La nomina dei Vescovi

di Salvatore Capo


Nei primi secoli del cristianesimo i vescovi erano scelti dalle comunità cristiane e venivano consacrati da vescovi delle città vicine.

Il testo più antico sulla scelta e sulla consacrazione dei vescovi lo troviamo nella Prima Lettera a Timoteo (che probabilmente è stata scritta negli ultimi decenni del I secolo): “Non tralasciare il dono che è in te e che ti è stato dato per rivelazione profetica, con l'imposizione delle mani, dall'assemblea dei presbiteri” (1 Tm 4, 14). Timoteo era stato lasciato da Paolo vescovo ad Efeso probabilmente intorno agli anni 60-62 (cfr. 1 Tm 1, 3). Negli Atti degli Apostoli troviamo un passo che ha una notevole somiglianza con questo. Dopo aver detto, in At 13, 1, che nella Chiesa di Antiochia vi erano profeti e dottori, Luca afferma che lo Spirito Santo disse loro di separare Paolo e Barnaba per l'opera cui li aveva destinati (At 13, 2); e continua: “Dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li lasciarono partire. Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo, discesero a Seleucia e di qui salparono verso Cipro” (At 13, 3-4). Siamo tra il 44, anno della morte di Erode Agrippa, narrata in At 12, 23, e il 48, anno probabile del ritorno di Paolo e Barnaba ad Antiochia, narrato in At 14, 21. Da notare, in questo passo, il fatto che anche l'apostolo Paolo ha avuto imposte le mani da profeti e dottori della comunità guidati dallo Spirito Santo. E da notare soprattutto la somiglianza col passo precedente. Anche qui c'è una rivelazione profetica; anche qui c'è l'imposizione delle mani; anche qui è la comunità cristiana che opera la scelta.
Nella Prima Lettera a Timoteo, come si è visto, sono i presbiteri che impongono le mani sul nuovo vescovo. In effetti, l'istituto del presbiterio esisteva già prima del cosiddetto primo Concilio di Gerusalemme, svoltosi nel 49-50. Ciò si deduce da tre passi degli Atti degli Apostoli (11, 30; 14, 23; 15, 2.4.6). Tale istituto deriva verosimilmente dalla costituzione della sinagoga, dove i presbiteri, gli anziani, guidavano la comunità e amministravano la disciplina. Dopo la partenza dei Dodici da Gerusalemme, i presbiteri si raccolgono attorno a Giacomo come attorno a un primo vescovo.
Le prime comunità cristiane hanno una caratteristica particolare, quella di apparire come comunità carismatiche, in cui ognuno sa di avere ricevuto dallo Spirito Santo un dono spirituale, un dono della grazia, un carisma, che dev'essere usato per edificare un corpo in cui tutte le membra collaborano. Ciò appare evidente in particolare per le comunità paoline (cfr. Rm 12, 3-8; 1 Cor 12, 1-30). Ma anche per le prime comunità della Giudea si può parlare di comunità carismatiche (cfr. At 2, 1-13; 11, 27-28; 15, 32).
Nella Didachè, raccolta di istruzioni e usanze della Chiesa primitiva, scritta negli ultimi decenni del I secolo, cioè contemporaneamente agli ultimi scritti canonici, si può osservare la convivenza tra profeti e dottori da un lato, vescovi e diaconi dall'altro. In 15, 1 si legge: “Eleggetevi episcopi e diaconi degni del Signore, uomini miti, disinteressati, veraci e sicuri; infatti essi svolgono per voi lo stesso ministero dei profeti e dei dottori”. Come appare chiaro, i vescovi e i diaconi vengono eletti, mentre i profeti e i dottori operano in virtù dello Spirito loro donato (cfr. At 11, 27-28; 15, 32; Didachè 11, 7). Successivamente, le manifestazioni pneumatiche e carismatiche andarono scemando e con la fine dell'età apostolica si andò consolidando la struttura ministeriale tripartita (vescovi, presbiteri e diaconi). Ciò avviene probabilmente anche perché Paolo aveva posto tra i carismi anche i doni di governo e di insegnamento (Rm 12, 7; 1 Cor 12, 28).

