LETTERA
A MONSIGNOR ETEROVIC,
SEGRETARIO
GENERALE DEL SINODO
Nikola
Eterovic,
Segretario
generale del Sinodo dei vescovi
Città
del Vaticano
Roma,
30 dicembre 2004
Reverendo
nella “presentazione” dei Lineamenta [le prime “bozze”, datate 25 febbraio 2004]in vista
dell’undecima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, che si
svolgerà in Vaticano nell’ottobre del 2005 sul tema dell’Eucaristia, il Suo
predecessore, il card. Jan Pieter Schotte, oltre che gli organismi aventi
diritto, invita “anche tutte le componenti della Chiesa a offrire il loro
contributo, affinché le risposte al Questionario
[le brevi domande poste in fondo al testo preparatorio] siano complete e
significative per permettere un fruttuoso lavoro sinodale”. Le risposte attese
entro e non oltre il dicembre 2004, sarebbero servite per preparare l’Instrumentum laboris, le “seconde
bozze”, e cioè il testo-base dal quale partirà poi il dibattito sinodale.
Come la nostra Comunità fece in analoghe occasioni – ad
esempio in vista del Sinodo sulla famiglia (1980), o sulla penitenza (1983) –
anche questa volta desidera dare un contributo al comune lavoro, partendo dalla
sua esperienza concreta: infatti, fin da quando, oltre trent’anni fa, la
Comunità è nata, la celebrazione dell’Eucaristia è stata il momento
fondamentale aggregante del sentire e pensare insieme in assemblea nel “giorno
del Signore”. Essa è ben consapevole, naturalmente, di essere solo una
piccolissima realtà ecclesiale; ma ritiene comunque di avere il diritto-dovere
di esprimersi anche pubblicamente sui problemi della Chiesa cattolica romana.
Per tale motivo noi pubblicheremo, tra qualche tempo, le
riflessioni che ora inviamo a Lei. La materia del Sinodo, infatti, non è una
questione privata, e la nostra corrispondenza non ha carattere personale, ma
ecclesiale. Di più: a noi pare che sarebbe bellissimo ed arricchente se tutti i
contributi per il Sinodo, inviati dalle varie comunità ed istanze cattoliche
del mondo intero, fossero al più presto resi noti, in modo da favorire uno
“scambio di doni” – di idee, di proposte – partecipato e corale.
Il Sinodo, questioni di metodo e di merito
Prima di esporre le nostre riflessioni sull’Eucaristia in
sé, vorremmo però dire una parola sui problemi di merito e di metodo sollevati
dal tema e dal Sinodo. La “presentazione” dei Lineamenta delimita rigidamente l’àmbito entro il quale si muove il
testo, e di conseguenza l’àmbito in cui dovrebbero muoversi le risposte ad esso
e, poi, la prossima Assemblea sinodale: si chiedono pareri solo sulle implicazioni pastorali dell’Eucaristia,
escludendo un dibattito sui cruciali temi biblici e teologici, in quanto già
trattati nell’ultima enciclica papale Ecclesia
de Eucharistia (17 aprile 2003).
In tale situazione grande è il rischio che l’Assemblea
sinodale si limiti a ripetere semplicemente l’insegnamento del documento
pontificio. Se così fosse, non si comprenderebbe il senso del prossimo Sinodo.
Altra sarebbe potuta essere la prospettiva, partendo dall’attuazione della
collegialità episcopale evidenziata dal Concilio Vaticano II: questa sarebbe
infatti esaltata se, su temi importanti – come appunto l’Eucaristia –
affermazioni e normative sgorgassero da un dialogo di papa e vescovi che
insieme studiano e deliberano avendo ascoltato il “sentire” di tutto il “popolo
di Dio” sparso nelle Chiese locali.
È pur vero che, quasi prevenendo l’obiezione, il card.
Schotte precisa che “l’assemblea sinodale ha scopi consultivi e questa volta i
vescovi non sono convocati dal Papa perché diano suggerimenti in vista di
interventi dottrinali”, ma solo perché evidenzino “le implicazioni pastorali
dell’Eu-caristia”. Ma la prassi “pastorale” non dipende forse da come prima si
sciolgono alcuni nodi biblici, teologici, storici ed ecumenici di fondo?
A parte tale questione di merito, l’affermazione del
cardinale apre indirettamente uno squarcio sul metodo: e cioè sul “chi è” del
Sinodo (nelle sue varie tipologie) in quanto tale, e sulla sua autorità. Il
“motu proprio” Apostolica sollicitudo con
cui Paolo VI, il 15 settembre 1965, lo istituiva, stabiliva che il Sinodo ha
carattere consultivo o, se il papa lo decida, “potestà deliberativa” (cf. Enchiridion Vaticanum=EV, II, 447). Così
conferma il can. 343 del Codice di Diritto canonico varato da Giovanni Paolo II
nel 1983.
Sappiamo, certo, che le venti Assemblee sinodali finora
convocate, sotto papa Montini e sotto papa Wojtyla, sono state tutte solo
“consultive”. Anzi, a partire dagli anni Ottanta il Vaticano ha iniziato, di
norma, a mantenere segrete le propositiones
– le proposte concrete con le quali i “padri”, al termine di un’Assemblea,
consegnano al pontefice i loro “desiderata”. L’insieme della Chiesa cattolica
romana, e perfino gli oltre quattromila cinquecento vescovi del mondo – a parte
i 150/200 che partecipano ad ogni Assemblea sinodale – non possono dunque
conoscere i “consigli” di quest’ultima al papa.
“Fare della Chiesa la
casa e la scuola della comunione”
Una tale paradossale situazione ferisce la coscienza
ecclesiale. Perfino dal Collegio cardinalizio, come si è visto nel Concistoro
straordinario del maggio 2001, si sono levate voci per chiedere maggiore
trasparenza e potere decisionale al Sinodo. E del resto, lo stesso Giovanni
Paolo II, nella Novo millennio ineunte –
la lettera apostolica con cui il 6 gennaio 2001concludeva il grande Giubileo
del Duemila – aveva scritto: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della
comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se
vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese
profonde del mondo” (n. 43). E, a proposito di collegialità episcopale: “Molto
si è fatto dal Concilio Vaticano II in poi per quanto riguarda la riforma della
Curia romana, l’organizzazione dei Sinodi, il funzionamento delle Conferenze
episcopali. Ma certamente molto resta da fare” (n. 44). E, ancora: “Gli spazi
della comunione vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, a ogni livello,
nel tessuto della vita di ciascuna Chiesa” (n. 45 – EV, XX, 85-88).
Alla luce di queste affermazioni, e se le parole hanno un
senso, la segretezza delle propositiones dei
Sinodi ci rimane inspiegabile. Tanto più quando, nelle esortazioni apostoliche
post-sinodali, il papa cita magari una parte di questa o quella “proposta” che
però nella sua interezza non è stata resa nota.
Ovviamente, anche un Sinodo dei vescovi rinnovato e
veramente deliberativo sarà solo un passo nella giusta direzione. Infatti, a
quarant’anni dal Vaticano II, purtroppo manca ancora nella Chiesa cattolica
romana un organismo – un vero Sinodo deliberativo, presieduto dal papa – in cui
siano rappresentate tutte le componenti di tale Chiesa, clero e laici, uomini e
donne, nella varietà dei loro carismi. Ma senza questo luogo e strumento sarà
difficile concretizzare quella dignità del “Popolo di Dio” di cui con tanta
passione ha parlato il Concilio, soprattutto nel capitolo secondo della Lumen gentium, la Costituzione dogmatica
del Vaticano II sulla Chiesa.
