CONSIDERAZIONI DI “NOI
SIAMO CHIESA” SUL
PONTIFICATO DI GIOVANNI PAOLO II, 9 aprile 2005
Senza pretendere di dare un giudizio articolato e complessivo sul
pontificato di Giovanni Paolo II, uno dei più lunghi della storia, ci limitiamo
a valutare alcuni tra i più rilevanti aspetti della sua gestione, partendo dal
rapporto di questo pontificato con il
Vaticano II. Del resto, lo stesso Karol Wojtyla ha più volte affermato
che l’attuazione del Concilio doveva essere l’aspetto caratterizzante del suo
compito papale.
n Dialogo inter-religioso
L’indicazione conciliare, espressa soprattutto dalla dichiarazione Nostra aetate, ha avuto sotto Wojtyla sviluppi
inattesi e importanti. Sul versante del dialogo con i non cristiani, rimangono
nella memoria le giornate di preghiera per la pace, ad Assisi, convocate dal
papa nel 1986 e nel 2002, presenti i rappresentanti delle maggiori religioni
del mondo. Mai il papato aveva immaginato “vertici” del genere. Per quanto riguarda specificatamente gli ebrei,
ricordiamo la sua visita alla sinagoga di Roma (1986) e al Muro del pianto di
Gerusalemme (2000). E, per i musulmani, la visita in Marocco (1985), alla
spianata delle moschee di Gerusalemme (2000) e alla moschea omayyade di Damasco
(2001).
Spettacolare sul piano dei gesti il
dialogo inter-religioso voluto da Wojtyla che ha mostrato, però, irrisolte
contraddizioni sul piano teologico.Difficilmente la Chiesa di Roma poteva
dialogare “alla pari” con altri mentre riteneva la propria religione
obiettivamente superiore alle altre, essendo il papa “vicario di Cristo”, unico
Salvatore del mondo. Nel 2000, la dichiarazione della Congregazione per la
dottrina della fede Dominus Iesus,
che riaffermava la centralità di Cristo e della Chiesa romana nel piano divino
della salvezza, metteva a nudo questa contraddizione. E l’emarginazione, o la
punizione, decisa da Roma, di Tissa Balasuriya o di Jacques Dupuis – teologi
che avevano tentato nuove strade per impostare il rapporto Chiesa
cattolica/Religioni non cristiane – ha dimostrato la difficoltà della Curia
vaticana di saldare posizioni antinomiche.
n Dialogo ecumenico
Giovanni Paolo II ha affermato più volte che la vocazione ecumenica
della Chiesa cattolica romana è «irrevocabile e irrinunciabile». Moltissimi
sono stati i suoi incontri con leaders delle Chiese non cristiane. A livello
teologico, in campo ecumenico si sono registrati progressi ma anche retromarce.
Un progresso importante – ad esempio – è stata la dichiarazione comune
cattolica-luterana (1999) sulla giustificazione, il problema che nel secolo XVI
divise irrimediabilmente le Chiese in Occidente. Ma nessuna conseguenza
ecclesiologica Wojtyla ha tratto da questo Accordo, e con durezza ha rifiutato
la “ospitalità eucaristica” tra cattolici ed evangelici.
Il Giubileo del Duemila è stato gestito
come se la fine del secondo millennio fosse questione esclusivamente di
interesse del centro romano della
Chiesa cattolica.
Al di là degli abbracci,
non si è registrato alcun progresso con gli ortodossi, in particolare a causa
del problema degli “uniati” (cattolici di rito orientale) – “ponte” di dialogo
con gli ortodossi, per Roma; tentativo di distruggere l’Ortodossia, per gli
ortodossi.
Dopo il 1989 non ha fatto che crescere la
polemica tra Roma e Mosca anche a causa di talune imprese “missionarie”
cattoliche di tipo proselitistico. Dolorosamente sorprendente, poi, in
proposito, la decisione vaticana di elevare a diocesi le amministrazioni
apostoliche della Russia, quando a Roma si sapeva che ciò avrebbe ferito la
sensibilità del patriarca di Mosca Aleksij II e del Santo Sinodo. Il mancato
viaggio del papa in Russia – molto desiderato dal papa slavo – è la prova
evidente del fallimento su questo versante.
Nessun passo ha mai fatto Wojtyla per
“perdere” la sovranità dello Stato della Città del Vaticano. Una “regalità” che
obiettivamente impedisce alla Chiesa di Roma di dialogare alla pari con le
altre Chiese. E che le permette di avere uno “status” giuridico – e dunque un
peso politico – negato al Consiglio ecumenico delle Chiese, alle altre Chiese e
alle altre religioni nel consesso delle Nazioni Unite.
n Unità senza diversità
Sullo sfondo di tali difficoltà
vi è il problema, storico e teologico, del papato romano, che lo stesso Wojtyla
ha ammesso essere di fatto il più pesante ostacolo alla riunificazione delle
Chiese cristiane. Perciò nell’enciclica Ut unum sint
(1995) il pontefice si è detto disposto a cambiare le “forme” storiche del
papato, lasciando immutata la sostanza del servizio petrino.