Sul rito di ordinazione dei vescovi, è la Traditio Apostolica di Ippolito (primi decenni del III secolo) la più antica testimonianza scritta al di fuori dei testi canonici. Da essa apprendiamo che il gesto essenziale dell'ordinazione del vescovo è l'imposizione delle mani. Questa viene fatta in silenzio da altri vescovi presenti, mentre uno di loro recita una preghiera consacratoria.
Nei primi secoli, la nomina del vescovo da parte della comunità cristiana concretizzava e significava lo stretto rapporto tra vescovo e comunità. Quando in Oriente si costituirono le province ecclesiastiche, l'elezione avveniva alla presenza del metropolita, che giudicava la qualità dell'eletto.

Ma a partire dal IV secolo in Oriente cominciarono a intervenire sulla nomina dei vescovi gli imperatori di Costantinopoli, che cercarono di imporre persone a loro gradite.
In Occidente tale intervento e ingerenza dell'autorità civile iniziò più tardi, con l'impero carolingio. Carlo Magno cominciò a nominare lui stesso i vescovi, giustificando tale prassi con lo scopo di dare ai cristiani pastori ineccepibili. Egli si servì dei vescovi da lui nominati anche come ispettori nelle contee e li chiamò a partecipare alle assemblee generali dell'impero. E con numerosi provvedimenti si intromise anche in questioni attinenti la formazione del clero, la vita liturgica e addirittura la teologia (nel Credo cantato ad Aquisgrana fece aggiungere nell'809 il Filioque, che diverrà uno dei principali motivi di conflitto tra Roma e Costantinopoli quando intorno al 1013 sarà aggiunto al Credo della Chiesa romana).

Nel periodo feudale, che ebbe inizio con la morte di Carlo Magno (814) e interessò tutto l'Occidente, i vescovi divennero anche feudatari e ad essi vennero concessi dei territori e delle immunità da parte di sovrani e signori, che ovviamente cercarono di assicurarsi il controllo sulla loro nomina. A partire dal IX secolo i vescovi nominati ricevevano, con una cerimonia feudale di investitura, un bastone pastorale (nell'XI secolo fu aggiunto l'anello e nel XII la mitra) e dovevano prestare un giuramento di fedeltà al sovrano. Al popolo restava solo di applaudire, e al clero di procedere alla consacrazione di chi era stato fatto vescovo dal principe.
Con lo smembramento dell'impero carolingio (888), nacquero i regni di Germania, Francia, Borgogna e Italia. Ottone I, divenuto re di Germania nel 936, si trovò ad affrontare il problema costituito dai grandi feudatari, che minacciavano il suo potere e non erano facilmente controllabili, essendo i loro feudi divenuti ereditari. Egli pensò di risolvere il problema rafforzando il feudalesimo ecclesiastico a scapito di quello laico, non solo affidando ai vescovi, che dovevano essere celibi e quindi senza eredi, il governo dei feudi, ma anche concedendo loro i cosiddetti “regalia”, cioè diritti regali, come il coniare monete e il riscuotere tasse. A qualcuno concesse anche il governo civile delle città. I vescovi divennero così veri e propri funzionari statali, fedelissimi al sovrano, che aveva loro concesso i benefici. Alcuni, approfittando della generale decadenza della vita cristiana del tempo e dell'interesse dei sovrani, semplicemente si comprarono la nomina, e furono detti simoniaci (da Simon Mago, che secondo At 8, 18-19 pretese di acquistare con denaro i doni dello Spirito Santo).

