Il silenzio del confessionale

Contro la crisi del sacramento, riti di gruppo e pene moderne


di
MARCO POLITI   ( “Repubblica” 7.3.2004)

 

 

MILANO - Le cifre sono eloquenti. Quasi metà degli italiani non si confessano mai o ricordano di averlo fatto a distanza di anni. A Roma, città del pontefice, un' indagine di fine anni Novanta ha messo in luce segni di disaffezione ancora più alti. Non va mai a confessarsi il 38,1 per cento delle persone e più del 20,2 per cento lo fa a distanza di anni. La riposta di papa Wojtyla e dei documenti vaticani finora è stata univoca. Esortare i preti a confessare di più. Può bastare? Tra i giovani la confessione è ancora più disertata, se si prescinde da eventi emotivi spettacolari come giubilei e giornate della gioventù.

 

 «L' innegabile calo numerico dei penitenti e il diradarsi delle confessioni sono sotto gli occhi di tutti», ammette don Carlo Collo docente di Teologia sistematica alla Facoltà teologica dell' Italia settentrionale. Per questo un gruppo di associazioni e movimenti - «Noi siamo Chiesa», Gruppo promozione donna, Coordinamento 9 marzo - hanno deciso di partire da Milano per riaprire la questione. Basta con i cinque pateravegloria, la Chiesa dia via libera alla celebrazione del rito di penitenza comunitario!

 

E' questa, in sintesi, la richiesta che emerge da settori trasversali del cattolicesimo, in cui i fedeli maggiormente in ricerca si mescolano ai preti più attenti alle necessità pastorali. Dice don Ferdinando Sudati, viceparroco a Lodi: «Passo molte ore a confessare fedeli che vengono per delle autentiche quisquilie e banalità. Situazioni, cioè in cui non c' è il peccato. Sull' altro versante abbiamo i giovani che rifuggono dalla confessione e molte persone per le quali l' attuale tipo di rito urta contro la sensibilità moderna e che quindi non vogliono confidare ad un altro uomo le proprie colpe». Alla fine, spiega, non viene chi ne avrebbe bisogno e si avvicinano al confessionale soprattutto bambini, anziani e «i più vicini» alla parrocchia.

 

Al fondo c' è l' equivoco tra la concezione tradizionale, che fa percepire la confessione come l' elenco di una serie di trasgressioni (la bugia, l' assenza alla messa domenicale, la bestemmia, l' infrazione in campo sessuale), e il nocciolo autentico della penitenza che dovrebbe consistere in un cammino di conversione, cioè di mutamento della propria vita. Paolo VI citava spesso il termine greco «metanoia», cioè il pentimento che «cambia la mente». Se questa è la posta in gioco - pungola padre Ortensio, già docente di Sacra Scrittura all' ateneo Antonianum di Roma - allora recitare di filato «oh Gesù, d' amore acceso» diventa «una filastrocca, una canzonetta perché il peccato non consiste nell' aver commesso questa o quella trasgressione, ma nel non essersi fatti discepoli di Gesù Cristo». Il che naturalmente è impegnativo. «Perché spezzare il pane come ha fatto Gesù», partecipare all' eucaristia, dovrebbe significare «io sono uno di questi seguaci di Cristo, io mi butto nella mischia» ed essere pronti a rischiare le conseguenze come lui.

 

Per favorire questo approccio più profondo molti gruppi pensano ad una maggiore valorizzazione del rito comunitario, in cui insieme i fedeli confessano le loro colpe e insieme sperimentano la riconciliazione con Dio. Qualcosa di radicalmente diverso dall' assoluzione generale collettiva che si dà sul campo di battaglia o in particolari emergenze. La proposta - don Sudati me la riassume - è una vera e propria liturgia penitenziale in cui comunitariamente si prega, si canta, si legge il Vangelo, si ascolta l' omelia, si fa l' esame di coscienza e si assume l' impegno alla conversione.

