Milingo dopo Milingo

di Giancarlo Zizola

(da"Rocca", 15 settembre 2001, n. 18)

La storia di monsignor Emmanuel Milingo ha occupato in modo esorbitante le cronache nell’estate 2001 e ha preoccupato il Vaticano. Dopo il pseudo matrimonio dell’arcivescovo africano il 27 maggio, combinato dalla setta multimiliardaria del reverendo Moon in un lussuoso albergo di New York, quello che sembrava all’inizio un fumettone balneare, con tutti gli ingredienti mediatici miscelati per l’audience (sacro, sesso, oscuri misteri di una setta, e ancora più oscure trame vaticane) evolveva in un dramma non più solo ecclesiastico, ma anzitutto umano, in un caso internazionale, in un problema di libertà religiosa.

In tutta la vicenda restavano fino alla fine delle ombre irrisolte. Anzitutto, si poneva un problema di identità. Non era affatto chiaro chi fosse realmente Milingo. Per alcuni miei amici, buoni conoscitori dell’Africa, nessun dubbio che Milingo si comportava da abile stratega, capace di reagire all’ennesimo tentativo di isolamento da parte della Chiesa giocando sia Moon sia il Vaticano. Essi citavano ad esempio il modo con cui Milingo aveva affrontato per la prima volta le telecamere di mezzo mondo, dopo l’udienza papale, incrociando le dita sulle labbra e ridendo con gli occhi, per alludere all’ordine ricevuto di non parlare. Per altri invece egli corrispondeva alla figura di un vescovo stravagante, un clown, un ecclesiastico randagio, un anarchico, una mina vagante. L’immagine che i media appiccicavano addosso al suo volto nero, quasi da pugile, sapeva comunque troppo di spettacolare e riduttivo per non tradire, in chi la proponeva, l’incapacità oppure la difficoltà di misurarsi, al di là delle proprie difese stereotipe, con i problemi oggettivi che il caso Milingo conteneva, problemi che le ingiunzioni disciplinari, per quanto motivate, non potevano chiudere, e che anzi ottenevano una clamorosa ritrattazione pubblica, malgrado i tentativi di privatizzazione della vicenda.

Era facile constatare che molto del disorientamento dell’opinione pubblica sul caso derivava dai fraintendimenti prodotti da un’informazione religiosa superficiale, e non di rado eterodiretta. Si notava una parzialità di valutazioni così sfacciata da riflettere senza pudore antichi vizi razzistici e filooccidentali nell’analisi delle vicende in cui siano in gioco soggetti ecclesiali diversi da quelli della tradizione euroscolastica della Chiesa romana.

La risposta istituzionale meritava di essere analizzata. Sembrava di riconoscere una certa asimmetria tra la reazione dell’ex Sant’Offizio e quella del papa alle prese con la zolletta di uranio radioattivo sotto il calcagno. Il sistema tradizionale aveva come prassi di trattare i casi spinosi del clero in modo riservato, mediante dialoghi pazienti con gli interessati, cercando, nel caso che fosse accertata l’impossibilità di un recupero, di aiutarli ad affrontare il loro ritiro in modo pacifico.

Una delle domande che sorgevano naturali, per chi avesse qualche informazione ben fondata su queste pratiche istituzionali, riguardava precisamente la ragione per cui il caso Milingo, e del suo preteso matrimonio, non fosse stato sottoposto alla medesima prassi adottata per casi analoghi, e si fosse preferito imbracciare con la massima rapidità l’arma della scomunica, oltretutto esorbitante dal quadro penale del diritto canonico per casi simili (la scomunica è prevista infatti solo per i casi di violazione del segreto della confessione e per la violenza fisica sul papa e sui vescovi, mentre per le trasgressioni della disciplina celibataria il codice canonico prevede semplicemente la pena della sospensione). Come mai, dunque, questa disparità di trattamento, i guanti bianchi per vescovi e preti sposati, e una ben strana, comunque straripante scomunica per Milingo?