Di fronte a tale stato di cose e poiché, agli occhi della Chiesa, gli stati esercitavano un diritto che non avevano ottenuto, molti cominciarono a reagire e nacque un diffuso movimento di protesta, di cui si fecero interpreti i papi Leone IX, Niccolò II, Alessandro II e soprattutto Gregorio VII. Quest'ultimo nel 1078 emanò il divieto delle investiture da parte di laici, entrando in conflitto con l'impero. Da parte imperiale si osservava che, essendo i vescovi amministratori delle ricchezze avute in concessione dal sovrano, la loro nomina spettava al sovrano. La lotta per le investiture si concluse col concordato di Worms (1122), stipulato tra Callisto II ed Enrico V, e ispirato all'idea di Ivo di Chartres della doppia investitura: alla Chiesa spettava quella spirituale della cura delle anime con la consegna del bastone e dell'anello; al sovrano spettava quella temporale con la concessione dei beni feudali e delle “regalie”. Secondo tale concordato, la nomina dei vescovi doveva avvenire per elezione del clero e approvazione del popolo, rimanendo dunque vivo il principio che il vescovo dovesse essere eletto con l'intervento della comunità cristiana, sia del clero che del popolo. Di fatto, secondo le successive Decretali dei pontefici (lettere aventi la funzione di risolvere una questione), l'elezione venne assegnata al capitolo cattedrale (l'insieme del clero della cattedrale), con successiva approvazione del resto del clero.
Ma il concordato di Worms non chiuse affatto il problema dei rapporti tra Chiesa e stati. Già esso stabiliva che in Germania le elezioni dei vescovi dovevano svolgersi alla presenza del re, che sarebbe intervenuto in caso di discordia, e l'investitura temporale doveva precedere la consacrazione. Di fatto, cioè, i re in Germania avevano sin dal 1122 un mezzo legale e riconosciuto per dirigere le elezioni dei vescovi. Negli altri paesi, invece, non era prevista la presenza del sovrano all'elezione e l'investitura temporale doveva seguire la consacrazione.

A partire dal XIII secolo, i papi cominciarono a riservare a sé la nomina dei vescovi. E tale prassi divenne comune e costante nel XIV secolo. La nomina avveniva attraverso una procedura segreta, come avviene tuttora.
Uno dei motivi di tale prassi va ricercato nella situazione che si era creata nei rapporti tra papato e sovrani francesi. Filippo IV il Bello, per fronteggiare le sue spese belliche, aveva imposto nuove tasse al clero senza l'approvazione del papa. Bonifacio VIII nel 1296 emanò una bolla che affermava la necessità del consenso papale per ogni nuova tassa sul clero. E nel 1302, con la bolla Unam Sanctam, dichiarava che al papa è conferito ogni potere, sia spirituale che temporale. Filippo IV vide in tale bolla un programma di sopraffazione papale ed ecclesiastica sul piano politico, decise di inasprire la lotta contro il papato e fu scomunicato. Seguirono le note vicende della prigionia di Bonifacio VIII ad Anagni, dell'elezione di un papa francese e della “cattività avignonese”, con sette papi francesi, durata dal 1309 al 1377. Fu in questo periodo che si accentuò ulteriormente la centralizzazione del governo della Chiesa.

Dopo il ritorno del papato a Roma, Carlo VI convocò a Parigi nel 1398 un Concilio dei vescovi francesi, in cui nacque il cosiddetto “gallicanesimo”, che si proponeva di limitare la giurisdizione della Santa Sede sulla Chiesa francese. I vescovi francesi affermavano che la Chiesa di Francia doveva riacquistare le sue antiche libertà contro le esazioni papali. E dopo la presa di posizione dei Concili di Costanza (1415) e soprattutto di Basilea (1438) a favore del conciliarismo, cioè della superiorità dei concilii sul papa, Carlo VII convocò a Bourges nel 1438 il clero francese, che nella famosa Pragmatica sanctio sostenne la posizione conciliarista.

