una donna non aveva un suo mondo culturale. I figli non avevano un mondo
culturale autonomo. Non c’erano spazi diversi per l’esperienza di vita. La
famiglia rappresentava il luogo normale e continuativo dell’esperienza
culturale. L’unità quindi si manteneva perché mancavano forze centrifughe,
aperture di orizzonti diversi per i componenti della famiglia. Pensate, ad
esempio, al legame quasi fatale fra il lavoro del padre e del figlio.
In terzo luogo c’era la subordinazione della donna all’autorità maritale,
che era una norma assoluta. L’attività pastorale della Chiesa ha in questo
una specifica responsabilità, perché il modello che si forniva alla donna
era un modello di subordinazione al marito. La “donna cristiana” è quella
che dice sempre di sì al marito, che non ha in nessun campo iniziativa
propria, le cui virtù sono tutte una garanzia alla tirannide maschile e i
cui compensi mistificanti sono l’essere l’angelo del focolare.
Perfino san Paolo porta riflessi della condizione sociale della donna dei
suoi tempi, quando dice che la donna deve essere sottoposta al marito, o
deve coprirsi il capo quando entra in assemblea perché il capo della donna
è l’uomo. San Paolo non rivela niente che abbia rapporto con la liberazione
portata da Gesù Cristo. Assume norme di
comportamento proprie della società ebraica. Ma noi dobbiamo sapere che la
fedeltà alla parola di Dio non è fedeltà ai modelli sociologici del
comportamento, legati ad una certa fase dello sviluppo storico. La parola
di Dio non assolutizza, non rende normativi quei
modi di comportamento, ci esorta anzi a liberarcene.
Il matrimonio è per i figli. In realtà, pensate che nel passato, anche in
quel passato che certi nostalgici rimpiangono, il consenso libero della
donna al matrimonio era una circostanza neanche presa in considerazione. La
donna aveva così radicalmente accettato il modello impostole dalla società
e dalla Chiesa che aveva perfino vergogna a dire che desiderava prender
marito; magari lo desiderava con tutta se stessa, ma tale desiderio
rimaneva inibito. Doveva esser lei, la donna cercata. Doveva essere senza
iniziative e con un’etica del comportamento femminile che voi conoscete
bene.
La stessa definizione della donna era di tipo biologico. La donna si
definiva in rapporto alla sua biologia: era vergine o madre. Non persona,
come l’uomo, capace di decidere della propria vita indipendentemente dalla
condizione biologica; ma legata strettamente a questa, con delle sfere di
mortificazione terribili, come la donna che non ha sposato, la zitella,
considerata una donna fallita.
Oggi ci troviamo nella situazione in cui lo sviluppo della società ha messo
in crisi le componenti di struttura che sorreggevano un certo tipo di
famiglia cosiddetta cristiana. Abbiamo una crisi della famiglia che per
molti è la crisi della famiglia cristiana, ma che invece è la crisi della
famiglia tradizionale e niente altro.
Allora, un credente, quali doveri ha in questo momento? Non di stringersi,
di far quadrato attorno a un modello di famiglia che non ha più nessuna
ragione storica di continuare, ma rifarsi all’esigenza evangelica,
interrogarsi di fronte ai Vangelo.
Ora, secondo me, il Vangelo, non ci dà nessun esempio di famiglia precisa.
Anche la sacra famiglia è un invenzione posteriore, borghese, perché la
famiglia di Nazareth, non è un modello di famiglia, per il semplice fatto
che, almeno nelle convinzioni di fede, Maria e
Giuseppe non erano autenticamente marito e moglie. Quindi, presentare come
modello di famiglia un modello in cui proprio l’aspetto principale non era
integro, significa fare una mistificazione.
Indicazioni evangeliche
Occorre domandarsi piuttosto in che senso il Vangelo si apre a questa
esperienza particolare della vita che è l’amore nella famiglia, nella linea
della liberazione, cioè nella crescita secondo il disegno di Dio.
A me pare che ci siano dei punti fermi, questa volta autenticamente fermi,
a cui fare riferimento in questo tentativo di recupero del significato
evangelico che può avere la vita nell’amore, la vita familiare. Innanzi
tutto, è sicuramente un’affermazione di fondo del Vangelo che dinanzi a
Cristo non c’è nessuna differenza fra l’uomo e la donna, dinanzi a Cristo
non c’è né maschio né femmina.
Quelle discriminazione desunte dalla realtà sociologica, che hanno un riflesso
nella sacra scrittura, devono essere subordinate a questa che è l’autentica
rivelazione in rapporto alla resurrezione: in Gesù
Cristo la disparità tra l’uomo e la donna è abolita. Certo noi sappiamo che
la parola del Vangelo non si presta a diventare - guai del se lo facessimo
- un fondamento per nuovi ordinamenti giuridici; perché la parola del
Vangelo, come si suol dire, è parola profetica,
cioè una parola che indica certe linee di crescita, le quali sboccano in
una totale liberazione cristiana.