In realtà da allora, come del resto era
stato negli anni precedenti, le “forme” del papato sono rimaste immutate. Anzi,
unanime è la sensazione che Wojtyla, e con lui la Curia, abbiano progressivamente assunto un potere
esorbitante rispetto all’episcopato mondiale, ed abbiano attuato una
centralizzazione ostinata e onnivora.
Un modo per facilitare un equilibrio tra
“Chiesa universale” e “Chiese locali” sarebbe stato quello di dare attuazione
concreta al principio della collegialità episcopale riaffermato dal Vaticano
II. Ma anche in questo campo i segnali sono stati opposti a quelli del
Concilio: i Sinodi dei vescovi, che avevano la funzione di coinvolgere i
vescovi nella gestione della Chiesa, sono stati un mero esercizio comunicativo,
senza alcun valore “deliberante”, e lasciando di fatto il potere di decisione
tutto in mano al papa, e cioè alla Curia. Infatti l’agenda dei problemi, la
selezione dei partecipanti, il metodo di lavoro delle commissioni, la
segretezza degli incontri e le stesse conclusioni di ogni Assemblea
sinodale esprimevano chiaramente un
disegno autoritario, anche se mascherato da formule pseudodemocratiche.
Un pur comprensibile desiderio di dare
una unità dottrinale alla Chiesa ha portato Giovanni Paolo II a scrivere
encicliche, lettere apostoliche e documenti vari relativi a problemi biomedici
o sociali; a emanare un voluminoso Catechismo per la Chiesa cattolica e un
Codice di Diritto Canonico aventi un valore obbligante e indiscutibile per
tutta la Chiesa, anche in assenza di un esplicito consenso dell’Episcopato.
Molti di questi documenti sono stati oggetto di numerose e, spesso, clamorose
critiche all’interno della Chiesa, in quanto troppo distanti dallo spirito del
Vaticano II. L’assenso “assoluto” richiesto dalla Curia ha trasformato i
vescovi in comunicatori degli insegnamenti del papa, di fatto unico Maestro. Al
fine di assicurare una totale sincronizzazione interna, nel 1988 il papa ha
imposto ai vescovi un giuramento di fedeltà che, mentre sottolineava il
necessario vincolo di comunione di ogni vescovo con quello di Roma, nei fatti
oscurava però l’autorità dei vescovi locali.
Più
volte il papa ha sostenuto che «la Chiesa non è una democrazia». Gli episcopati
dell’Austria, Germania, Olanda e Stati Uniti e di altri paesi, ogni volta che
hanno intrapreso Sinodi e Assemblee ecclesiali su temi contesi (il celibato
ecclesiastico, la donna-prete, i
contraccettivi, l’omosessualità, il rapporto ministeri ecclesiali/comunità)
sono stati pubblicamente redarguiti o invitati ad abbandonare problematiche
considerate di esclusiva pertinenza pontificia.
La nomina dei
vescovi è stata influenzata principalmente dal criterio dell’adesione dei
candidati ai “desiderata” pontifici sui temi appena indicati. Per la prima
volta nella storia della Chiesa romana si è verificato che la gran maggioranza
dei suoi attuali 4000 vescovi siano stati scelti da un solo papa, quasi
“clonati” a sua immagine e somiglianza.
Inoltre la Curia romana è intervenuta per
controllare gli ordini religiosi non
allineati (come il “commissariamento della Compagnia di Gesù” nel 1981).
n Esclusione delle nuove
teologie
Sulla scia del dibattito a tutto campo favorito dal Vaticano II, nei
diversi continenti sono germogliate, a partire dagli anni Settanta, esperienze
pastorali e correnti teologiche estremamente innovative, come quella
femminista, asiatica, africana, indigena, negra, ed ecologista. Nessuna di esse
ha trovato accoglienza nei documenti o
nei discorsi del papa. I cultori di tali dottrine non hanno mai trovato un
posto nelle commissioni teologiche pontificie. Alcuni di loro sono stati
pubblicamente condannati e costretti a ritrattazioni.
Per fronteggiare la libertà di ricerca
invocata dai teologi e osteggiata dal papa, quest’ultimo ha provveduto a
esigere da tutti i professori di teologia il seguente giuramento: ”Aderisco con
religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il
romano pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro
magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo”
(1988). E perciò ha proibito, ad esempio, ogni discussione che mettesse in
dubbio il no papale all’ordinazione sacerdotale delle donne (1994).