Con il concordato del 1516 tra Leone X e Francesco I il papa ottenne che venisse abrogata la Pragmatica sanctio del 1438. Ma dovette concedere al sovrano la potestà di nominare i vescovi. Viene detto testualmente nel concordato, a giustificazione di tale concessione, che il re provvederà alla nomina dei vescovi “per nos”, cioè per il papa, cioè per una sorta di concessione che la Chiesa fa allo stato.
Con il regno di Luigi XIV (1638-1715) le posizioni gallicane, mai sopite in Francia, prevalsero ancora all'interno della Chiesa francese, e furono esposte nella Declaratio cleri gallicani del 1682, condannata nel 1690 da Alessandro VIII.
Il concordato del 1801 tra Pio VII e Napoleone I cercò di comporre il dissidio tra religione e stato creato dalla rivoluzione. Il papa riconobbe le alienazioni delle proprietà ecclesiastiche a favore dello stato durante la rivoluzione e Bonaparte riaffermò il diritto sancito dal concordato del 1516 di nominare i vescovi e legarli a sé col giuramento. Si formò un clero nominato e salariato dallo stato, ma la Chiesa in cambio riebbe la sua esistenza giuridica e potè penetrare in Francia in modo più efficace che per il passato. Il concordato del 1801 rimase in vigore fino al 1905, quando fu denunziato dalla Francia.

Anche in Austria si affermò, sotto il governo di Giuseppe II (1765-1790), un sistema di controllo e di tutela dello Stato sulla Chiesa, che prese il nome di “giuseppinismo”. Giuseppe II impose il placet regio per la pubblicazione delle ordinanze papali, stabilì seminari di stato per l'educazione obbligatoria del clero, intervenne nelle norme relative al culto e attribuì allo stato la nomina dei vescovi.
In Italia, dopo la Riforma, le nomine dei vescovi continuarono a essere riservate al papa, mentre in altri paesi si tornò al diritto delle Decretali, e la nomina veniva fatta dai capitoli delle chiese cattedrali.
Spagna e Portogallo sfruttarono invece più di altri paesi il sistema che concedeva la nomina dei vescovi per un diritto di “patronato”, cioè perché erigevano nuove sedi vescovili, la prima nelle Indie occidentali, il secondo nelle Indie orientali. Alla Spagna il patronato per le Indie fu concesso dai papi dopo il 1492, anno della scoperta del Nuovo Mondo. Tale sistema rimase in vigore fino al XIX secolo.

Il Codice di diritto canonico promulgato da Benedetto XV nel 1917 rafforzò la dipendenza dei vescovi da Roma, stabilendo che essi reggono la Chiesa sotto l'autorità del papa.
Il nuovo Codice di Diritto Canonico, promulgato da Giovanni Paolo II nel 1983, afferma che il romano pontefice nomina liberamente i vescovi (canone 329). Sono richiesti per essere nominati vescovi almeno trenta anni di età e cinque anni di sacerdozio. La nomina del papa è preceduta da una procedura segreta espletata dalla Sacra Congregazione per i vescovi, comprendente una consultazione operata da un legato pontificio. In base al concordato oggi vigente tra la Santa Sede e lo stato italiano, prima di nominare un vescovo la Santa Sede deve comunicarne il nome al governo italiano.

Sulla base di quanto fin qui detto, la possibilità di una diversa procedura per la nomina dei vescovi appare già giustificata da un ritorno alla tradizione dei primi secoli. E questa tradizione sembra avere un fondamento solido nei passi biblici citati degli Atti degli Apostoli e della Prima Lettera a Timoteo, oltre che nella Didachè.

Ma le vicende storiche che si è cercato di riassumere fanno nascere un'altra osservazione. Se la nomina dei vescovi da parte del papa si è affermata solo a partire dal XIII secolo e se per diversi secoli la Chiesa cattolica ha accettato che vi fossero sistemi diversi di nomina in alcuni stati (Francia, Austria, Spagna, Portogallo), allora la motivazione teologica della nomina da parte del papa non sembra sufficientemente forte e fondata. Essa sembra, invece, per dirla a chiare lettere e con quel coraggio evangelico richiesto anche da Giovanni Paolo II, primariamente una motivazione storico-politica.

