L’assemblea di
Sibiu. Cronaca e considerazioni
“Quando sarà grande, mio figlio mi rimprovererà
perché non siamo stati capaci di affrontare i nodi decisivi per l’unità dei
cristiani o mi ringrazierà perché non ci siamo fermati?”. In questo dilemma,
proposto dalla giovane protestante tedesca Vikarin Almut Bretschneider-Felzmann al
termine dei lavori, sta probabilmente l’interrogativo di fondo cui rispondere
per valutare la III Assemblea ecumenica europea (Aee3), che ha visto la
propria tappa conclusiva svolgersi a Sibiu, in
Romania, dal 4 al 9 settembre, sul tema “La luce di Cristo illumina tutti.
Speranza di rinnovamento e unità in Europa”.
Il tempo meteorologico che ha accompagnato i 2.100 delegati convenuti nella città rumena, con l’alternarsi di pioggia battente e improvvise schiarite, mezzi pomeriggi di pallido sole e mattinate di cielo coperto, bruschi abbassamenti della temperatura e brevi, ma intensi, momenti di caldo, è apparso a molti lo specchio dell’attuale momento nei rapporti tra le Chiese cristiane e ha ben ritmato i giorni dell’incontro.
Così, le tre relazioni introduttive del card. Walter Kasper, presidente
del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, del
metropolita Kirill di Smolensk
e Kalinigrad, presidente del Dipartimento delle
relazioni estere del Patriarcato di Mosca, e del vescovo luterano Wolfgang Huber, presidente del Consiglio
della Chiesa evangelica in Germania, lette mentre nel tendone sotto cui si
tenevano le plenarie si udiva il rumore di violento temporale scatenatosi
all’esterno, sono arrivate alla platea come una vera “doccia gelata”, non tanto
per la franchezza con cui hanno esplicitato i problemi aperti tra cattolici,
ortodossi e protestanti, ma per la freddezza e una certa povertà di prospettive
che le hanno caratterizzate. Il card. Kasper, infatti, ha affrontato di petto i malumori
suscitati dalle “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la
dottrina sulla Chiesa” rese pubbliche il 10 luglio dalla Congregazione per
la dottrina della fede, concedendo però assai poco ai critici: “Io so che
molti fratelli e sorelle evangelici se ne sono sentiti feriti. Questo
rappresenta un peso anche per me. Poiché il dolore dei miei amici è anche il
mio dolore. Non era nelle nostre intenzioni ferire o sminuire chicchessia.
Volevamo rendere testimonianza della verità, cosa che ci attendiamo anche da
parte delle altre Chiese, e così come le altre Chiese di certo fanno. Anche a
noi non piacciono tutte le dichiarazioni delle altre Chiese, e soprattutto non
ci piace affatto quello che, di quando in quando, affermano sul nostro conto.
Ma un ecumenismo di coccole o di facciata, in cui si desidera solo essere
gentili gli uni con gli altri, non aiuta a compiere progressi; solamente il
dialogo nella verità e nella chiarezza può sostenerci nell’andare avanti”. Ma
soprattutto senza appello è suonato il passaggio dedicato al “metodo delle
convergenze, usato finora nel tentativo di giungere a un consenso”: esso “si è
dimostrato proficuo e si è continuato ad applicarlo in molte questioni sinora
controverse. Mi ricordo del consenso fondamentale sulla dottrina della
giustificazione. Ma nel frattempo questo metodo si è palesemente esaurito; in
questo momento non andiamo più molto avanti su questo sentiero”. L’invito del card. Kasper ai cristiani europei
a “destarci; l’Europa deve schierarsi dalla propria parte, dalla parte della
sua storia e dei suoi valori che un tempo le hanno dato grandezza e che possono
garantirle un nuovo avvenire. Questa è la nostra missione comune”, è stato quindi
rafforzato dal metropolita Kirill: “Per sopravvivere
nel mondo di oggi, l’Europa deve rimanere un continente cristiano”. La
collaborazione tra le Chiese appare finalizzata a questo obiettivo: “Una lotta
per un’unica moralità pubblica e per valori cristiani nell’Europa di oggi è
impossibile senza azioni congiunte, prima di tutto fra cristiani delle maggiori
confessioni, a prescindere delle loro differenze dottrinali. Costruire un
sistema di solidarietà cristiana nell’Europa odierna sulla base dell’una e
indivisibile moralità del Vangelo e sulla comune testimonianza dei valori
cristiani derivanti da tale solidarietà, può essere l’ultima risorsa per i
cristiani nei loro sforzi comuni per restituire un’anima all’Europa”. A
ostacolare questa prospettiva è però quello che il metropolita ortodosso ha
interpretato senza mezzi termini come un cedimento del protestantesimo alla
cultura postmoderna sul piano dell’antropologia e dell’etica: “Fino a poco
tempo fa tutti i cristiani condividevano la visione dell’uomo e delle norme
morali. Oggi pure tale unità si è rotta. Alcune comunità cristiane hanno
rivisto unilateralmente o stanno rivedendo le norme della vita definite dalla
Parola di Dio. Perché alcuni circoli cristiani sono giunti a sostenere l’idea
dell’evoluzione delle norme morali? Da una parte, ci sono prerequisiti di ciò
nella teologia che interpreta il principio della salvezza per la sola fede. Ciò
sottovaluta la condizione morale di una persona. Ma ad avere il maggiore
impatto su questa posizione è stato, a mio parere, lo spirito non religioso di
questo mondo. C’è una sospetta coincidenza tra il nuovo approccio morale di
alcuni circoli cristiani e la diffusione del paradigma postmoderno nella
società secolare. La postmodernità implica una
compatibilità tra visioni e posizioni incompatibili. I credenti non possono
riconoscere allo stesso tempo il valore della vita e il diritto alla morte, il
valore della famiglia e la validità delle unioni tra persone dello stesso
sesso, la protezioni dei diritti del bambino e la distruzione deliberata di
embrioni umani a scopi medici”.