L’aspetto ecclesiale

In questo quadro anomalo l’intervento dell’autorità superiore, sollecitato dallo stesso Milingo, funzionava da sanatoria garantista di un difetto, se non di un sopruso del sistema. Si attivava in questa circostanza quella funzione di istanza superiore di ricorso che era riconosciuta ai successori di Pietro nella Chiesa antica. Milingo era riuscito a scavalcare la curia e a bussare con forza alla porta del papa, fino a farsi ricevere. Per anni aveva tentato di farlo, sempre invano. Il sistema non lo faceva passare. Ci riusciva questa volta per una serie di circostanze favorevoli, ma soprattutto, si suppone, perché anche Milingo, che in oltre 20 anni di vita a Roma aveva conosciuto a fondo i meccanismi del sistema romano, poteva ricorrere all’opinione pubblica vuotando il sacco, e innalzare al più alto rango istituzionale quei problemi che da tempo andavano creando tensione fra la Chiesa d’Africa e il Vaticano, anche a causa della sostanziale messa in mora delle conclusioni del Sinodo africano del 1994.

Il problema Milingo si rovesciava dunque effettivamente, al di là della sua storia rosa, nel problema ecclesiale e culturale da lui posto: anzitutto, la questione della legittimità del ministero delle guarigioni di cui egli sentiva da una vita di avere una vocazione peculiare e che aveva decretato il suo crescente seguito anche in Occidente. Egli aveva cercato, brancolando in una ricerca nuova, di attualizzare una delle dimensioni carismatiche specifiche dell’attività di Gesù, come viene riportata nei Vangeli, e indirizzandola specialmente sulle guarigioni per fede delle sintomatologie psichiche, cioè nella "liberazione dai demoni". Con queste pratiche, anche esorcistiche, Milingo si era conquistata la fama di "stregone" o di "mago", ma anche si era attirato provvedimenti gerarchici cautelativi, motivati il più delle volte dalle manifestazioni proprie dell’entusiasmo religioso, fino a limiti di fanatismo, ricorrenti nei raduni dei suoi fans. Tuttavia questo carisma milinghiano aveva fatto emergere un bisogno diffuso nella gente per un cristianesimo capace di assumere anche il corpo, i suoi bisogni, le sue strutture psichiche, nella sua proposta di una liberazione che non sia solo limitata all’anima, secondo le categorie proprie della metafisica disincarnata.

La sfida africana

Collegato a questo ministero della guarigione, il problema Milingo aveva risollevato nel cuore della Chiesa cattolica la questione irrisolta dell’inculturazione del Vangelo, e specificamente della sua africanizzazione. Alcuni vescovi africani non esitavano a dichiarare la loro delusione per lo scarso seguito dato ai risultati del Sinodo dei Vescovi per l’Africa. Era stata approvata, ad esempio, l’istituzione di una commissione per l’elaborazione del diritto canonico africano, con speciale riferimento alla configurazione africana del diritto matrimoniale. Era stata proposta una nuova valutazione positiva dei riti tradizionali africani nella liturgia cattolica. Era stata invocata una minore romanizzazione e una minore dipendenza "neocolonialistica" delle Chiese africane dalle Chiese ricche del Nord e dalla stessa curia romana, specialmente negli istituti di formazione teologica e nei criteri di formazione del clero. Altrettante richieste che ai vescovi africani erano sembrate presto accantonate. In questa luce, l’affare Milingo poteva essere letto anche come il risultato, certo penoso, di una inadempienza istituzionale.

Eppure il papa, anche nella enciclica "Fides et ratio", cosciente che il Vangelo ha un’altra vita al di là di quella vissuta in Occidente, aveva coperto con la sua autorità il processo di inculturazione del Vangelo nei contesti delle culture africane e asiatiche, anzi aveva parlato di una sorta di "nuovo passaggio ai Barbari", considerando due fatti principali: anzitutto, che il 74% dei cattolici abita attualmente il Sud del mondo (America Latina, Asia e Africa), ciò che pone una questione strategica di conformità dei quadri culturali e direzionali della Chiesa cattolica all’integrazione di queste culture meridionali nella tradizione cattolica della fede; in secondo luogo, valutando il fatto che i cattolici africani, che erano poco più di due milioni nel 1900, sono attualmente 200 milioni, e che il loro tasso di incremento è stimato al 3,8% all’anno, ciò che rende l’Africa l’area più fertile di speranze dell’intero cattolicesimo.