A giustificazione della proposta qui avanzata vi sono, invece, anche motivi teologici ed ecclesiologici, che si cercherà ora di illustrare.
Il fatto che a partire dal XIII secolo il papato abbia riservato a sé la nomina dei vescovi (pur con le diversità che abbiamo visto per la Francia, la Spagna e il Portogallo nei secoli XVI-XIX) può essere considerato come una conseguenza della riforma gregoriana dell'XI secolo. Quest'ultima ha considerato il primato di giurisdizione del papa come immediatamente ricevuto da Dio e lo ha scollegato dalla sua ordinazione episcopale sacramentale come vescovo di Roma. Ma è la consacrazione a vescovo che configura un uomo a immagine di Gesù pastore, a immagine di Cristo “pastore e vescovo delle nostre vite” (1 Pt 2, 25), perché l'unico episcopato di Cristo si rende presente nel corpo dei vescovi. E secondo gli Atti sono abilitati a reggere la Chiesa quelli che lo Spirito Santo costituisce vescovi (At 20, 28). Questa impostazione è stata ripresa solo a partire dal Concilio Vaticano II. Dalla Lumen Gentium (nn. 21-23) e dalla successiva costituzione di Paolo VI del 1975 Romano pontifici eligendo (n. 88), si evince che condizione per diventare papa è quella di essere consacrato vescovo di Roma. Il potere del papa, dunque, è l'estensione a tutta la Chiesa di un'autorità che è di origine sacramentale. Pertanto, se è l'ordinazione episcopale la fonte del potere giurisdizionale, non si può ritenere tale potere come la fonte della giurisdizione più ridotta dei vescovi. La funzione del vescovo di Roma, cioè, non sembra includere il diritto di nominare vescovi. Tra l'altro, per inciso, nella famosa “Nota explicativa praevia” alla Lumen Gentium non viene detto che spetta esclusivamente al papa nominare i vescovi. Ciò sembra anche confermato dal cambio di valutazione, verificatosi nel XX secolo all'interno della Chiesa cattolica, su quale sia l'elemento centrale del sacramento dell'ordine. Mentre il Concilio di Firenze nel 1439 (decreto per gli Armeni) sostenne addirittura che tale elemento centrale era la consegna delle insegne (bastone, anello, mitra, evangeliario), la costituzione Sacramentum Ordinis di Pio XII nel 1947 stabilì che l'elemento essenziale dell'ordinazione è l'imposizione delle mani.
Tutta questa impostazione costituisce una base teologica per una riforma della nomina dei vescovi, o meglio per un ritorno o riavvicinamento alla prassi delle origini.

Un'altra base teologica può essere data dall'osservazione che la nomina dei vescovi può fondarsi solo sulla designazione da parte dello Spirito (At 20, 28). E la discesa dello Spirito Santo su un'assemblea è attestata in At 10, 44-45 e 19, 6-7. L'attuale carattere centralizzato e segreto della procedura non rende molto evidente la designazione da parte dello Spirito.
E ancora vi è da osservare che il fondamento dell'autorità nella Chiesa è costituito dallo Spirito Santo, che viene dato a tutti (At 2, 17; 10, 44-45; 1 Cor 12, 3; 2 Cor 13, 13) e che non solo ai capi, ma a tutti quanti hanno doni e carismi è stata conferita autorità (Rm 12, 3-8; 1 Cor 12, 4-28).