Al documento della Santa Sede il vescovo Huber ha replicato con forza che “nessuna Chiesa può da
sola riflettere la luce di Cristo. Una Chiesa che si pretenda l’unica a essere
‘Cristo esistente in quanto comunità’, declassa
inevitabilmente le altre Chiese e impedisce loro di rifulgere insieme. Per le
Chiese protestanti il rispetto per la qualità ecclesiale delle altre è
indispensabile; esso fonda l’unità nella diversità e apre la via a una diversità
riconciliata”. D’altro canto ha ribadito che “la concezione evangelica della
presenza di Dio nel mondo si caratterizza per l’idea secondo cui la luce di Dio
e la sua verità non si oppongono al mondo moderno, ma ne costituiscono il
fondamento più profondo. Il mondo moderno, segnato dal pluralismo,
dall’individualismo, dalla laicità e dal materialismo è il mondo di Dio, che lo
conduce e guida, lo conserva e consola, e la forma che esso assume dipende
dall’azione responsabile dei cristiani. La fede evangelica apprezza nella
giusta misura gli stimoli dell’Illuminismo, la libertà individuale, la
distinzione tra confessione di fede e diritto civile, cioè tra la Chiesa e lo
Stato, quelle delle scienze critiche e della liberalizzazione delle concezioni
morali”. In forma autocritica ha quindi richiamato i protestanti, che tendono a
considerare la Riforma come data di nascita della Chiesa, a tener presente il
radicamento “nella Bibbia e nella Chiesa antica”, e sottolineato come
“l’orientamento che nelle Chiese protestanti mette l’accento sulla fede e la
coscienza dell’individuo ha spesso lasciato in ombra il fatto che la fede ha
bisogno della comunità dei credenti”. Ma ha anche indicato alcune prospettive
per andare avanti. Prima di tutto, ricordando come la consapevolezza “che
l’ordine dato da Gesù di battezzare prevale sulla
questione della legittimità dei ministri che amministrano tale sacramento,
uomini e donne delle diverse Chiese” abbia permesso in aprile a undici Chiese
cristiane della Germania (cattoliche, ortodosse e protestanti) di riconoscere
la validità del battesimo impartito nelle diverse comunità, ha sottolineato che
“una simile riflessione potrebbe aprire la strada anche a una risposta alla
questione della comunione della cena”. Quindi, di fronte al “bisogno di
spiritualità che si alza contraddicendo la pretesa egemonica dell’economia”, ha
proposto di “collegare insieme gli elementi più importanti della vita delle
nostre Chiese, unendoli in un canone comune”.
Comunque, nonostante il Patriarca di Costantinopoli,
Bartolomeo I, avesse aperto la giornata ribadendo solennemente l’impegno a
“fare tutto ciò che è in nostro potere per promuovere il sacro compito della
restaurazione della piena comunione ecclesiastica e sacramentale tra le Chiese”
e dichiarando l’attesa “che anche questa terza Assemblea ecumenica europea si
concluda con provvedimenti specifici in tal senso”, a sera la sensazione era
quella di un ripiegamento sulle identità confessionali e di divergenze
sull’identificazione delle principali sfide odierne alla fede cristiana, col
prevalere, specie tra cattolici e ortodossi, di una visione assai negativa
della secolarizzazione e, in qualche caso, della stessa modernità, mentre in
secondo piano passavano quelle - certamente non ignorate, ma apparentemente
considerate secondarie, o comunque non tipiche dei cristiani - della giustizia,
della pace e della salvaguardia del creato.