Gli stessi Lineamenta
affermano: “La grandezza e la bellezza della Chiesa cattolica consistono
proprio nel fatto che essa non rimane ferma ad un’epoca o a un millennio, ma
cresce, matura, penetra più profondamente il mistero, lo propone nelle verità
da credere e nelle liturgie da celebrare” (n. 16). Seppure il testo riferisca
queste parole alla comprensione della relazione Chiesa-Eucaristia, esse ci
sembrano perfettamente applicabili al crescere complessivo della coscienza
ecclesiale e alla continua riforma cui anche la Chiesa romana è chiamata, per
annunciare adeguatamente l’evan-gelo e per essere fedele al Signore.
Queste premesse ci sembravano necessarie prima di passare
ad esporre le nostre riflessioni, che non sono limitate a brevi risposte alle
brevi domande del Questionario,
perché ciò ci è sembrato riduttivo. Abbiamo invece preferito esporre – senza la
pretesa di esaurire o risolvere ogni problema! – quello che la nostra comunità,
partendo dalla sua “ortoprassi”, pensa dell’Eucaristia. Il titolo delle nostre
riflessioni – “Fate questo in memoria di
me”. Condividere il pane nell’Eucaristia e nella vita – già ne lascia
intravedere l’asse portante.
Concludendo, caro mons. Eterovic, Le porgiamo i
nostri piu cordiali auguri per il Suo impegnativo lavoro, esprimendo la
speranza che il prossimo Sinodo – per il modo con cui sarà preparato, composto
e realizzato – rappresenti davvero un “camminare insieme”, con ardimento, verso
una sempre maggior comprensione dell’Evangelo di Gesù.
La Comunità cristiana di base di San Paolo - Roma
“FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME”.
CONDIVIDERE IL PANE
NELL’EUCARISTIA E NELLA VITA
(Contributo al Sinodo dei
vescovi del 2005)
I/ IL CUORE PROFONDO DELL’EUCARISTIA
A – Il “sacrificio di
Cristo”, un concetto da interpretare
1/ La comprensione teologica dell’Eucaristia, con la sua
celebrazione concreta, deve misurarsi con molteplici aspetti teorici e pratici.
Soprattutto, bisogna tenere fermi due
capisaldi, diversi ma strettissimamente collegati: l’Eucaristia e la Parola.
Afferma infatti la Dei verbum, la
Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione approvata dal Vaticano II: “La
Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo di
Cristo stesso, non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di nutrirsi
del pane della vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo di
Cristo” (EV, I, 904). Non è però
facile raggiungere una tale alta e feconda sintesi; e giustamente il § 25 dei Lineamenta sottolinea che è necessario
“recuperare l’unità complessiva del mistero eucaristico”. Tuttavia a noi pare
che, nell’insieme, le “bozze” vaticane esasperino alcuni aspetti minimizzandone
o ignorandone invece altri.
2/ Il termine sacrificio
(o analogo: banchetto sacrificale, immolazione, vittima sacrificale…)
compare nei Lineamenta ben 66 volte.
Sappiamo bene che il Concilio di Trento (1545-63) ha lanciato l’anatema a chi
negasse che nella Messa si offre a Dio “un vero e proprio sacrificio”
(Denz.-Hüner., 37ª, 1750). Ma la categoria del sacrificio può davvero descrivere l’essenza della Messa? E, in
caso, in che senso? Ed è tale categoria che emerge primariamente dal Nuovo
Testamento? Tali domande, come le molte altre di queste nostre riflessioni, non
sono sorte, per noi, a tavolino, o da discussioni accademiche che non ci sono
proprie: ci sono venute dal parlare con la gente; dal conoscere gruppi e
comunità che, non solo in Italia, hanno riflettuto su tali temi; dal riflettere
insieme, domenica dopo domenica e nel nostro gruppo biblico, sull’Eucaristia;
dal tentativo di leggere le Scritture con le categorie (inevitabili, seppur
sempre da assumere criticamente) del nostro tempo. E, dunque, tali domande
evidenziano degli interrogativi che noi, in queste pagine, esprimiamo a voce
alta, naturalmente non presumendo di avere tutto chiaro e risposta per tutto,
né desiderando contrapporre una teologia dogmatica ad un’altra teologia
dogmatica, ma, anzi, sperando che il dialogo con altri ci aiuti a capire di più
e meglio. E, soprattutto, ci aiuti a vivere con maggior coerenza gli imperativi
evangelici.
3/ Nella mentalità di molti cristiani, il concetto di sacrificio rinvia – magari
inconsapevolmente – ad un Dio irato che, per perdonare i peccati dell’umanità e
salvarla, ha bisogno del sangue di suo Figlio: Gesù dunque sarebbe la vittima
che si immola per placare il Padre, e controbilanciare, con la sua passione e
morte, le iniquità del mondo. Infatti, nulla meno del sangue del Figlio –
secondo tale mentalità – poteva offrire a Dio riparazione adeguata e
sufficiente per i peccati di tutta l’umanità contro il Creatore.
4/ È vero che, per certi aspetti, anche dal Nuovo
Testamento (in particolare dalla Lettera agli Ebrei) emerge un tale concetto di
sacrificio, rilanciato poi con
particolare insistenza, nove secoli fa, da Anselmo di Aosta (+1109) e da molti
altri dopo di lui. Ma, in proposito, oggi gli esegeti ci ricordano la necessità
di tenere conto, nella lettura e interpretazione delle Scritture, della
mentalità degli “agiografi” (scrittori) che, anche per descrivere la vita e la
missione di Cristo, usarono categorie culturalmente gravate dalla mentalità del
loro tempo. E, ancora, dobbiamo essere consapevoli dei problemi complessi
legati al rapporto Rivelazione-Parola di Dio-Scritture-Responsabilità degli
“agiografi”, e alla varietà di interpretazioni che lungo la storia, e anche
oggi, nelle Chiese e, in particolare, nel mondo teologico, sono state date e si
danno a questo intreccio. Del resto, anche nella nostra comunità vi è, in
proposito, un pluralismo di posizioni.
5/ Se, tanto in ambiente ebraico che in ambiente
greco-romano, pur con le irriducibili differenze e le invalicabili
significazioni dei due casi, la gente poteva capire che cosa fosse sacrificio (sacrificio di animali nel
Tempio di Gerusalemme, sacrificio agli dèi nei templi pagani) oggi, ammaestrati
dalle scienze moderne e da una più raffinata sensibilità, noi diffidiamo di
questa parola. E, comunque, ci riesce difficile credere in un Dio che, per
placarsi, aveva bisogno del sangue di Gesù. Questo Dio tremendo ci appare del
tutto estraneo, e non credibile.
6/ Gesù è Gesù non perché è morto sul patibolo, e Dio non
ha fatto la pace con l’umanità semplicemente perché Gesù è morto sulla croce straziato
dai dolori. Gesù è Gesù perché è stato fedele fino alla fine alla sua missione,
e anche di fronte alla morte violenta – da lui non ricercata, ma subìta per la
prepotenza del potere politico e religioso – non è indietreggiato ma, con
coraggio esemplare, ha amato fino alla fine l’umanità. L’apostolo Paolo, del
resto, contrastando audacemente l’idea, allora comune, del sacrificio come offerta riparatrice a Dio, scrive che Gesù “è morto
per noi” (cf. Rm 5, 6-8); ed è
esattamente questo atto di fedeltà alla missione affidatagli e di amore per noi, di solidarietà con noi, che il
Padre ha gradito immensamente. D’altra parte, si deve ben rilevare che,
nell’ultima Sua cena, spezzando il pane, Gesù disse: “Questo è il mio corpo che
è dato per voi” (Lc 22, 19). Invece,
la formula della consacrazione usata in Italia dal clero, pur dopo la riforma
della Messa voluta dal Vaticano II, dice: “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”.