Ma a sostegno della proposta qui avanzata vi sono anche osservazioni di carattere ecclesiologico.
L'ecclesiologia del Concilio Vaticano II ha affermato l'esistenza di un collegio episcopale, di cui si entra a far parte in forza della consacrazione, e di cui è membro anche il papa (Lumen Gentium n. 22). Questa collegialità di principio, però, sembra contrastare con il permanere sul piano giuridico del fatto che i vescovi sono scelti e nominati dal papa e possono essere rimossi e trasferiti in qualsiasi momento con un atto insindacabile del papa. Non sembra, cioè, che l'attuale sistema di nomina rifletta la collegialità come proprietà essenziale del ministero episcopale.
Inoltre, esiste un nesso profondo tra ministero episcopale e Chiesa come mistero di comunione. L'ecclesiologia di comunione trova il suo fondamento in numerosi luoghi biblici: “Rimanete in me ed io in voi” (Gv 15, 4); “Siano tutti una cosa sola” (Gv 17, 21); “Tutti i credenti stavano insieme e avevano tutto in comune” (At 2, 44); “La comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi” (2 Cor 13, 13); “Noi siamo in comunione gli uni con gli altri” (1 Gv 1, 7). La comunione tra i credenti non può avere solo un aspetto mistico e invisibile; ma indica una prassi relazionale, interpersonale, storica e visibile. C'è una splendida espressione di san Cipriano (200-258 d.C.) che sintetizza la comunione tra il vescovo e la sua Chiesa: “Il vescovo è nella Chiesa e la Chiesa è nel vescovo” (Epistola 69, 8). La relazione finale della II Assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi del 1985 afferma che “l'ecclesiologia di comunione è l'idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio”. Mentre nell'Instrumentum laboris della X assemblea del Sinodo dei vescovi, diffuso a giugno di quest'anno, si legge al n. 62: “La comunione corrisponde all'essere della Chiesa, ricorda la destinazione di tutti i carismi all'agape, alla comunione nell'unità, nello stesso disegno di salvezza, nello stesso progetto ecclesiale”. E al n. 64: “Il ministero episcopale si inquadra in questa ecclesiologia di comunione e di missione che genera un agire in comunione, una spiritualità e uno stile di comunione. […] Nel vescovo converge la Chiesa particolare, la comunità del popolo di Dio, con i presbiteri, i diaconi, le persone consacrate, i laici”. Se nel vescovo convergono il clero e i laici e se tutti i carismi sono destinati a uno stesso progetto ecclesiale, l'intervento del clero e dei laici nella nomina del vescovo sembra naturale.
Un'ulteriore osservazione viene dal fatto che la nomina di tutti i superiori religiosi, a tutti i livelli, non viene fatta dal capo del livello superiore, ma avviene attraverso un'elezione da parte dei loro confratelli. È normale e funziona da secoli che siano gli stessi religiosi a discernere colui che, tra loro, è più adatto a dirigere la congregazione.

La proposta sulla nomina dei vescovi che avanzo, che è poi molto simile a quella di diversi teologi cattolici, è la seguente. Quando si rende vacante un seggio episcopale, un legato nominato dal papa (può anche essere un vescovo) convoca e presiede un collegio elettorale, costituito da: tutti i sacerdoti della diocesi, anche quelli che non sono parroci; tutti i diaconi della diocesi; tutti i componenti laici del consiglio pastorale diocesano; un rappresentante laico di ogni consiglio pastorale parrocchiale.
Questo collegio si riunisce per un'intera giornata dedicata alla preghiera, alla riflessione e all'invocazione dello Spirito Santo. Alla fine della giornata si procede all'elezione a scrutinio segreto e viene eletto chi ha riportato almeno i due terzi dei voti. Nel caso in cui nessuno riporti i due terzi dei voti, si procede usando la stessa procedura in vigore per l'elezione del papa. Può essere eletto vescovo di una diocesi qualunque sacerdote, anche di un'altra diocesi, che abbia almeno trenta anni di età e cinque anni di sacerdozio.
È chiaro che l'elezione non deve prevedere precedenti formali candidature. E ciò per evitare che qualche candidato poi non eletto si senta “bocciato”. In realtà, sembra questo uno dei motivi che induce la Curia romana a mantenere l'attuale sistema di segretezza. Ma tale motivo viene a cadere nel momento in cui, non essendoci candidati, non possono esserci neanche “bocciati”.
Un altro motivo che viene addotto da qualcuno per mantenere l'attuale sistema è la presenza di possibili divisioni nelle diocesi e nel clero locale. Ma si tratta di un motivo che appare insufficiente, perché le diversità di opinioni e valutazioni, come possono esistere localmente all'interno della diocesi, così possono esistere (e negarlo sarebbe come nascondersi dietro un dito) all'interno della Curia romana.
Riguardo ai trasferimenti di un vescovo da una diocesi a un'altra, essi sarebbero sempre possibili, purché un vescovo eletto in una diocesi possa rimanervi un certo numero di anni.
Sono certo che un tale sistema di nomina riavvicinerebbe il vescovo ai fedeli della diocesi, stabilirebbe un rapporto migliore della gerarchia con i laici, e contribuirebbe a mostrare meglio a tutti la Chiesa come popolo di Dio.

Salvatore Capo




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