Nelle due giornate successive i lavori sono
proseguiti con un susseguirsi ininterrotto di discorsi, relazioni e saluti da
parte di leader delle Chiese e personalità politiche (romene ed europee) che
hanno dato all’incontro più il profilo di un Congresso che di un’assemblea e un
accentuato carattere istituzionale, sebbene una ventata di aria fresca sia
stata per molti la meditazione del card. Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, quando ha proclamato che
“a radunarsi a Sibiu in questa nostra assemblea
ecumenica è l’unica Chiesa di Cristo” e “l’identità profonda del cristiano non
è etnica, culturale o confessionale, ma escatologica, perché in Cristo siamo
già e non ancora figli di Dio”. Anche i nove forum tematici pomeridiani (unità,
spiritualità, testimonianza, Europa, religioni, migrazione, creazione,
giustizia, pace) si sono nella maggior parte dei casi risolti in ulteriori lezioni
o conferenze. In questo contesto quasi mai i delegati hanno avuto la
possibilità di intervenire, vedendosi ridotti a spettatori o ascoltatori, e
sullo sfondo è stata relegata la Charta oecumenica, di cui pure, l’assemblea si proponeva, tra
l’altro, di verificare l’attuazione.
Questo andamento, probabilmente non estraneo alla rigida ripartizione degli interventi dal palco connessa
alle esigenze di rappresentanza e visibilità delle varie Chiese e componenti ecclesiali, oltre che a una certa preoccupazione
che venissero sollevati temi su cui le Chiese dissentono (ordinazione delle
donne, omosessualità, ecc.), ha prodotto un diffuso senso di frustrazione nei
delegati (“imprigionato”, si è definito un cattolico tedesco), solo in parte
riversato nelle decine di incontri informali e negli hearings
promossi da gruppi e associazioni durante le pause pomeridiane o alla sera,
tanto da indurre a un certo punto alcuni giovani, soprattutto dell’Europa
centrale, a convocare un forum alternativo, cui hanno preso parte circa 60
persone.
Ma la ricchezza di esperienze ecumeniche e la voglia di protagonismo dei delegati si è manifestata in tutta la sua competenza e concretezza quando la vescova luterana tedesca Margot Kassmann, che presiedeva l’assemblea la penultima mattina, interpretando liberamente l’ordine dei lavori, ha aperto al pubblico la discussione sulla prima bozza del Messaggio finale. Immediatamente una ventina di delegati hanno presentato diversi suggerimenti per riorganizzare un testo assai debole e qualcuno ha addirittura proposto di sostituirlo col sintetico, ma assai concreto “Documento di Saint Maurice” elaborato dai giovani delegati riunitisi in luglio in Svizzera. Questo ha spinto mons. Vincenzo Paglia, che guidava l’ultima sessione mattutina, ad annunciare che esso sarebbe stato allegato al Messaggio finale dell’assemblea, e a dare un po’ più di tempo al dibattito in plenaria della seconda e ultima bozza. Si è quindi formata una lunghissima coda di una cinquantina di delegati, che con interventi in genere assai puntuali ed efficaci hanno vivacizzato per un’ora l’assemblea.
Con notevole impegno la Commissione di redazione ha integrato molti di questi contributi nel Messaggio finale, rendendolo più incisivo soprattutto sul rifiuto della guerra, sul protagonismo ecclesiale dei migranti e sull’impegno per l’ambiente - quest’ultimo forse il tratto più innovativo di questa assise, che si è voluta “ecologicamente sostenibile” fin nella richiesta ai partecipanti di versare un contributo destinato alla riforestazione di una zona della Romania come “compensazione” delle emissioni di gas serra provocate dagli spostamenti dei delegati in aereo.
Tuttavia un conflitto si è aperto quando la Commissione di redazione ha annunciato che il testo ufficiale del Messaggio finale sarebbe stato non quello distribuito in inglese ai delegati, ma quello letto in assemblea (senza più possibilità di discuterlo). In extremis è stato infatti inserito l’impegno a difendere la dignità di ogni essere umano “dal concepimento alla morte naturale”, suscitando le proteste delle Chiese evangeliche, notoriamente non ostili a normative che depenalizzano l’aborto e disciplinano la fecondazione assistita. Ne è seguita un’estenuante trattativa, che dopo 24 ore sembrava giunta a una soluzione con la dicitura “dall’inizio della vita”, salvo poi proseguire fino alla cancellazione del Messaggio finale dal sito dell’Assemblea. Così, paradossalmente, quanto più è mancato un confronto approfondito sull’attuazione, passata e potenziale, degli impegni della Charta oecumenica, tanto più l’attenzione e l’esigenza di concretezza si è riversata sul Messaggio finale. Ad esso si aggiungerà anche un Documento finale, che dovrebbe raccogliere - non è chiaro peraltro con quale autorevolezza e carattere vincolante - i contributi e le proposte (presumibilmente centinaia) presentate per iscritto dai delegati.