È evidente che il papa, riaprendo le porte a Milingo, non si proponeva solo di recuperare un caso personale che rischiava di portare più danni che benefici alla Chiesa. Aveva anche ritenuto più prudente obbligare il sistema centrale della Chiesa a discernere nel caso dell’arcivescovo africano, in esilio coatto a Roma, alcune lezioni a valenza generale: quella anzitutto del rispetto dovuto ai soggetti ecclesiali, siano vescovi, preti o laici, per i loro incoercibili diritti umani. Il caso Milingo non poteva non evocare una penosa storia di violazione dei diritti umani nella Chiesa cattolica: egli era stato sradicato con raggiri dalla sua Chiesa di Lusaka, in Zambia, per le manovre di un gruppo di missionari polacchi locali, che avevano in uggia il giovane pioniere dell’africanizzazione del Vangelo; e a Roma si era tentato di farlo passare per pazzo, di internarlo, di fargli firmare un atto di dimissioni contro la sua volontà. Tante cose avrebbe potuto raccontare Milingo, oltre a quelle appena sfiorate nei suoi libri, se non si fosse imposto di attenersi a una linea di discrezione e di lealtà ecclesiale.

Seconda lezione: il preteso matrimonio di Milingo nel rito spettacolare in uso nei raduni nuziali di massa del reverendo Moon, pur non avendo alcun valore sacramentale né giuridico, non essendo riconosciuto come tale nemmeno negli Stati Uniti, sollevava tuttavia la questione spinosa del celibato sacerdotale almeno in una Chiesa come quella d’Africa, nella quale la tradizione culturale potrebbe portare, se rispettata anche nell’appartenenza cristiana, all’introduzione di una disciplina più conforme alla concezione di quel popolo circa la fecondità, il ruolo della prole, il matrimonio, non essendo oltretutto il celibato ecclesiastico una verità di fede e mantenendosi nella Chiesa cattolica la particolare tradizione del clero sposato di rito orientale.

Una soluzione al riguardo potrebbe essere indubbiamente favorita dalla reintegrazione di Milingo nella Chiesa a tutti gli effetti, se fosse accompagnata, una volta risolto il caso personale, da un’evoluzione complessiva del sistema cattolico verso "il passaggio a Sud". Ma ragionando in futuro, si potrebbe anche rivalutare in termini di profetismo ciò che appare o viene fatto sembrare sul momento mera stravaganza : se un domani la Chiesa cattolica ripristinasse le strutture patriarcali dell’età apostolica, e si venisse a ricostituire, accanto ad altri patriarcati continentali, un Patriarcato della Chiesa d’Africa, sotto la responsabilità di un Sinodo Africano permanente presieduto dal successore di Pietro, allora anche l’idea che oggi parrebbe anomala di una Chiesa africana con una propria spiritualità, un proprio diritto canonico, una sua teologia, le sue autonomie, i suoi modi di selezionare i candidati all’episcopato e di ordinare i vescovi, restando integri l’unità della fede e il vincolo con il papa, potrebbe agire come la prefigurazione, sia pure attualmente limitata, del futuro necessario del cristianesimo. Questa prospettiva era ben presente agli inizi degli armi Ottanta nella teologia cattolica. Tra gli altri, era uno dei maggiori maestri della teologia del Novecento, il gesuita Karl Rahner, a rivendicarla in un’intervista datami nel 1984: "La Chiesa una del futuro non sarà naturalmente la Chiesa romana cattolica nella forma in cui esiste attualmente. E questa Chiesa una del futuro avrà un pluralismo più grande, un pluralismo legittimo, di quello che esisteva ed esiste ancora nel cattolicesimo italiano attuale. 11 centralismo romano attuale non esisterà più. Non dovrà più esserci (...). Per esempio, bisogna chiedersi se la morale matrimoniale africana debba continuare a ricalcare quella europea; bisogna affrontare il problema della concezione del divenire del matrimonio, insieme all’altra questione, se tutte le forme di poligamia africana siano davvero incompatibili col cristianesimo" (Panorama Mese, 25 settembre 1984, p. 55).