Esperienze innovative hanno trovato
raramente accoglienza nella Curia papale. Alcuni esempi: bocciati, tra l’altro,
i tentativi di revisione delle traduzioni della Bibbia secondo il linguaggio
inclusivo (USA); l’autonomia delle università cattoliche (USA); l’uso frequente
della confessione comunitaria (Australia); la gestione dei consultori per
l’aborto (Germania).
Più nota e sistematica è stata la tenace
opposizione ingaggiata dal papato nei confronti della Teologia della
Liberazione (TL). Nata nel continente latinoamericano, si era contraddistinta
non tanto per i suoi contenuti biblici (in particolare l’Esodo), quanto per
l’approccio sociologico-ermeneutico, dato che si considerava l’identificazione
con i poveri come la conditio sine qua non per interpretare la Buona Notizia di
Gesù e svolgere la missione evangelizzatrice. Il primato era posto
nell’ortoprassi, non più nell’ortodossia. La TL ha subito una pubblica condanna
tramite una Istruzione emessa dal Cardinal Ratzinger, praticamente copiata
dalla rivista colombiana Tierra Nueva, fondata dal card. Trujillo. Accusati di
ascendenze marxisto-comuniste, tutti i maggiori teologi della liberazione sono
stati puniti in vario modo o emarginati. Vescovi, seminari, congregazioni
religiose, movimenti ecclesiali con simpatie “liberazioniste” sono stati
accuratamente indagati e/o rimossi. Salvo rare eccezioni, i vescovi
latino-americani nominati da Wojtyla erano avversari della Teologia della
liberazione.
Il Consiglio episcopale latinoamericano
(Celam) – che a Medellin, Colombia (1968), nella sua seconda Conferenza
generale, aveva assunto posizioni profetiche nella denuncia delle “strutture di
peccato” che opprimevano il continente, e ammesso responsabilità della Chiesa
per tale situazione – via via è stato “normalizzato” dal Vaticano, prima nella
Conferenza di Puebla, Messico (1979), e soprattutto in quella di Santo Domingo
(1992). Una “normalizzazione” che obiettivamente andava incontro ai desiderata
del governo statunitense, timoroso degli sviluppi di una teologia contraria
agli interessi di una potenza imperiale.
n Laicità
Wojtyla ha continuamente proclamato che la Chiesa nutre il
massimo rispetto per le istituzioni civili e per l’autonomia dei governi e dei
rappresentanti delle realtà secolari. Allo stesso tempo, forte del principio
secondo cui – a suo parere – il
mondo laico non può dire una parola autorevole in fatto di
etica, e tanto meno fondare etiche responsabili, ha premuto perché le leggi
statali sul divorzio e, in particolare, sull’interruzione della gravidanza, si adeguassero alle leggi
ecclesiastiche, definendo “tirannici” quei parlamenti che avessero legalizzato
l’aborto. Coerentemente ha insistito che nella Costituzione europea fossero
esplicitamente citate le “radici cristiane” del Continente ed ha
spesso agito in modo che i rapporti Stato e Chiesa
cattolica, fondati su Concordati o patti similari, garantissero non solo
diritti legittimi ma anche privilegi in contraddizione con quanto affermato dal
Concilio (Gaudium et Spes,76).
I laici cattolici, che nel Concilio Vaticano II avevano
riacquisito la dignità di “popolo sacerdotale, profetico e regale”, sono stati
degradati a “sudditi” nel Codice di Diritto Canonico emanato da Wojtyla (1983).
Essi sono indegni di leggere il Vangelo e commentarlo nelle celebrazioni
eucaristiche. Buoni, come diceva Yves Congar, per le tre P: “pregare, pagare,
piegare”, inginocchiandosi davanti all’autorità gerarchica. Coerentemente il
papa ha finito per privilegiare quei settori del laicato cattolico che hanno
mostrato una assoluta sudditanza verso la sua Cattedra, mentre non ha mancato
di far sentire la propria contrarietà verso quelli (Azione Cattolica, Comunità
di base, associazioni biblico-teologico-missionarie) che in vario modo hanno
rivendicato una propria autonomia. Lo stesso «Appello dal popolo di Dio»
promosso dall’ IMWAC (International Movement We Are Church) nel 1995-‘96
sottoscritto da due milioni e mezzo di cattolici che chiedevano una riforma
della Chiesa, è stato disapprovato.