 

Riti del genere, propone il teologo Rinaldo Falsini, potrebbero avere luogo in occasione di ritiri, pellegrinaggi, incontri e ambienti particolari come gli ospedali o in epoche come la quaresima. Basta che il Vaticano sospenda il veto. Al tempo stesso, ritengono alcuni, anche la confessione individuale dovrebbe essere caratterizzata da penitenze non meccaniche come i soliti pateravegloria. Sei spendaccione? Allora versa una quota del tuo ai poveri. Ignori il vangelo? Ti impegni a delle letture. Sei superficiale nella tua fede? Ti dai l' obiettivo di dedicare del tempo alla preghiera.

 

Dietro le quinte la Chiesa intera si sta interrogando sul problema. Don Collo fa notare che per esempio nei santuari le confessioni aumentano. E anche lì si introducono innovazioni. A Pompei un manuale per i pellegrini invita ad un esame di coscienza sui peccati sociali. «Pago le tasse? Contrasto la camorra? Pago il giusto ai dipendenti? Accolgo gli extracomunitari?»

 

 

 

                                          Introduzione di Vittorio Bellavite al Convegno

                        “Peccato e perdono:come pensare e praticare la riconciliazione ?”

                                                                 Milano 6 marzo 2004

           I promotori di questo incontro- il “Coordinamento 9 Marzo”, il Gruppo Promozione Donna e “Noi Siamo Chiesa”- fanno parte di quell’area vasta di credenti che da tempo  nella loro vita di fede e nelle comunità di cui fanno  parte soffrono del modo con cui la Chiesa cattolica affronta il problema del pentimento, del perdono e della riconciliazione. Siamo, per esempio, convinti che il rapido declino della funzione e della credibilità stessa della confessione individuale dei peccati davanti ad un sacerdote, solo ministro del sacramento,  sia conseguenza non della secolarizzazione ma  soprattutto  della  inadeguatezza particolarmente oggi. Non a caso l’abbandono di questo sacramento  non avviene in genere da parte di chi ha un rapporto con la fede e con la chiesa di tipo tradizionale, consuetudinario, passivo ma da parte di chi è fortemente motivato alla vita cristiana, di chi è più impegnato in una nuova comprensione della Parola di Dio ed è più attivo nelle associazioni, nelle parrocchie e magari vive in convento o in qualche comunità di vita religiosa.

        Questa disaffezione, questi dubbi ed il relativo disorientamento toccano  il credente nell’intimo della sua coscienza. Essi  intervengono infatti – è anche inutile sottolinearlo- nel luogo centrale e più delicato della vita di fede, quello del rapporto tra la persona e Dio, tra il credente e la sua presenza nella comunità; intervengono quando la persona si trova di fronte, nell’esaminare la sua coscienza,  ai problemi etici più profondi, nel lavoro, nelle professioni, in famiglia, nei rapporti coi figli, nel rapporto con l’organizzazione della vita collettiva (sulle questioni della pace e della guerra e sugli stessi orientamenti politici che non possono mai sottrarsi  a considerazioni che siano anche etiche).

A questa disaffezione corrisponde una forte richiesta di trovare altre risposte, altre prassi, magari sperimentali, che sappiano indicare direzioni diverse rispetto a quelle attuali.

           Ma quanto la Chiesa nelle sue autorità  ha proposto dopo il Concilio è del tutto deludente; è diffusa l’opinione che negli ultimi trent’anni ci si è limitati a ripetere gli orientamenti prevalsi al Concilio di Trento, dal codice di diritto canonico del ’83 al Catechismo del ’92, allo stesso Sinodo dei Vescovi del ’83 dove pure i problemi furono posti (tra chi li pose ci fu  il Card. Martini) ma furono risolti in modo autoritario da Giovanni Paolo II con la  Esortazione apostolica “Reconciliatio et Poenitentia” che di fatto sposò le posizioni già esposte al Sinodo dal Card. Ratzinger. Ai problemi si risponde con troppi e inutili documenti, ultimo di questi la Lettera apostolica “Misericordia Dei” che “Noi Siamo Chiesa” commentò con un documento dal titolo significativo “Poca misericordia e molto codice”.