Il ruolo della setta di Moon

Un altro aspetto generale da valutare nel caso Milingo era esplicitamente politico. Il corso della vicenda sembrava seguire il canovaccio di una strategia occulta, mirata a usare l’arcivescovo come esca per attirare la Chiesa cattolica in una trappola. La stessa signora Sung doveva essere piuttosto riguardata come vittima della setta, condannata a fare da cavia per la riuscita dell’obiettivo, anche a costo della vita. Si poneva pertanto un problema di violazione della libertà sia della Sung sia di Milingo, le cui scelte erano oggetto di ricatto da parte della donna mediante l’arma totale della minaccia del suicidio. Questo problema di libertà era sollevato dall’arcivescovo di Washington cardinale Theodor McCarrick in una dichiarazione del 23 agosto nella quale egli indicava che molti aspetti delle azioni della Sung erano "il risultato di un processo di pressione psicologica" e che la Chiesa "non può ammettere che un sacramento come il matrimonio e lo stesso ordine sacro sia accettato in condizioni di libertà menomata". L’essenza di questa storia non era dunque Miingo, nemmeno sotto il profilo del suo diritto all’errore e della sua decisione di sottrarsi in extremis alla cattura della setta. Nemmeno la questione del celibato ecclesiastico era decisiva nella vicenda. A renderla davvero discriminante e inquietante per la Santa Sede era il ruolo della setta, con la valutazione delle conseguenze a lungo termine dell'affiliazione di un arcivescovo cattolico alla potenza di una congregazione come la Chiesa dell’unificazione, fondata nel 1954 a Seoul dal multimiliardario coreano Sun Myung Moon, una multinazionale che figura tra le prime cinquanta potenze private del pianeta. Alcuni studiosi rilevano che è più facile entrare in questi circuiti religiosi che uscirne, a causa delle reti di manipolazione in cui i proseliti restano intrappolati. Il fatto che anche Milingo fosse stato prima isolato, poi "sposato"e infine tallonato a vista dagli emissari di Moon durante il viaggio da New York, era un indice inequivocabi1e dell’importanza che il ruolo del prelato aveva assunto nel disegno della setta.

Le conseguenze più temute in Vaticano erano due. Anzitutto, l’eventualità che Moon puntasse su Milingo come minimo per logorare il ruolo internazionale della Chiesa cattolica nella fase in cui il papato si confrontava da posizioni critiche con la politica dell’Impero, come documentava il corso dell’udienza del papa a George Bush il Giovane il 23 luglio. Non si poteva trascurare il ruolo politico e ideologico esercitato da Moon e dalla sua rete di interessi internazionali nella mobilitazione della maggioranza morale americana a favore della politica riarmistica e missilistica ai tempi di Ronald Reagan, né l’impegno posto dalla setta nell’appoggio all’elezione di Bush figlio. Per quanto limitato potesse essere considerato il peso morale di Milingo nella gerarchia vaticana, era palese che la sua influenza nell’opinione pubblica, la sua capacità di mobilitazione, la sua carica carismatica, la sua storia burrascosa ai livelli alti della curia centrale potevano rappresentare delle buone carte in mano a Moon per condizionare dall’interno la politica vaticana in una fase delicata del suo legame con l’Occidente.

Il rischio di una Chiesa parallela

L’altro pericolo temuto in Vaticano era l’impianto, tramite Milingo, di una Chiesa parallela in Africa, se non di un vero scisma africano. I pareri al riguardo non erano però concordi. Per alcuni, Moon non aspettava di meglio che la scomunica del vescovo per realizzare la sua ambizione di insediare la sua setta tra i cattolici africani sottraendo alla Chiesa romana una frazione di consensi più o meno vasta, soprattutto valorizzando l’alleanza tra il carisma africano delle guarigioni, "specialità" di Milingo, e la potenza organizzativa e finanziaria della setta. L’opinione di altri invece era che Moon aveva interesse a che Milingo non si bruciasse con la scomunica e dunque riuscisse a patteggiare con i dirigenti vaticani una soluzione di compromesso, tale da permettergli di restare sia nella Chiesa cattolica sia in Moon. Un’ipotesi che si era disfatta sotto il rigore metallico dell’aut aut mantenuto dalla Congregazione per la Dottrina, che aveva conservato il controllo istituzionale sull’intera vicenda dal principio alla fine. Un’ipotesi comunque che doveva anzitutto misurarsi con le reali intenzioni di Milingo, il quale, secondo alcuni, non avrebbe mai permesso di farsi iniziatore di una Chiesa parallela, che lo portasse fuori della Chiesa che egli amava e alla quale aveva fedelmente obbedito malgrado il trattamento ricevuto.