E, sempre a proposito di proclamato rispetto per la
dignità e indipendenza di ogni Stato, molti osservatori hanno denunciato il
fatto che la Santa Sede, adducendo il principio della exstraterritorialità”, ha
impedito alle competenti autorità italiane di accertare le responsabilità di
mons. Paul Marcinkus, allora presidente dello Ior (la banca vaticana), nel clamoroso
crack del Banco Ambrosiano (anni 80).
n
La donna
Per la prima volta nella storia, papa Wojtyla ha
proceduto ad una parziale rilettura critica dei testi neotestamentari relativi
alle donne, elogiando il “genio femminile” e dedicando ad esse una lettera
apostolica sulla “dignità della donna” (Mulieris dignitatem, 1988). Il
documento è stato osteggiato dalla maggioranza delle teologhe cattoliche e dei
movimenti femministi, che hanno denunciato le gravi carenze teologiche,
bibliche e antropologiche del testo e le sue contraddizioni. Del resto, come
hanno rilevato le teologhe cattoliche, e come tutti hanno potuto constatare,
l’intero organigramma ecclesiastico è rimasto, sotto Wojtyla, più che mai
androcentrico. Tutti i posti-chiave della Curia romana sono rimasti saldamente
in mano ai maschi. Negli anni 80 una originale e pluriennale esperienza di ascolto reciproco tra le cattoliche
statunitensi e i rispettivi vescovi aveva cominciato a produrre una bozza di
documento assai interessante ed aperto, ma
la Curia papale interveniva per esigere che non si parlasse di
«uguaglianza nella condivisione e responsabilità», ma di «complementarietà»,
che si esplicitasse la condanna della contraccezione e che si escludesse dalla
discussione ogni riferimento al tema dell’ordinazione sacerdotale della donna.
A causa di tale interferenza sia le donne che i vescovi nordamericani
compresero che era inutile continuare il dialogo.
Del disagio delle donne si è fatta interprete, a nome di
un milione circa di suore, l’Unione Internazionale Superiore generali (Uisg),
che fece pervenire al Sinodo dei vescovi sulla vita religiosa un ferma
sollecitazione “per porre fine alla dicotomia spesso marcata tra le
dichiarazioni della Chiesa ufficiale circa la dignità della donna e la pratica
attuale di discriminazione, nonché per includere più completamente le donne
competenti nei processi di riflessione e nei ministeri ecclesiali, ivi comprese
le posizioni chiave nei dicasteri della Curia” (1994). Questa saggia e
rispettosa petizione non ha trovato alcun ascolto in Vaticano.
n La sessualità
Wojtyla ha ribadito con forza le
normative papali esistenti in materia, dal “si” alla vita e alla “legge
naturale”; al «no» alla contraccezione e al divieto alle nuove nozze in chiesa
dei divorziati cattolici risposati/e, al «no» all’esercizio della sessualità
nelle coppie di omosessuali, al «no» all’uso del preservativo in qualsiasi
situazione, anche per prevenire il contagio dell’AIDS. Masturbazione e rapporti
prematrimoniali sono stati considerati dal Catechismo del 1983 “peccati
mortali”.
Su
tutti questi punti Sinodi nazionali, vescovi, teologi e teologhe hanno espresso
riserve di ogni ordine, anche perché la prassi pastorale dimostrava ogni giorno
di più che le decisioni relative all’etica sessuale, anche di papi precedenti,
erano contrarie al sensus fidelium. La conseguenza – rilevata dagli
osservatori religiosi – è che tra il papa e la maggioranza dell’episcopato, del
clero e dei fedeli si è prodotto il più profondo e silenzioso scisma della
storia della Chiesa, con grave danno per lo stesso Magistero papale.
Analogo
discorso vale per il rapporto clero-sessualità. Wojtyla ha respinto ogni
ragionevole proposta di ridiscutere la fondatezza teologica e la validità
pratica della legge del celibato obbligatorio per i preti della Chiesa latina,
nonostante fosse noto che questi ultimi, in una percentuale alta – soprattutto
in certe regioni – non osservavano il voto o la promessa del celibato. A
fronte dell’esodo massiccio di sacerdoti negli ultimi 30 anni (80.000 circa
hanno abbandonato il ministero), al crescente invecchiamento del clero e alla
carenza di ministri consacrati nei paesi del terzo mondo, numerosi episcopati
hanno ripetutamente chiesto al papa di consentire l’esercizio del ministero a
ex preti, a uomini sposati, e persino a donne, specialmente religiose. Nessuna
delle richieste è stata esaudita.
Tre
scandali relativi alla vita sessuale del clero hanno scosso il pontificato di
Wojtyla, andando sulle pagine e TV di tutto il mondo.
Il
primo è venuto alla luce a seguito di documentate rivelazioni da parte di religiose, stanche di subire violenze
sessuali, non esenti da ricatti, da parte di sacerdoti, soprattutto in Africa.
Su questo problema nessun intervento significativo è stato fatto da Wojtyla.