Durante l’assemblea la delegazione italiana, la più
numerosa dopo quella tedesca con circa 140 cattolici, protestanti e ortodossi e
l’unica a contare una rappresentanza ecumenica di migranti, ha svolto un ruolo
di notevole rilievo. Oltre alle relazioni già previste nel programma ufficiale,
molti delegati hanno preso la parola nei forum e nelle plenarie, dopo che
alcuni di loro avevano distribuito a tutti i partecipanti un volantino
contenente nove proposte per tradurre in pratica gli impegni contenuti nella Charta oecumenica e
organizzato una raccolta di firme su altre 18 mozioni di analogo tenore.
Inoltre, dopo aver viaggiato tutti insieme sull’aereo predisposto dalla
Conferenza episcopale, si sono riuniti due volte tra loro in un clima di grande
sintonia, presentando all’assemblea un documento “nazionale” con alcune
indicazioni concrete (per esempio sul ripudio della guerra e sulla condanna dei
processi di riarmo, sul dialogo con l’ebraismo e l’islam, oltre all’idea di
realizzare un “Pellegrinaggio ecumenico dei leader delle Chiese europee in
Medio oriente”), in gran parte recepite dal Messaggio finale. Gli
italiani si sono quindi dati un nuovo appuntamento (che qualcuno vorrebbe
periodico) per novembre, in occasione dell’annuale Convegno nazionale dei
delegati diocesani per l’ecumenismo (che potrebbe essere occasione per
approfondire in modo più allargato i temi trattati all’assise europea),
soprattutto, come ha dichiarato mons. Paglia, al fine di “trarre qualche
conclusione operativa rispetto alle prospettive ecumeniche in Italia” dopo Sibiu nel quadro della Charta
ecumenica.
Non c’è dubbio che, visto il contesto, il solo fatto
che questa III Assemblea ecumenica europea si sia svolta è un grande
successo, dovuto anche alla tenacia di quanti nel cattolico Consiglio delle
Conferenze episcopali europee e nella Conferenza delle Chiese europee
(protestanti e ortodossi) l’hanno fortemente voluta nonostante le tensioni e le
diffidenze presenti all’interno delle proprie confessioni e nei rapporti tra le
Chiese. Il fatto che il metropolita Gennadios di Sassima, di fronte alle sollecitazioni venute da diversi
delegati a inserire nel Messaggio finale un esplicito impegno a riconvocare
un nuovo appuntamento, abbia dichiarato che “una IV Assemblea ecumenica
europea ci sarà perché questo processo va avanti”, ha notevole valore.
Resta il problema di come organizzare un incontro simile in modo da renderlo
davvero “partecipativo” e “reciprocamente impegnativo” senza cadere nella
logica “democraticista” che pretende di risolvere a
colpi di maggioranza questioni legate all’autocomprensione
e alla coscienza di ciascuna Chiesa (come probabilmente alcuni avevano vissuto
l’esperienza della II Assemblea ecumenica europea a Graz) e senza
neppure affidare la sintesi a un “Comitato di saggi” deciso dall’alto che, pur
con la massima onestà e buona volontà, corre sempre il rischio della scarsa
trasparenza e dell’arbitrarietà, e non mette al riparo da forzature. Tra i
partecipanti c’è anche chi è tornato a casa con la convinzione che “questo non
è tempo di grandi eventi”. Ad accomunare tutti è comunque la convinzione,
confermata dall’andamento dell’assise romena, che decisivo sia oggi
“l’ecumenismo di base, di popolo”, cioè quello costruito e vissuto
quotidianamente nelle Chiese locali, perché solo un tessuto fitto e saldo di
relazioni e collaborazione diffusa potrà, con l’aiuto dello Spirito, rendere
“naturale” il superamento delle controversie che inevitabilmente si
cristallizzano nei vertici delle Chiese. Lo si è visto anche al termine della
Preghiera conclusiva nella piazza principale di Sibiu,
quando, sotto un tiepido sole, i delegati, spinti dai romeni, si sono trovati
spontaneamente a formare un cerchio sempre più largo fino a occuparne tutto il
perimetro ripetendo a voce alta: “Unitate! Unitate!”.
Mauro
Castagnaro
Settembre 2007