Quell’aggiunta, in sacrificio,
assente dal testo biblico, potrebbe essere intesa bene dalla gente, come
esplicativa del per noi nel senso
appena spiegato; ma anche, più probabilmente, potrebbe essere compresa come sacrificio compiuto per Dio, confermando
così i fedeli nel loro equivoco.
7/ Ribadiamolo: il Padre non ha inviato il “Figlio
prediletto” nel mondo perché finisse sulla croce: lo ha inviato per nostro
amore. E Gesù non è finito sulla croce per volontà del Padre, che non vuole mai
la violenza, ma è morto sul supplizio a causa della prepotenza umana. In tale
situazione, in cui è stato vittima innocente, Gesù non si è tirato indietro di
fronte al tradimento subìto e alla morte atroce incombente; ma, come dice
l’evangelo di Giovanni, “sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo
mondo al Padre, Gesù, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino
alla fine” (13, 1). E le imploranti parole del rabbi di Nazareth nell’orto
degli ulivi – “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Tuttavia non sia
fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 42) – non vanno intese, riteniamo,
come se Gesù chiedesse al Padre di non mandarLo alla morte ma, piuttosto, come
l’interrogativo che Egli si pone di fronte all’Altissimo che tace di fronte al
prevalere momentaneo, nella storia, delle ragioni della forza e della violenza contro
di Lui. Certo, questo “silenzio di Dio” è del tutto misterioso e
incomprensibile per la mente umana, come del resto ci è incomprensibile il Suo
silenzio di fronte alle tragedie incombenti sull’umanità e al grido delle
vittime, ieri e oggi. Gesù ci è di esempio supremo perché accettò questo
silenzio sconvolgente, e perché non perse la fede di fronte a questo Dio
apparentemente privo della proclamata onnipotenza.
8/ Se queste osservazioni sono fondate, a noi sembra che
occorra dunque usare con cautela la categoria del sacrificio, altrimenti si inducono nei fedeli immagini di Dio
assolutamente incoerenti. Andrebbe perciò abbandonata l’idea del “sacrificio
propiziatorio” di Cristo, immolantesi a Dio per salvarci dalla Sua ira; si
dovrebbe invece assumere, semmai, l’idea del “sacrificio solidale”, cioè del
darsi di Gesù, per amore, per noi e accanto a noi; andrebbe poi dismessa la
categoria del Cristo “vittima” del Padre, per sostituirla, piuttosto, con
quella di Cristo “vittima” di una congiura dei suoi nemici, mandato alla morte
non da Dio ma dagli uomini. Tale correzione di angolazione teologica rispetto
anche ad una pur lunga tradizione ecclesiastica non dovrebbe turbare. Infatti,
se ormai comunemente si usa il metodo storico-critico per interpretare le
Scritture (sul problema del sacrificio di Cristo, e su ogni altro), a molta
maggior ragione, ci sembra, un tale metodo potrebbe e dovrebbe essere usato per
“storicizzare” il Concilio di Trento e ogni altro documento papale e
conciliare.
9/ Abbandonando un certo armamentario teologico per tener
conto – come deve essere fatto – della mentalità e della cultura degli uomini e
delle donne dei nostri giorni (e, del resto, la Chiesa dei primi secoli non ha
forse tenuto in gran conto la cultura greco-romana, restandone assai fortemente
influenzata?) si perdono le scorze che racchiudono la fede, ma non certo la sua
linfa vitale. Fondamentale e perennemente valido per la fede cristiana è che
Dio ama gli uomini e li salva in Cristo. E il Verbo, come dice il Credo, “a causa di noi uomini, e a causa
della nostra salvezza è disceso dal cielo e si è incarnato nel seno della
Vergine Maria. Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, e poi resuscitò il
terzo giorno”. Le “spiegazioni” teologiche di tale mistero sono, appunto, fragili
tentativi di attingere il mistero, ma non la sua essenza. E, a riguardo del sacrificio, non va mai dimenticato che
il Credo non afferma solo che Gesù
“patì e fu crocifisso” ma, anche, che esso “resuscitò” (o, come spesso precisa
il Nuovo Testamento, “fu resuscitato dal Padre”). Dunque, la passione/morte di
Gesù non può mai essere disgiunta dalla Sua risurrezione. La croce, ormai, è
vuota, perché Cristo, il Vivente, è nella gloria immortale presso il Padre.
Ecco perché la celebrazione eucaristica va compresa sottolineando che essa,
insieme al “convivio”, è “memoriale”, “benedizione”, pegno della “vittoria
sulla morte”, “annuncio del glorioso ritorno del Signore”, “sorgente di vita
eterna”.
10/ La domanda decisiva che Gesù ci rivolge con
l’Eucaristia è, ci sembra, quel “Fate questo in memoria di me” che Lui lasciò,
come testamento, in quell’ultima Sua cena. Ove il questo non è semplicemente il mangiare il pane e il bere il vino
del calice, cioè un rito: il che è facilissimo da farsi. In effetti, lungo i
secoli, tiranni pur nominalmente cristiani non hanno sentito alcuna
contraddizione tra l’ac-costarsi alla comunione eucaristica e il mandare a
morte migliaia di persone; e, oggi, ricchi oppressori dei poveri fanno
tranquillamente la comunione, e facitori e sostenitori di guerre si accostano
senza rimorsi all’Eucaristia. Con il questo,
insomma, Gesù ci rivolge una domanda
radicale, e ci chiede una risposta altrettanto radicale: di vivere, come ha
vissuto Lui, una vita spesa per gli altri con amore, condivisione,
com-passione. In questa prospettiva, ci sembra, anche il concetto di sacrificio potrebbe sì, allora, essere
usato, purché inteso appunto come un invito a noi a “fare altrettanto” come
fece Gesù.
11/ Il problema del rapporto tra il “sacrificio” di
qualcosa a Dio e la coerenza della propria vita con il cuore del messaggio
rivelato percorre, come un filo rosso, le Scritture ebraiche e cristiane che,
ciascuna a suo modo e nel suo proprio contesto storico e teologico, ribadiscono
la insensatezza di pensare di cavarsela offrendo al Signore un sacrificio che
non comporti anche il mettere in conto il proprio ravvedimento e il proprio
impegno per condividere la sorte dei prediletti dell’Altissimo: i poveri, gli
oppressi, i derelitti.
12/ “Che m’importa dei vostri sacrifici [nel Tempio di
Gerusalemme] senza numero?”, dice il Signore. “Sono sazio degli olocausti di
montoni e del grasso dei giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri
io non lo gradisco… Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un
abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare
delitto e solennità… Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le
vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle
vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il
bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’or-fano,
difendete la causa della vedova”. Così, otto secoli prima di Gesù, proclama
Isaia (I, 10-17). Con queste parole taglienti il profeta disvela e respinge
sdegnato, come trucco miserabile, la pretesa di chi, scrupolosamente ligio a
tutti i precetti formali della sua religione, pensa di essere giusto di fronte
all’Eterno recitando le preghiere, frequentando le sacre liturgie, facendo nel
Tempio i prescritti sacrifici di animali ma, nel contempo, ignorando “gli
orfani e le vedove” (i più esposti alla sopraffazione, ai tempi del profeta).