Il
secondo è scoppiato negli USA, attizzato dalle richieste di indennizzi
miliardari da parte di migliaia di fedeli che erano stati violentati nella loro
adolescenza da sacerdoti pedofili. Di fronte al clamore mediatico il papa si è
visto obbligato a richiamare a Roma vescovi e cardinali nordamericani, alcuni
dei quali sono finiti sotto inchiesta da parte della magistratura per aver
deliberatamente coperto, nel corso di decenni, gli abusi sessuali compiuti da
centinaia di ecclesiastici.
Il terzo scandalo ha fatto seguito al
precedente: da anni si sapeva che molti appartenenti al clero erano persone
omosessuali e che la struttura dei seminari costituiva un richiamo per esse.
Questo problema, reale ma nascosto, è esploso alla luce del sole sotto il
pontificato di Wojtyla. In tale contesto, nel 2002 la Congregazione per il
culto divino ha emanato una normativa – giudicata “discriminatoria” dai gruppi
di omosessuali cristiani – in cui si definisce “sconsigliabile”, “imprudente” e
“rischiosa” l’ordinazione sacerdotale di omosessuali.
n Diritti umani
La figura di Giovanni Paolo II è indubbiamente associata alla difesa
dei diritti della persona umana nelle varie dimensioni sociali, economiche e
politiche. Sono assai numerose le occasioni in cui egli ha preso posizione nei
confronti dei poveri, degli emigranti, dei soggetti sfruttati e mal pagati,
soprattutto se bambini e donne, comunque sottoposti a leggi o governati che
violavano la dignità umana.
Questi
generosi appelli all’ottemperanza dei diritti fondamentali nella società non
hanno trovato però corrispondenza
all’interno della Chiesa romana, in cui vigono due opposti principi: uno
valido ad extra, per cui la società secolare deve concedere alla Chiesa il
diritto alla libertà religiosa; ed uno valido solo ad intra, per cui nella Chiesa “non si può fare appello a questi diritti dell’uomo per opporsi agli
interventi del magistero” (Istruzione sulla vocazione del teologo,
1990).
Questa
contraddizione spiega la situazione della Santa Sede, che si è venuta a trovare
nell’imbarazzante primato negativo riservato ai paesi segnati da dittature,
avendo sottoscritto solo 10 dei 103 accordi internazionali sui diritti umani
(Human Rights Law Journal). In particolare il papato romano non ha ancora
ratificato nessuna delle Convenzioni sulla soppressione delle discriminazioni
basate sul sesso, la libertà d’insegnamento, il giusto processo. Contrario ai
diritti umani è il meccanismo giudiziario, specialmente dell’ex Sant’Offizio,
che non prevede né una netta distinzione tra giudice e accusatore, né una
chiara e pubblica “lista delle accuse”, né una reale possibilità di appello.
La
Santa Sede non ha mai acconsentito a eliminare dal proprio ordinamento canonico
quella discriminazione, denunciata dal Concilio, che impedisce alle donne
cattoliche di accedere a qualsiasi responsabilità direttiva nella Curia. Il
Vaticano è peraltro restio a riconoscere i normali diritti “sindacali” ai
propri lavoratori (sacerdoti o religiose), in caso di licenziamento o
rimozione.
n I «mea culpa»
Soprattutto nei suoi viaggi internazionali, Giovanni Paolo II ha
espresso decine di «mea culpa» per comportamenti passati dei «figli della
Chiesa»: le Crociate, l’antisemitismo, l’Inquisizione, le guerre di religione,
l’invasione dell’America nel nome della «vera religione», le guerre in nome di
Dio, lo schiavismo, l’oppressione di interi popoli.
Il 12 marzo 2000 Wojtyla, con cardinali
ed alti dirigenti delle Curia romana, ha celebrato la “giornata del perdono”,
con l’ammissione di sette «confessioni di colpe» commesse dai “figli della
Chiesa”; nel servizio della verità; nei rapporti con Israele; nei comportamenti
contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e
delle religioni; in atti che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del
genere umano; con peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona.
Questo
gesto non ha portato però l’intera Chiesa romana ad interrogarsi sulle ragioni
di fondo di quei peccati che si sono protratti per secoli, senza che teologi,
vescovi e papi li avessero riconosciuti come contrari sia ai diritti
fondamentali della persona umana che al Vangelo.
Seppur
contraddittorio il “mea culpa” di
Wojtyla ha comunque sollecitato anche episcopati nazionali ad intraprendere la
stessa strada.
n Santi e Beati
Desideroso di dare visibilità alla
santità della Chiesa cattolica, macchiata da scandali, contraddizioni e
lacerazioni, Wojtyla ha provveduto a
proclamare più santi e beati (circa 1800) di quelli fatti nell’insieme da tutti
i papi degli ultimi quattro secoli.