Questa spiegazione si basava essenzialmente sul fatto che il viaggio di Milingo da New York a Roma il 5 agosto era stato programmato e accompagnato da emissari della setta, finché un fortunato colpo di mano degli amici romani dell’arcivescovo era riuscito a sottrarlo alle grinfie settarie e a restituirlo al papato. Si basava anche sulla convinzione che Milingo era ormai lontano da almeno un ventennio dall’Africa e che il suo eventuale rientro non avrebbe avuto un effetto traumatico. Gli stessi vescovi africani seguivano del resto la vicenda del loro confratello con sofferenza e disagio. Significativo che una rivista missionaria come "Nigrizia" dichiarasse la sua delusione per la parabola involutiva di Milingo, "che si è perso nello spiritualismo": "in Italia lo applaudivano tutti, andavano da lui come da un santone perché i santoni vanno benissimo a questo sistema, basta che non tocchino l’economia, le dinamiche politiche, gli aspetti sociali della realtà (...). L’andare con Moon, poi, fa ancora più specie. Perché Moon è appunto l’emblema della religione usata dal sistema. Al di là del tradimento della sua visione teologica di partenza, al di là della questione se abbia conosciuto o meno la moglie prima del matrimonio, il problema grosso è che Milingo sia entrato in questa religione civile del tutto funzionale all’Impero, ciò che la sua parabola personale del resto andava ormai lentamente preparando. Se l’inculturazione non è legata alla liberazione in maniera globale, si finisce per essere strumentalizzati per divenire semplicemente funzionali al sistema" (Alex Zanotelli, Il caso Milingo, Nigrizia, luglio-agosto 2001).

Qualunque fosse l’ipotesi interpretativa più verosimile, restava il fatto che la Chiesa di Roma si era trovata chiusa in un angolo dalla potenza di Moon e dalla spregiudicatezza con cui la setta aveva gestito la regia dell’affare. Una volta compreso che la preda era sfuggita alla presa, Moon si dedicava con accanimento scientifico alla denigrazione della Chiesa romana. Faceva leva sia sul lato antifemminista e persecutono del sistema ecclesiastico, di fronte alla vicenda di una donna abbandonata, sia sul carattere assolutista del regime interno della Chiesa cattolica, nella quale si asseriva che i diritti soggettivi non riceverebbero ancora spazi sufficienti, al punto di esporla al dubbio che fossero talora praticati metodi proselitistici, culto della personalità, un rispetto non adeguato per la coscienza, carenze di considerazione per i vissuti delle persone, controlli autoritari, produzione di fanatismo di massa e riproduzione di gregarismo, molto utili allo spirito totalitario e indispensabili supporti delle dittature. Altrettanti fenomeni di totalitarismo, di sacra alleanza tra religione e capitalismo e di alienazione che ricevevano regolari denunce a carico delle sette. Si poteva ammettere che la risposta della Chiesa cattolica a questa strategia era tutt’altro che un capolavoro di lungimiranza e di trasparenza. Forse la linea dei mea culpa pubblici segnata dal papa durante il Giubileo avrebbe potuto tracciare un metodo utile anche in questa circostanza delicata a governare un evento così complesso e drammatico. La lettera di Milingo al papa, in data 25 agosto, attestava il suo senso di pentimento, "come il figlio prodigo", per l’afflizione procurata allo stesso papa e lo scandalo dato a tutta la Chiesa cattolica, e la sua volontà di riunirsi insieme al papa, ai vescovi, con tutta la Chiesa cattolica. Ma al di là delle valutazioni personali, alcuni cristiani erano portati a pensare che il reintegro di Milingo nel sistema istituzionale sarebbe un segno oscurato se non trainasse con sé anche una capacità della Chiesa di farsi carico in modo più coraggioso dei problemi dell’africanizzazione del cristianesimo e del fardello tremendo della liberazione del continente nero dai suoi demoni economici e politici.

Giancarlo Zizola




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