13/ Paolo di Tarso – che ben conosceva le Scritture del
Primo Testamento – aveva forse in mente proprio il capitolo primo di Isaia (e
altri passi analoghi dei profeti d’Israele) quando, nella prima lettera ai
cristiani della città greca di Corinto, descrisse quello che è, e quello che
non è, “vera” Eucaristia. Ovviamente con tutte le differenze storiche e
teologiche del caso, il centro del discorso dell’apostolo sull’Eucaristia non è
infatti il sacrificio ma la condivisione, non idea vaga e romantica,
ma concretissima scelta vitale. Scrive l’apostolo: “Quando vi radunate insieme,
il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno, infatti, quando
partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, e
l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O
volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e far vergognare chi non ha
niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo. Io, infatti, ho
ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù,
nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo
spezzò e disse: ‘Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria
di me’. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo:
‘Questo calice è la nuova alleanza del mio sangue; fate questo, ogni volta che
ne bevete, in memoria di me’. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e
bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga.
Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore,
sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se
stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e
beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna.
È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero
sono morti” (11, 20-30).
14/ Da tale testo, straordinario per la sua incisività,
risulta lampante che l’Eucaristia come semplice rito, non accompagnata dalla
propria convinta adesione alla persona e al messaggio di Gesù, e dalla
decisione di condividere il proprio pane (la vita) con l’affamato, è pura
profanazione e beffa. Chi fa una tale scissione “mangia e beve la propria
condanna”: cioè – traducendo la frase nel linguaggio attuale della nostra
cultura – spiritualmente è “un morto che cammina”. Queste parole sono una scure
che pende su ogni celebrazione eucaristica: da quelle solenni in san Pietro
presiedute dal papa a quelle di una parrocchia sperduta nella savana; da quelle
al Fanar di Costantinopoli a quelle nella cattedrale dell’Assunzione al
Cremlino; da quelle a Wittenberg a quelle a Canterbury; da quelle a Gerusalemme
a quelle a Ginevra; da quelle dei movimenti carismatici a quelle in una piccola
comunità di base in Amazzonia o a Roma.
15/ Nel solco del discorso paolino si situa l’Evangelo
di Giovanni, scritto una cinquantina d’anni dopo la prima lettera ai Corinti.
Infatti, pur dilungandosi sull’ultima notte di Gesù molto più di Matteo, Marco
e Luca, il quarto evangelista non racconta affatto la “istituzione”
dell’Eucaristia (già presupposta nel discorso teologico del capitolo VI sul
“pane della vita”), ma la esplicita, narrando un episodio ignorato dai
“sinottici”: la lavanda dei piedi. Spiegandone il senso a un Pietro riottoso,
Gesù parla così: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri
piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni degli altri. Vi ho dato infatti
l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (13, 13-15). Il “fare
come Gesù”, per tenerne viva la memoria, è dunque, per Giovanni, il servirsi a
vicenda. Comandamento solenne e supremo per tutti i cristiani, e per tutte le
Chiese.
16/ Guardando l’amara realtà attuale, potremmo perciò
dire che il Nord del mondo abusivamente si autoproclama – come talora accade –
“cristiano” se, mentre tale si dice, celebra le sue Eucaristie sedendo pingue
alla mensa che schiaccia il Sud del mondo da lui impoverito. E, dunque, quando
non abbia intenzione di cambiare rotta, le sue Eucaristie sono sì verissime
ritualmente, ma falsissime spiritualmente. Quelle appunto di cui parlava Paolo,
e che determinano la nostra condanna. Perché l’Eucaristia è quasi un’ordalia
(se, con un ardita analogia, volessimo riportare all’oggi un’usanza del Medio
Evo, quando l’esito di una dura prova fisica veniva interpretato come il
giudizio di Dio, di assoluzione o di condanna, su di un accusato): l’Altissimo
nell’Eucaristia giudica nel profondo la verità della nostra vita. Il ricco
Epulone può celebrare in pompa magna tutte le Eucaristie che vuole; il Lazzaro
che ha lasciato alla porta del suo palazzo è, di fronte a Dio, la
contraddizione insanabile che rende l’Eucaristia sciagura per lui, il ricco che
non vuole ravvedersi. O, per dirla con Gustavo Gutierrez: “Senza un impegno
reale contro lo sfruttamento e l’aliena-zione e in favore di una società
solidale e giusta, la celebrazione eucaristica è un atto vuoto, che non può
dare nessun sostegno a chi vi partecipa… ‘Fare memoria’ di Cristo è più che
realizzare un gesto cultuale: è accettare di vivere sotto il segno della croce
e nella speranza della risurrezione, accettare il senso di una vita che arrivò
fino alla morte, per mano dei grandi di questo mondo, a dimostrazione di amore
per gli altri” (Teologia della
liberazione, Queriniana, Brescia 1973, pp. 263-264).O, ancora, notando con
Giulio Girardi: “Lo scandalo delle divisioni sta veramente nel fatto che le
Chiese non professano lo stesso Credo, o non invece nel fatto che gli
sfruttatori professano lo stesso Credo degli sfruttati, senza sentirsene
accusati? Che i ricchi condividono in chiesa l'Eucaristia con delle persone con
cui nella vita non condividono nulla?” (La
tunica lacerata, Borla, Roma 1986, p. 366).
17/ Per questo l’Eucaristia è invito perenne, a ogni
cristiano, al “ravvedimento”, alla metànoia
(conversione), tutte le volte che egli osi fare come i ricchi della
comunità di Corinto; e, alle Chiese, un monito incalzante alla continua riforma
fattuale e istituzionale per cancellare da esse ogni scelta/tradizione/legge
che, per quanto autorevole e amata, in realtà favorisca il proprio operare come
i ricchi di Corinto; e, in positivo, il proprio porsi, ogni giorno ripensato e
rinnovato, come Chiese, in stato di lavanda dei piedi del mondo.
18/ Per gli apostoli e per le prime generazioni
cristiane era impensabile domandarsi se segni eucaristici dovessero essere
sempre pane di frumento e vino di vite, essendo questi, per le civiltà
mediterranee e mediorientali, simbolo e realtà comuni e condivise di nutrimento
e di festa (ma bizantini e latini litigarono a lungo se il pane dovesse, o no,
essere fermentato). Né si posero la domanda, più tardi, i conquistatori europei
e i missionari, quando “esportarono” il Cristianesimo. Il dubbio è germinato
solo nei tempi più recenti, e nel Sud del mondo. Scrive Giovanni Franzoni in Farete riposare la terra. Lettera aperta per
un Giubileo possibile (Edup, Roma 1996): “L’assolutezza di un segno legato
ad una certa materia è davvero insita nella sostanza del comandamento di Gesù
nell’ultima Cena? Il dubbio ha fatto capolino… soprattutto in Africa. Il pane
di frumento e il vino – notava nel 1983 mons. Anselme Titianma Sanon, vescovo
cattolico di Bobo-Dioulasso, in Burkina Faso – non sono prodotti del nostro
paese; essi provengono dall’importazione e ‘sono il simbolo dei ricchi e dei
colonizzatori. Dunque, non segno di Gesù, del suo amore per i poveri, della sua
dedizione, ma segno dei potenti, dei volenti e dei conquistatori. Ed allora,
violiamo noi la volontà di Cristo se per celebrare l’Eucaristia usiamo i segni
che usa la nostra gente, povera, per mangiare insieme e per dare ospitalità?