Tale
politica “inflazionistica” ha lasciato perplessi molti, cattolici e non, data
la procedura segreta, costosa e teologicamente ambigua del riconoscimento
stesso della santità, quasi sempre legata ad uno stato non matrimoniale. In
altri casi l’ambiguità è stata del tutto evidente, come quando il 3 settembre
2000 Giovanni Paolo II ha voluto beatificare insieme due papi, Pio IX e
Giovanni XXIII: l’uno che definì “deliramento” il principio della libertà
religiosa e l’altro che volle un Concilio perché proclamasse anche questo
intangibile principio. Pio IX aveva poi oggettivamente sostenuto quelle
violenze contro gli ebrei di cui pure Wojtyla aveva chiesto perdono solamente
sei mesi prima.
Molti cattolici hanno criticato il papa
per aver egli beatificato e canonizzato
a tempo di record Josemaria Escrivá de Balaguer (morto nel 1975), fondatore
dell’Opus Dei, istituzione ricca, potente e per molti aspetti segreta, e
sostenitore del regime franchista; mentre nel contempo ha lasciato nel cassetto
la causa di beatificazione di mons. Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San
Salvador, accanito difensore dei poveri e martire della giustizia, assassinato
da una dittatura militare (1980).
Anche
l’eccessiva enfasi posta da Wojtyla sul culto mariano, ha spesso incoraggiato –
al di là delle intenzioni – gli aspetti
meno evangelici della religiosità popolare e creato difficoltà nel cammino
ecumenico.
n I viaggi
Papa Wojtyla ha compiuto 102 viaggi
internazionali, toccando tutti i continenti. Questi viaggi hanno messo in
evidenza, in modo paradigmatico, la sua audacia nel proporre il messaggio
evangelico anche in paesi non cattolici e nell’affrontare grandi fatiche,
soprattutto con il progredire dell’età e di vari malanni fisici. Ha certamente
avuto modo di verificare e denunciare spesso l’entità della miseria e
dell’ingiustizia di fronte a masse di poveri costretti a vivere in immense
baraccopoli e senza servizi essenziali.
E
tuttavia tali viaggi sono stati oggetto di malumori e critiche all’interno
della Chiesa cattolica per molte ragioni: mentre il papa enfatizzava il suo
ruolo di pellegrino in visita ad una comunità, di fatto era ricevuto (perché
tale era) come capo di stato, con i dovuti onori militari. Il costo delle
manifestazioni di massa ricadeva sulla Chiesa locale, o su ambigue
collaborazioni con multinazionali. Il tempo e le occasioni per conoscere la
realtà della Chiesa locale e per interloquire con i fedeli era ridotto
praticamente a zero. Capi di stato hanno fatto a gara per averlo al loro fianco
e apparire come devoti fedeli davanti ai propri concittadini, non sempre
entusiasti per tale complicità. Scandalosa, in particolare, è apparsa l’intesa
sorridente tra il papa e il generale golpista e assassino Augusto Pinochet dal balcone
del palazzo presidenziale di Santiago del Cile (1987).
n I media
Wojtyla ha compreso l’importanza dei
media per imporsi all’attenzione del mondo e diventare una specie di
“star” internazionale. E’ innegabile
che attraverso l’uso dei media, in particolare della TV, di facile comprensione
per i settori meno istruiti, Giovanni Paolo II ha avuto la possibilità di
sottolineare con forza valori universali, diffondere la Buona Novella e
introdurre tante persone alla solennità di celebrazioni liturgiche, anche di
massa.
Tuttavia,
nel privilegiare l’uso quasi quotidiano della TV per ogni tipo di udienza,
messe, rosari, pellegrinaggi, viaggi, incontri con capi di governo e
diplomatici, non poteva non cadere nelle trappole strutturali dello star
system, che ha un legame indissolubile,
anche di tipo mercantile, con l’intrattenimento, non con l’evangelizzazione
e la cultura. In sostanza il papa,
affidandosi alla TV, non ha potuto evitare che la sua apparizione scivolasse
nello “spettacolo”, finalizzato alla seduzione e all’applauso, non alla
riflessione o al discernimento. Se lo “show” per sua natura illude e crea una
realtà virtuale e affascinante, anche lo spettacolo di moltitudini oranti o
plaudenti finiva per diventare ingannevole, dando la sensazione illusoria che
la Chiesa cattolica resisteva e superava la crisi imposta dalla
secolarizzazione dominante.
Di
conseguenza non meraviglia che nelle immagini televisive relative a Wojtyla,
che quasi quotidianamente le emittenti di tutto il mondo hanno diffuso, siano
scomparsi quasi completamente gli altri soggetti ecclesiali. Per 25 anni il
papa “ha rubato la scena”, con vescovi e cardinali nel ruolo muto di semplici
“comparse”. A miliardi di persone, di
fatto, il papa ha mandato un messaggio sub-liminàle così sintetizzabile: io sono
la Chiesa e la Chiesa è nulla senza di me.