         Oggi partiremo da questo disagio, parleremo di come uscirne. Per questo abbiamo invitato illustri teologi che ringraziamo vivamente per avere accettato la sfida di confrontarsi con un tema così impegnativo con assoluta libertà. Eppure dopo il Concilio il problema su cui noi ora ci interroghiamo fu posto, bene e ripetutamente. Per esempio, si legga  il n.1 del 1971 della rivista “Concilium”. Vi si dice nell’editoriale “Per trovare forme e riti efficaci di perdono è necessario conoscere il contesto culturale e tenerne conto. Sul piano teologico tale necessità appare ugualmente, se si pensa che il perdono sacramentale suppone un segno efficace. Quando un rito ha perduto ogni valore reale di segno, cessa di essere segno. Man mano che cresce la presa di coscienza nella vita dei fedeli, l’interesse per un tale rito diminuirà rapidamente”. E’ quanto è avvenuto e sta avvenendo.

          Non possiamo adattarci ad una vita di fede ripetitiva, senza ricerca, da infantes. Siamo cresciuti nel postconcilio, vi abbiamo appreso a superare la religione come fatto privato o di costume, a porci il problema della sua dimensione sociale. Sono i problemi di come, individualmente e collettivamente (politicamente vorrei quasi dire) ci dobbiamo rapportare alla questione della pace fondata sulla giustizia  e, più in generale,  della nostra collaborazione al bonum comune.

Dovrebbe essere alle nostre spalle l’individualismo sessuofobico della casistica della teologia morale insegnata per secoli nei nostri seminari (ma a Roma si difende ancora a spada tratta l’Humanae vitae, documento non recepito dal Popolo di Dio e che quindi alcuni ritengono decaduto). E’ l’impianto stesso di questa teologia che abbiamo imparato a mettere in discussione; ci è stato maestro qui a Milano don Leandro Rossi il nostro fratello che ci ha lasciati nel luglio scorso e che qui, in questa stessa sala da noi invitato, venne a ricordare, nella sua ultima conferenza pubblica, il suo e nostro maestro Bernard Haring.

            Ma c’è dell’altro. Negli incontri nei quali abbiamo preparato questo convegno ci siamo detti che, aldilà delle forme del pentimento e della riconciliazione, sia di quelle contestate sia di quelle auspicabili, rimane il problema di come la comunità cristiana riesce ad essere di aiuto fraterno al credente che ha bisogno di consiglio, di ascolto su problemi di fede o su problemi etici del suo vissuto quotidiano. E’ una questione che forse emergerà anche oggi, il nostro obiettivo è quello di rifletterci in futuro, se ne avremo le forze.

             In fine, voglio fare presente che questo incontro si inserisce in una serie di momenti di ricerca su questioni sofferte nel Popolo di Dio  che, come area coordinata di credenti liberi da dipendenze ecclesiastiche, abbiamo intrapreso negli ultimi anni nella nostra Diocesi. Lo abbiamo fatto  anche a causa del silenzio e del conformismo di ogni sede ufficiale, almeno tra quelle che ci sono a Milano (Facoltà teologica, Università cattolica, centri culturali ecc..). Neppure si fa la cronaca di quello che facciamo; l’Avvenire, per esempio, si è ben guardato dal dare notizia di questo nostro  importante incontro di oggi così come con ogni probabilità non ne parlerà domani.

Abbiamo  affrontato il problema del rapporto tra la fede e le persone omosessuali, la situazione dei cristiani divorziati e risposati nella Chiesa, il modo con cui vengono designati i vescovi nella nostra chiesa (in occasione delle dimissioni del Card.Martini) ed infine il problema della predicazione domenicale nella nostra Diocesi. Tutti queste nostre ricerche e proposte sono state raccolte in libri od opuscoli..

Su questa linea intendiamo continuare.