Tutti i pani, come la manioca, che non siano di frumento, sono indegni del pane
eucaristico?’. E Sione Amanaki Havea, teologo di Suva (Isole Fiji), nel 1982
affermava: ‘Sono certo che se Gesù fosse nato sotto il cielo del Pacifico,
Egli, per la Cena, avrebbe usato la noce di cocco invece del pane e del vino.
Il frumento e la vite sono infatti sconosciuti ai nostri popoli, e non hanno
senso per essi. Il cocco è un albero della vita per i popoli del Pacifico. Dal
suo frutto vengono una polpa ed un succo, che significano per noi più che il
pane e il vino’. Queste voci dall’Africa e dal Pacifico ci aiutano ad intuire
che la inculturazione del messaggio
di Gesù nelle varie culture, soprattutto in quelle che noi europei abbiamo
cercato di schiacciare in nome di Dio, potrà approdare a creare sintesi fino ad
oggi impensabili, e nuovi modi di esprimere non solo la liturgia, ma anche il
complessivo porsi della Chiesa nell’organizzazio-ne dei suoi ministeri” (pp.
83-84).
19/ Anche sul modo
di celebrare l’Eucaristia, e cioè sui riti fastosi con cui, nel tempo, le
autorità ecclesiastiche hanno circondato, e ricoperto, fin quasi a renderla
irriconoscibile, la Cena del Signore, ci si deve interrogare partendo dal punto
di vista dei più umili. In proposito, citiamo da una “lettera aperta”
all’arcivescovo ambrosiano card. Dionigi Tettamanzi, pubblicata nell’ottobre scorso da don Angelo Casati su Come albero, il bollettino della sua
parrocchia milanese di San Giovanni in Laterano: “Non si può equivocare: il
gesto del pane [spezzato da Gesù nell’ultima Sua cena] era umile, era
silenzioso, era semplice. Ma parlava. Loro guardavano e capivano. Capivano
l’amore di Dio. In un pezzo di pane. Oggi per farlo vedere l’abbiamo
circondato, oserei dire assediato, di mille cose e la foresta non permette più
di intravedere il pane, di intravedere la cena, di intravedere il cuore. Siamo
ormai nella necessità di spiegare i segni, quando essi stessi di loro natura
dovrebbero significare. Il pane, confessiamolo, non lo si vede più. Non si vede
più la cena. Più volte – non so se capita anche a te nelle tue liturgie dentro
e fuori il Duomo – mi capita mentre celebro di sorprendermi a pensare e mi
prende, lo confesso, un brivido: che cosa è rimasto di quella cena, racconto dell’umiltà
di Dio? Non ti è mai capitato di pensare che gli uomini e le donne di oggi,
ritrovando quell’antico segno, sarebbero presi da emozione come quei discepoli
nella notte del tradimento? Prendila per una stranezza. Da tempo mi vado
chiedendo se, anziché aggiungere cose a cose nei riti, non sia l’ora, questa,
di incominciare pazientemente ma fermamente a scrostare dagli ispessimenti, dai
soffocamenti, dalle verniciature sovrapposte nel tempo, l’affresco. Perché di
affresco si tratta. L’affresco dell’amore incondizionato di Dio. E ritorni a
splendere il colore di questa incondizionatezza, l’incondi-zionatezza del pane.
Dato a Giuda che lo vendeva, a Pietro che lo rinnegava, ai discepoli sul punto
di fuggire. E lui a dire: ‘Fate questo in memoria di me’. Ripulire l’affresco,
proposta stravagante. E forse improponibile? Come ti guarderebbero i vescovi
tuoi colleghi se tu ti azzardassi a parlarne nelle sale prudenti della
Conferenza episcopale?”.
20/ Teologi e Concili molto hanno dibattuto, lungo la
storia, su come Gesù sia presente
nell’Eucaristia. Volendo inquadrare brevemente la questione, va ricordato che
tale domanda non attirò molta attenzione
nella Chiesa delle origini. Il problema, allora, non era tanto quello di
sciogliere un tale interrogativo, ma quello di essere coerenti con il
significato profondo dell’Eucaristia, nel senso spiegato da Paolo.
21/ Poi, poco alla volta, l’argomento fu affrontato e,
in proposito, si confrontarono due spiegazioni: “quella realistico-metabolica
che parla di un vero cambiamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue del
Signore, e quella piuttosto dinamico-spiritualista. Tutte e due tendono a farsi
valere nella controversia eucaristica del secolo nono ed anche più tardi”
(Bihlmeyer - Tüchle, Storia della chiesa,
Morcelliana, Brescia 1960, pag. 101). Ma la prima spiegazione prevalse dopo che
la gerarchia cattolica inventò la festa del Corpus
Domini. Tale festa fu organizzata per la prima volta nel 1246 a Liegi, in
Belgio. Poi nel 1263 – così si narra – accadde quello che fu chiamato il
“miracolo di Bolsena”: nella cittadina laziale un prete tedesco, pellegrino
verso Roma, celebrava messa dubitando, però della “transustanziazione”. E
allora – dice la tradizione – dall’ostia consacrata caddero delle gocce di
sangue sul corporale [panno di lino bianco sul quale il sacerdote all’altare
depone il calice e le ostie]. Papa Urbano IV, che allora si trovava nella vicina
città di Orvieto, credette al racconto e, perciò, nel 1264 estese allora a
tutta la Chiesa romana la festa del Corpus
Domini. È in tale clima che, favorita ufficialmente, si rafforza, fino a
diventare spesso prevaricante nella pietà popolare, l’adorazione dell’ostia, a
prescindere da ogni collegamento con la celebrazione eucaristica. Un tipo di
devozione che non ha mancato di suscitare perplessità in campo teologico
(perché la Scrittura non dice “prendete e adorate”, ma “prendete e mangiate”).
Nei tempi più recenti, poi, il Vaticano II non ha incoraggiato tale devozione,
perché mai la nomina espressamente, limitandosi, nella Costituzione sulla
liturgia, Sacrosanctum Concilium, a
“raccomandare i pii esercizi del popolo cristiano, purché siano conformi alle
leggi e alle norme della Chiesa” (EV,
I, 20).
22/ Rafforzando la spiegazione realistico-metabolica il
Concilio di Trento (Denz-Hüner. 37ª, 1642, 1651) confermò come dogma la
“transustanziazione”: dichiarò, cioè, che con la consacrazione del pane e del
vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del
corpo di Cristo, nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza
del suo sangue; e lanciò l’anatema contro chi lo negasse. E,
quindi, proclamò che “nel sacramento dell’Eucaristia è contenuto veramente,
realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue di Cristo”. Pochi anni prima,
nel 1530, nella Confessione di Augusta,
che raccoglie la fede dei luterani, questi avevano riconosciuto che nella Cena
del Signore “il corpo e il sangue di Cristo sono realmente presenti”, e
disapprovato “quanti insegnano diversamente” (Confessioni di fede delle Chiese cristiane, EDB, Bologna 1996, 39).