Se lo
star system ha favorito la papolatria, il suo rovescio è stato l’oscuramento
del resto della Chiesa cattolica.
n Giustizia
Gli ammonimenti papali in difesa di poveri, emarginati, bambini ridotti
in schiavitù, donne discriminate, anziani abbandonati potrebbero formare una
enciclopedia. Giovanni Paolo II ha parlato contro una globalizzazione in atto,
considerata “una forma di colonialismo” ed ha chiesto un “sussulto di moralità
di fronte ai drammatici problemi economici, sanitari, sociali”.
Ha definito “strutture di peccato”
il libero mercato e la globalizzazione selvaggia. Ha invitato tutti a
non rassegnarsi “a un mondo in cui altri esseri muoiono di fame, restano analfabeti,
mancano di lavoro”. A Santo Domingo ha invitato l’assemblea dei
vescovi latinoamericani a “rinnovare la scelta preferenziale dei poveri” e ad “evitare qualsiasi connivenza con i responsabili delle cause
della povertà” (1992).
Mentre il papa parlava in tal modo, le
statistiche indicavano impietosamente che i ricchi diventavano sempre più
ricchi e i poveri sempre più poveri; che le 15 più grandi imprese avevano un
reddito lordo che superava il PIL di 120 paesi; che il 75% della popolazione
mondiale utilizzava solo il 15% dei farmaci (l’Africa appena l’1%); che ogni
vacca europea godeva di un sussidio statale di 2 euro al giorno, pari alla
somma con cui quotidianamente viveva ogni persona della massa dei due miliardi
di poveri della popolazione mondiale.
Se negli ultimi due decenni l’ingiustizia
planetaria ha assunto un tono quasi tragico; se 86 paesi, nel 1996, stavano
peggio di 10 anni prima, ciò ovviamente non poteva essere attribuito al papato
romano, predicatore della giustizia. Resta il fatto che milioni di baraccati,
di assetati, di affamati, di malati, di disoccupati non hanno trovato nel papa
romano un referente da cui partissero – come era accaduto per questioni come
l’aborto o il controllo demografico (Conferenze del Cairo e di Pechino) –
concrete campagne religiose, seri interventi diplomatici, severe ammonizioni ai
politici, tenaci pressioni sui vescovi, per analizzare le cause e ad impostare
terapie atte a contenere l’ingiustizia devastante.
Poveri e animatori di organizzazioni
sociali si sono chiesti come mai i telegiornali riferissero delle udienze che
il papa riservava a capi di stato, campioni dello sport, ricchi epuloni;
mostrando ben raramente il pontefice seduto attorno ad un tavolo con dirigenti
delle organizzazioni contadine, con i sindacati di multinazionali schiaviste,
con le vittime della repressione politica. Né il papa ha mai partecipato, e
neanche ha mai espressamente incoraggiato i “forum” sociali mondiali o
continentali nei quali, dal 2000 in poi, centinaia di migliaia di persone di
buona volontà si sono incontrati
pacificamente, convinti che “un altro mondo è possibile”.
n Pace e ordine internazionale
Wojtyla ha predicato
instancabilmente la pace ed ha sempre difeso il ruolo insostituibile dell’Onu e
la sua funzione “mediatrice” per risolvere con la diplomazia e la trattativa,
evitando la guerra, eventuali conflitti tra nazioni. Egli ha certamente
favorito la caduta incruenta e pacifica del comunismo nei paesi est-europei
attraverso vari viaggi “missionari” nella nativa Polonia e aiutando, moralmente
ed economicamente, il sindacato polacco
Solidarnosc (anche attraverso finanziamenti concordati con il presidente USA,
Ronald Reagan).
Negli anni Novanta la Santa Sede ha
favorito la dissoluzione della ex Jugoslavia, approvando con straordinaria
rapidità l’autoproclamazione d’indipendenza della Slovenia e della Croazia
(1992), ma sottovalutando i rischi che
i nazionalismi avrebbero innescato nei Balcani dopo lo sgretolamento selvaggio
della Jugoslavia.
La voce di Wojtyla
si è levata con puntualità e passione in occasione delle numerose guerre che
hanno devastato diverse aree del globo, invocando talora – come nel Kosovo –
l’intervento militare umanitario per superare i conflitti più intricati.
Inflessibile è stato il “no” di Wojtyla alle iniziative di guerra senza l’avallo ONU, come nel
caso della guerra in Iraq (2003), quando contestò
la legittimità morale della «guerra preventiva» anglo-americana. Nel
marzo-aprile del 2003 – prima, e durante la guerra di George W. Bush contro
l’Iraq – le parole di denuncia del papa
hanno dato speranza a molti e molte impegnati per la pace.