In secondo luogo, secondo il Vangelo, la fedeltà non è il risultato di una
legge esterna che costringe, ma è un’espressione dell’amore.
Un’altra esigenza interna allo spirito evangelico è il rifiuto della
strumentalizzazione, del rendere l’altro uno strumento di se.
Espressioni bibliche quali “la persona umana è fatta a immagine di Dio”,
“amate i vostri mariti come la Chiesa ama Cristo”, “amate le vostre mogli
come Cristo ama la Chiesa”, per un credente sono un invito decisivo a
rifiutare di fare dell’altra persona uno strumento di sé, si tratti dei
rapporti fra coniugi, si tratti di rapporti familiari.
Questo rispetto della persona significa garanzia del rapporto veramente
comunitario, perché tra rapporto comunitario e rapporto di società
stabilito dalla legge c’è una differenza di qualità: il rapporto
comunitario in tanto è, in tanto vive, in quanto trova la sua sorgente nel
libero consenso e nel rispetto spontaneo della coscienza verso l’altro; i
rapporti societari invece sono quelli che si stabiliscono per forza di
legge.
La famiglia, istituzione legata alle condizioni storiche
Siamo all’ultimo punto: non dobbiamo cadere in un così ingenuo evangelismo
da credere che la famiglia non interessi la società, che debba essere
riferita soltanto all’esperienza spirituale.
Ogni espressione dell’uomo, ma la famiglia in particolar modo, in quanto si
innesta nei rapporti sociali generali, ha bisogno di istituzionalizzarsi.
La istituzionalizzazione è un momento di serietà umana, il momento in cui
si traduce in norma esterna la responsabilità di fronte alla società
intera.
Però, non è con questo momento istituzionale che si definisce la famiglia.
Il momento istituzionale è quello in cui l’esperienza della famiglia assume
rapporti e responsabilità con l’insieme della realtà sociale. E la società,
come tale, ha bisogno di tutelare la famiglia, di farsene garante in
qualche modo, di proteggerne e favorirne lo sviluppo. Ma questo momento, lo
ripeto, è del tutto legato alle condizioni storiche e varia a seconda del mutare
delle condizioni storiche; perciò oggi c’è bisogno di una nuova
istituzionalizzazione della famiglia.
La famiglia è una creazione continua. Nella Bibbia c’è la poligamia, poi si
è acquisito il concetto della famiglia monogamica, che forse è un concetto
irrinunciabile. Però non si deve dire che è la natura che l’ha voluto,
perché questo significa attribuire alla natura astratta delle conquiste
storiche che sono invece relative anch’esse.
Forse la famiglia dovrà cambiare ancora forma, dovrà cambiare struttura. Il
concetto del diritto naturale è un concetto dell’immobilismo borghese, con
cui si sono voluti rendere eterni e immutabili alcuni rapporti che erano
funzionali alla società borghese. E qual è il criterio con cui la famiglia
deve cambiare struttura? E’ quel di più di libertà che l’uomo deve avere.
Quando diciamo libertà non parliamo della libertà soggettivistica identica
al libero arbitrio, ma di una libertà in cui veramente l’esistenza dell’uno
sia garanzia e condizione della libertà di tutti gli altri.
Questa crescita della famiglia presuppone un nuovo diritto familiare in cui
dovrà essere anche previsto il caso nel quale la fedeltà reciproca di
indissolubilità non è più possibile. Cioè la clausola del divorzio come
verifica di un fallimento dell’esperienza e come legittima dei due, che
hanno portato a termine un esperienza fallita, di crearsi una esistenza
coniugale. Questo la legge lo può fare; a rigore, lo deve fare. Però il
diritto di famiglia non è questo. Ecco perché dovremo, una volta superata
la battaglia sul referendum, considerarci continuamente mobilitati per
favorire in Italia una modificazione profonda del diritto di famiglia,
perché esistono già ormai le condizioni di coscienza generali e perché
certe norme giuridiche della tradizione siano abolite e superate.
E naturalmente, quando si fa questa battaglia per un nuovo tipo di
famiglia, si deve fare anche una battaglia per un nuovo tipo di società,
perché se i rapporti economici rimangono quelli che sono poco vale il
modificare i rapporti giuridici. Al più avremmo un aggiornamento
neo-capitalistico della famiglia.
In ogni caso, una battaglia per la famiglia che si apre con il referendum,
non si chiude con il referendum. Però dobbiamo dirci che noi, in quanto
cristiani, non abbiamo niente, nessun modello nostro da difendere. Noi
dobbiamo ricercare con gli altri un modello giuridico ed etico di famiglia,
perché non abbiamo privilegi di nessuna sorta come credenti.
Come credenti ci compete l’onere e il privilegio, se volete, di essere fedeli
alle ispirazioni evangeliche fondamentali; ma queste ispirazioni non sono
da tradurre come modello etico-giuridico, poiché
sono una spinta continuamente trasformante della realtà storica,
disponibili a sempre nuove forme di ordinamento familiare.
(15-2-2007)
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