Proclamazione giudicata però insufficiente dal Tridentino che, incapsulato
nello schema filosofico aristotelico-tomista di “sostanza” e “accidente” (le
“specie eucaristiche”), trasformava una spiegazione teologica, la
”transustanziazione”, in dogma di fede; aprendo così, senza volerlo, un altro
problema: perché “pane” e “vino” non sono composti da un’unica “sostanza”, ma
da molte; dunque non hanno una “individualità”. E di fatto innescando – almeno
a livello di catechesi – una mentalità quasi magica o, per altro verso,
materialista e giuridicista, che vedeva Gesù discendere sull’altare nel momento
esatto in cui il sacerdote pronunciava le parole Questo è il mio corpo…, Questo
è il calice del mio sangue… Una tale mentalità ignorava (e ignora)
totalmente quella che i teologi orientali chiamano epìclesi, cioè l’invo-cazione allo Spirito santo perché con la sua
potenza renda l’Eucaristia, e cioè l’intera celebrazione, veramente tale.
23/ Anche un altro grande riformatore, Giovanni Calvino,
affrontò ripetutamente e dettagliatamente il problema dell’Eucaristia. Basti,
in proposito, citare la Confessione di
Ginevra, da lui approvata nel 1536: “La Cena di nostro Signore è un segno
mediante il quale, sotto il pane e il vino, Egli ci rappresenta la vera
comunione spirituale che noi abbiamo nel suo corpo e nel suo sangue”. Il testo
definiva poi la Messa cattolica “come un’idolatria condannata da Dio, sia in
quanto è considerata un sacrificio per la redenzione delle anime, sia perché in
essa il pane è considerato e adorato come Dio” (ibid., 1247).
24/ Per quasi mezzo millennio l’interpretazione biblica
e teologica dell’Eucaristia sarà motivo di aspra contesa tra Riforma e
Controriforma. Ma, abbandonando il tono polemico del Tridentino, il Concilio Vaticano II affrontò di nuovo il
tema, senza ribattere alle tesi dei “protestanti” ma, piuttosto, esponendo in positivo,
e molto sinteticamente, il suo pensiero. La Sacrosanctum
Concilium non usa la parola “transustanziazione” ma, al n. 7, afferma che
Cristo è presente “soprattutto sotto
le specie eucaristiche” (EV, I, 9).
Tuttavia, aggiunge, Egli “è presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto
che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua
parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra
Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, Lui che ha promesso:
‘Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro’ (Mt 18,
20)”. Aggiungiamo che, nello stesso paragrafo, il Concilio parla proprio di
“sacrificio della Messa”.
25/ La “dimenticanza” (non era ovviamente tale, ma una
precisa scelta teologica), al Vaticano II, del termine tecnico di
“transustanziazione”, provocò crescente risentimento nei settori cattolici
tradizionalisti, tanto più che negli stessi anni diversi teologi, mitteleuropei
soprattutto, spiegavano il mistero dell’Eucaristia come “transignificazione” o
“transfinalizzazione” del pane e del vino. Perciò il 3 settembre 1965 Paolo VI
intervenne con l’enciclica Mysterium
fidei ribadendo vigorosamente “il dogma della transustanziazione”
(Denz.-Hüner. 4410-4411).
26/ La posizione di papa Montini, ripresa da papa
Wojtyla, non ha però potuto chiudere il dibattito teologico. Le opinioni
differenti da quelle ufficiali sono così riassunte, in parole semplici, da
Franco Barbero, della Comunità di base di Pinerolo: “Mangiare il corpo e bere
il sangue di Gesù è un linguaggio simbolico davvero espressivo. Non significa
una nutrizione fisica e biologica, ma la possibilità di entrare in profonda
comunione di pensieri e di vita con Gesù, di esperimentare la sua presenza nel
nostro cammino in modo intimo e profondo. Corpo
e sangue esprimono simbolicamente
questo nutrire i nostri cuori del messaggio di Gesù, il nostro essere uniti a
lui come il tralcio e la vite. Quel pezzo di pane rimane pane; così pure il
vino. ‘Il problema – scrive il teologo cattolico Armido Rizzi (Attuale ricerca teologica sull’Eucaristia in
campo cattolico, in Comunità cristiane di base, Eucaristia: alienazione o liberazione?, Com-Nuovi Tempi ed., Roma
1982, p. 31) – è quello di vedere che significato ha, nel disegno di Dio, questo
pezzo di pane, anche se continua a restare un pezzo di pane’. Infatti ‘i
problemi attinenti al cambio di sostanza vengono a perdere di valore, di
rilevanza, e lasciano posto ai problemi attinenti al cambio di significato e di
finalità’ (Ibid.), e noi siamo rimandati alla prassi di Gesù che, dopo aver
ringraziato Dio, nella sua quotidianità spezzava il pane con i vicini e i
lontani, con i perduti, con pagani e prostitute. Dio, attraverso l’opera e il
messaggio di Gesù, non ha interesse a cambiare la sostanza del pane e del vino. Quello che deve cambiare è la sostanza della nostra vita. In questa
prospettiva – conclude Barbero – non esiste nessuna parola sacerdotale che
trasformi un pezzo di pane, ma ci si affida, come Gesù, all’amore e alla Parola
di Dio che può lentamente cambiare le nostre vite” (Adista, 7 giugno 2003, p. 15). Insomma, riassumendo queste idee,
l’Eucarestia può essere proficuamente intesa come segno efficace, tale cioè da
produrre effetti reali, nel senso che crea in noi misteriosamente, nel momento
in cui l’acco-gliamo, un “valore aggiunto” che ci sollecita a condividere la
nostra vita con gli altri. E questo è il vero “cambiamento di sostanza”!
E – Il consenso ecumenico di “Fede e Costituzione”
27/ Nel Consiglio Ecumenico delle Chiese, che raccoglie
tutta l’Ortodossia e moltissime Chiese anglicane, luterane, riformate e
“libere” (oggi, in totale, 342), vi è un organismo, “Fede e Costituzione”, che
studia appunto i problemi dottrinali che dividono le Chiese, offrendo a queste
le sue riflessioni per aiutarle a sciogliere problemi difficili. La Chiesa
cattolica romana, pur non essendo membro a pieno diritto del Cec, ha dodici
suoi teologi tra i 120 complessivi di “Fede e Costituzione”, con i quali
lavorano in piena parità.
28/ Ebbene, dopo anni di lavoro, nel gennaio 1982 “Fede
e Costituzione” ha approvato, a Lima, un importante documento su “Battesimo,
Eucaristia, Ministero”, detto BEM dalle iniziali dei tre temi. Sul controverso
problema del sacrificio il BEM
afferma: “L’Eucaristia è il memoriale di Cristo crocifisso e risorto, cioè il
segno vivo ed efficace del suo sacrificio, compiuto una volta per tutte sulla
croce e ancora operante in favore di tutta l’umanità… L’Eucaristia è anche
l’anticipazione della sua parousìa [il
glorioso ritorno alla fine dei tempi] e del regno finale… L’Eucaristia è il
memoriale di tutto ciò che Dio ha fatto per la salvezza del mondo”. Un
memoriale [anamnesis] possibile
“attraverso l’invio dello Spirito santo” (Enchiridion
oecumenicum, I, EDB, Bologna 1986, 3076-79). E quindi commenta: “È alla
luce del significato dell’Eucaristia come intercessione che si possono
comprendere i riferimenti all’Eucaristia come sacrificio propiziatorio fatti nell’àmbito della teologia
cattolica. Il senso è che c’è una sola espiazione, quello dell’unico sacrificio
della croce, reso operante nell’Eucaristia e presentato al Padre
nell’intercessione di Cristo e della Chiesa a favore di tutta l’umanità. Alla
luce della concezione biblica del memoriale, tutte le Chiese potrebbero rivedere
le vecchie controversie a proposito della nozione di sacrificio e approfondire la loro comprensione delle ragioni per le
quali tradizioni diverse hanno utilizzato oppure rigettato questo termine”
(Ibid., 3080).