Molto
problematica risulta la valutazione dell’operato papale relativo al nuovo
assetto conseguente alla caduta dell’impero sovietico, da lui patrocinata,
senza che esistessero le premesse per un nuovo ordine internazionale libero da
potenze dominanti. La politica papale, di fatto, e malgrado esplicite
affermazioni verbali in contrario, ha lasciato campo libero all’egemonia
statunitense in ogni settore, apparendo dunque in “contiguità di interessi” con
i poteri forti legati alla Casa Bianca, e perciò con l’impero. Di fronte
all’avanzata inarrestabile del capitalismo Wojtyla si è limitato a condannare
gli “eccessi” di questo sistema, ma non la loro “radice”, senza impegnare
adeguatamente la comunità cattolica nella riduzione
delle abissali diseguaglianze sociali, soprattutto tra Nord/Sud, nel
contenimento della violenza e nella salvaguardia del creato.
In questa obiettiva “convergenza” vi sono
state delle variazioni importanti: il papa ha censurato espressamente le leggi
relative alla contraccezione e all’aborto, varate dal governo americano del
“progressista” Bill Clinton, ma ha evitato di condannare con la stessa
chiarezza quello “conservatore” di George W. Bush, nonostante questi abbia dichiarato di voler “agire senza l’accordo di organismi internazionali”, e di considerare come propria missione
quella di “liberare il mondo dal male” e “la
guerra non come un pericolo ma come una opportunità per portare ovunque la
libertà, il diritto e la giustizia”.
Seppure qualche volta Wojtyla ha levato la voce contro la “corsa agli
armamenti”, questa protesta in realtà è stata flebile e non è mai giunta ad una
opposizione esplicita del complesso finanziario-industrial-militare, la cui
enorme potenza impedisce di giungere ad un nuovo ordine mondiale senza eserciti
“nazionali”, e, conseguentemente, di dirottare le risorse finanziarie verso i
bisogni primari di miliardi di indigenti.
Un papato più “di
parte” che “d’insieme”
Pur consapevoli delle difficoltà
di un giudizio globale in tempi così ravvicinati, la somma dei fatti e degli
scritti di Giovanni Paolo II ci inducono, comunque, ad affermare che il suo
pontificato sia stato più “romano” che “cattolico”.
A noi sembra infatti che, al di là delle
virtù personali e della retta intenzione, la tendenza complessiva del magistero
e dell’azione di papa Wojtyla sia stata quella di privilegiare “la parte”
piuttosto che “l’insieme”.
La filosofia e la teologia di Giovanni
Paolo II si sono saldamente basate sulla sua tradizione polacca (una “parte”
degna di tutto rispetto), ma non hanno potuto integrare “l’insieme” delle
correnti innovative: di qui il conflitto con il pensiero laico, le religioni
non cristiane, le Chiese non cattoliche e le teologie non tradizionaliste.
Sul piano etico il papa ha posto
l’accento sull’importanza della legge naturale, sottovalutando, però, il fatto
che ogni giudizio etico non può prescindere né dalla storicizzazione di tale
“legge”, che per molti aspetti è legata alle cangianti culture dei popoli, né
dal giudizio ultimo della coscienza personale.
In politica Wojtyla è stato fiero avversario del comunismo
e, in parte, del capitalismo. Ma questo sforzo di “equilibrio” non ha retto
alla prova dei fatti perché, caduto l’impero sovietico, “l’insieme” mondiale si
è sbilanciato completamente verso “la parte” capitalista – altrettanto inumana
ed atea – a tal punto che la Casa Bianca ha deciso di iniziare una guerra
“infinita” senza chiedere il permesso a nessuno.
Ma dove risulta ancor più macroscopico l’accecamento per
“la parte” a detrimento de “l’insieme” è nella gestione ecclesiale: qui è
risultata pressoché assente l’integrazione tra il centralismo papale e la
collegialità episcopale; tra Gerarchia e popolo di Dio; tra la ricchezza celibataria
e quella matrimoniale; tra la specificità
maschile e quella femminile.
Anche leader religiosi non cattolici e
molte persone nel mondo riconoscono in Giovanni Paolo II il rappresentante di
una religione ammirevole per molti aspetti, ma che si è presentata nei fatti
più esclusiva che inclusiva, più monarchica che democratica, più occidentale
che universale, più romana che cattolica.
Noi Siamo Chiesa- Italia
(aderente all’International Movement We
Are Church-IMWAC)
Roma, 9 aprile
2005
“Noi Siamo Chiesa”
Internet : www.we-are-church.org/it
Email :vi.bel@iol.it
Tel. 00390270602370
Cell. 3331309765