29/ Precisato che “una corretta celebrazione
dell’Eu-caristia comprende la celebrazione della Parola”, il BEM prosegue: “Il
banchetto eucaristico è il sacramento del corpo e del sangue di Cristo, il
sacramento della presenza reale. Cristo
realizza in molteplici modi la sua promessa di essere sempre con i suoi, sino
alla fine del mondo. Ma il modo della presenza di Cristo nell’Eucaristia è
unico. Sul pane e sul vino dell’Eucaristia Gesù ha detto: ‘Questo è il mio
corpo… questo è il mio sangue’. Ciò che Cristo ha detto è vero, e questa verità
si compie ogni volta che l’Eucaristia viene celebrata. La Chiesa confessa la presenza reale, vivente e attiva di
Cristo nell’Eucaristia”. Quindi, il commento: “Molte Chiese credono che, per le
parole stesse di Gesù e per la potenza dello Spirito santo, il pane e il vino
dell’Eucaristia diventano, in una maniera reale benché misteriosa, il corpo e
il sangue del Cristo risorto, cioè del Cristo vivente, presente in tutta la sua
pienezza. Sotto i segni del pane e del vino, la realtà più profonda è l’essere
intero di Cristo, che viene a noi per nutrirci e trasformare tutto il nostro
essere. Altre Chiese, pur affermando una presenza reale di Cristo
nell’Eucaristia, non legano in modo così preciso questa presenza ai segni del
pane e del vino. Le Chiese debbono decidere se questa differenza può coesistere
con la convergenza formulata nel testo” (Ibid., 3084-86).
30/ Sintetizzando le convergenze/divergenze manifestate
nel BEM, si potrebbe affermare: tutte le Chiese credono che Cristo sia veramente presente nell’Eucaristia. Per
quanto riguarda invece le possibili spiegazioni teologiche, o fisiche, di come ciò avvenga, è lasciata libertà di
opinione. La Bibbia, infatti, non spiega il come;
dunque nessuna Chiesa potrebbe imporre come dogma
un’interpretazione magari legittima, però niente affatto obbligante secondo le
Scritture.
31/ Il modo con cui il BEM elabora la categoria di sacrificio risente, a nostro modesto
parere, di uno sforzo di “mediazione teologica” forse non perfettamente
riuscito. Riteniamo tuttavia consolante che, sul problema della presenza reale, le Chiese abbiano raggiunto un così alto consenso ecumenico,
cercando di distinguere quanto appartiene al deposito della fede da quanto è
parziale e limitata spiegazione di esso. D’altra parte ci rincresce però che,
dall’accordo di Lima, non siano state tratte conseguenze per sanare le
discordie tra le Chiese dovute anche ai loro diversi modi di spiegare la presenza
eucaristica. O, comunque, non ha tratto conseguenze, ufficialmente, la
Chiesa cattolica romana.
32/ Infatti, nella Ecclesia
de Eucharistia, per spiegare il mistero eucaristico il papa ripropone di
fatto la “transustanziazione” definita
dal Tridentino, lasciando cadere il suggerimento del BEM. Sulla stessa scia si mettono i Lineamenta e anche la Mane nobiscum Domine, la lettera
apostolica del 7 ottobre 2004 con la quale il pontefice ha indetto l’“Anno
dell’Eucaristia” (ottobre 2004/ottobre 2005).
A – L’ultima Cena di
Gesù: un convivio aperto
33/ Una lettura complessiva degli Evangeli mette in luce,
ci sembra, soprattutto queste caratteristiche di Gesù: annunciatore
dell’avvento del regno di un Padre misericordioso; operatore di segni, legati a
quell’annuncio, di liberazione dal peccato e dalle malattie; testimone di un amore indiscriminato e gratuito; uomo
che crede nella sua missione e che rimane fedele ad essa a costo di venire in
conflitto col potere politico e sacerdotale del suo tempo e per questo
risuscitato e glorificato dal Padre dopo la morte ignominiosa in croce. Gesù
non appare un sacrificatore quanto,
piuttosto, un sacrificato.
34/ Quando, in quell’ultima Sua cena, Gesù infine disse ai
convenuti “Fate questo in memoria di me”, lo disse a tutti i presenti. Ora, in
una cena pasquale ebraica – e Gesù era, e ci teneva ad essere, un ebreo
osservante – partecipava l’intera famiglia e, magari, famiglie amiche:
genitori, figli e figlie, nonni e nonne, zii e zie, cugini, conoscenti. Del
resto, anche oggi al Seder pasquale le
famiglie ebraiche si allargano, possibilmente, alla cerchia degli amici, e si
sta tutti insieme, dai bambini agli anziani.
35/ Vediamo più da vicino gli evangeli, considerato che -
ci avvertono molti esegeti - nel loro resoconto forse mescolano, come sembra
fare Luca, la narrazione dell’ultima cena di Gesù con la Cena in Sua memoria
celebrata dalle prime comunità cristiane. Matteo (26, 20) dice che Gesù fece
l’ultima sua cena “con i Dodici”; Luca (22, 14) parla di “apostoli”; Giovanni
(13, 5) di “discepoli”. Già tale diversità induce a pensare che quella di Gesù
non fu una cena “esclusiva” per e con i Dodici: e che, perciò, non solo ad essi
lasciò come testamento il “Fate questo in memoria di me”. Del resto, che
un’interpretazione “estensiva” sia più che probabile lo dimostrano il capitolo
14 di Marco, e il 24 di Luca. Quello di Marco, il vangelo più antico per
composizione, è particolarmente illuminante. Egli afferma che Gesù mandò due
suoi “discepoli” a preparare la “grande sala” (il Cenacolo!) della Pasqua,
nella casa di un innominato ma amico “padrone”, e che là Egli giunse poi la
sera “con i Dodici”. Quando Gesù parla del traditore, a chi gli chiede,
preoccupato, “Sono forse io?”, Egli dà un segnale: “Uno dei Dodici, colui che
intinge con me nel piatto”. La precisazione di Gesù si comprenderebbe con
difficoltà se nella sala non vi fossero state altre persone, oltre ai Dodici.
36/ Luca, al capitolo 24, narra la vicenda dei due
discepoli (uno si chiamava Cleopa, dunque non era uno dei Dodici) che, qualche
giorno dopo la morte di Gesù, in cammino da Gerusalemme verso il villaggio di
Emmaus incontrano il Signore risorto: essi però lo riconoscono solo dopo che
Gesù “a tavola con loro, disse la benedizione, spezzò il pane e lo diede loro.
Ed ecco si aprirono loro gli occhi”. Ma se all’ultima cena di Gesù erano
presenti solo i Dodici, come avrebbero potuto i due discepoli riconoscere Gesù
quando ripeté un gesto che essi non avevano visto?
B – Le donne nel
Cenacolo
37/ I Dodici, i “discepoli”… E le donne? Gli Evangeli, è
vero, non le nominano espressamente presenti all’ultima cena di Gesù. Ma,
nell’ambiente ebraico di allora, chi preparava la cena pasquale (e i pasti in
generale), se non le donne? È perciò praticamente certo che, quando Gesù disse
“Fate questo”, erano con lui anche donne; né è pensabile che, dopo che ebbero
servito, nel momento solenne Egli abbia pregato le donne di uscire perché stava
per “abilitare” solo uomini-maschi al “Fate questo” per il futuro.
38/ D’altronde, noi leggiamo (Luca, cap. 2) che a dodici
anni Gesù andò a Gerusalemme con i genitori. Ogni famiglia ebraica d’Israele
era tenuta, infatti, a “salire” al tempio di Gerusalemme, ogni anno, per
celebrare la Pasqua. Queste “salite” – con parenti e conoscenti, uomini e donne
– saranno rimaste ben impresse nella mente di Gesù, e a lui care. Anche per
questo è del tutto inverosimile che, volendo Egli, in un momento cruciale della
sua missione, celebrare la Pasqua ebraica, abbia deliberatamente escluso da
essa le donne.
39/ La tesi – tradizionale nella Chiesa romana (ma anche
nell’Ortodossia, seppure oggi, come tra i cattolici, con i dubbi di alcuni
teologi e teologhe; è stata invece abbandonata da decenni da gran parte delle
Chiese della Riforma) – che nel Cenacolo fossero presenti solo maschi è dunque
storicamente improbabile. Naturalmente a noi moderni, e soprattutto alle nostre
sorelle, spiace che gli Evangelisti abbiano omesso di citare espressamente la presenza delle donne all’ultima cena. Ma
trarre da questo silenzio le conclusioni apodittiche che ancor oggi ne trae il
magistero della Chiesa romana ci sembra quanto meno discutibile.
40/ Se, secondo la dottrina cattolica tradizionale,
all’Ultima Cena di Gesù erano presenti solo uomini, ciò significa di
conseguenza che, con il “Fate questo in memoria di me”, Egli creò i primi sacerdoti? Qui si apre una problematica
assai complessa, ardua storicamente e teologicamente. Non pretendiamo certo di
risolverla partendo dalla nostra piccola vicenda; ma non possiamo nemmeno
evitarla, anche perché essa è lo sfondo di tante esperienze di base, e di
proposte teologiche che, come molte e molti di noi, anche altri hanno potuto
constatare e ascoltare dall’Italia all’America Latina, dall’Africa al Nord
America. Parlarne ci sembra importante e corretto, naturalmente consapevoli di
non riuscire a sciogliere ogni nodo storico e teologico implicato, e del tutto
aperti ad accogliere che cosa, in merito, oggi lo Spirito dica alle Chiese.
41/ A
prescindere da riferimenti a sacerdoti pagani
(come in Atti 14, 13), il Nuovo Testamento lega la parola sacerdote solamente ed esclusivamente a Gesù; proclama Cristo unico e sommo sacerdote, Colui che compie e supera definitivamente il
sacerdozio di Melchisedek e anche quello di Aronne, fratello di Mosè, e quello
levitico del Tempio di Gerusalemme (ormai distrutto, comunque, quando viene
redatta la maggior parte degli scritti del Nuovo Testamento). Gesù – sempre
secondo i cristiani – è l’unico mediatore tra il mondo e il Padre. Non
vi sono più, non vi saranno più sacerdoti,
al di fuori di Lui. Potremmo anche dire: il sacerdozio di Cristo è “analogico”
rispetto a quello esercitato nel tempio di Gerusalemme; e, rispetto a quello di
Gesù, “analogico” è quello dei “sacerdoti” della Chiesa cattolica romana (e
ortodossa). Comunque, le Scritture cristiane parlano di discepoli, apostoli, profeti, ministri (=servitori), presbìteri (=anziani), diaconi (=aiutanti); mai di sacerdoti (preti). Il ministero (=servizio alla comunità) é
qualcosa di sostanzialmente diverso dal sacerdozio
(=mediazione necessaria tra l’uomo e Dio).
42/ Se il Nuovo
Testamento vede Gesù come la “via” che porta al Padre, come il “ponte” che
permette di raggiungere, nel Suo nome, l’Eterno e Ineffabile, e dunque in tale
senso lo proclama “sacerdote” e “pontefice”, Gesù non appartenne però al
sacerdozio legato al Tempio di Gerusalemme. Sotto tale aspetto Egli fu del
tutto “laico”. E tale radicale “laicità”, che connotò la Sua vita terrena, Egli
lasciò in eredità a coloro che avessero voluto ascoltare il suo Evangelo per
testimoniarlo coerentemente.
43/ Perché allora, malgrado la precisa testimonianza delle
Scritture cristiane, nel secondo secolo, forse anche in riferimento – nominale
– ad un ufficio del Primo Testamento ma cambiandogli significato, si cominciò a parlare di sacerdozio-sacerdoti? È possibile che le comunità cristiane siano state indotte a dare
a chi presiedeva l’Eucaristia, o guidava la comunità, il titolo che anche la
religione greco-romana dava a chi gestiva le cerimonie e i sacrifici nei
templi: sacerdos. E, a chi aveva
responsabilità più grandi, quello di epìskopos
(vescovo) – “sorvegliante”, nome preso dall’analogo delle strutture civili
romane. E, quello che poteva essere agli inizi solo un tentativo di
semplificazione lessicale, diventa poi un cambiamento davvero sostanziale
quando, nel IV secolo, il Cristianesimo – con un processo articolato che va da
Costantino a Teodosio – viene dapprima espressamente riconosciuto come
religione “lecita” e poi religione “obbligatoria” dell’impero romano. Perciò,
come logica conseguenza, chi non è cristiano (secondo la fede formulata nel 325
al primo Concilio ecumenico di Nicea) viene considerato nemico, al tempo
stesso, della Chiesa e dell’impero.
44/ Chiesa e impero – ambedue tentando di trarre il massimo
vantaggio religioso e/o politico dalla “sinergia” – hanno di fronte a sé il
compito difficile e urgente di far diventare cristiane le masse. L’idea
vincente è quella di trasferire nel e sul Cristianesimo tutte le forme
istituzionali, civili e cultuali possibili del tradizionale mondo civile e
religioso greco-romano: la basilica
(che di per sé era un palazzo deputato ad ospitare tribunali e mercati) diventa
la basilica-chiesa cristiana; il sacerdote pagano diventa il sacerdote cristiano; il pontifex pagano diventa il pontefice cristiano; la diocesi civile romana (amministrazione e
sorveglianza di un vasto territorio) ispira, in piccolo, la diocesi ecclesiastica. In alcuni casi,
pur nell’analogia, la differenza tra il significato pagano e quello cristiano
del termine, del compito o dell’istituzione era minima; in altri profondissima,
ma tale assoluta differenza, chiara ai teologi, era spesso ben poco evidente
agli abitanti dei pagi (i villaggi).
Comunque, in tutti i modi si cercava di facilitare il passaggio in massa della
gente, e il più dolcemente possibile, dalla religione avìta a quella “nuova”.
Così, senza scosse eccessive, il mondo (dell’impero romano) da pagano diventava
tutto cristiano.
45/ Il titolo, e la sostanza, di sacerdos, applicato poi
nei secoli al prete, ebbe una radicale contestazione da parte di Martin Lutero
che, sottolineando il sacerdozio comune
(=regale) di tutti i battezzati, attestato dalle Scritture cristiane (I Pt
2, 9), di fatto demoliva l’idea del sacerdote “mediatore necessario” tra Dio e
la singola persona, tra Dio e la comunità dei credenti; ma le obiezioni del
Riformatore furono, allora, respinte dal Concilio di Trento. Solo nei tempi più
recenti nella Chiesa cattolica romana, a livello ufficiale, si è cominciato a
diradare l’uso della parola sacerdos riferita
ai preti. Così il Vaticano II nel 1965 emanò un “Decreto sul ministero e la
vita dei presbìteri”, il Presbyterorum ordinis.
Non parla dunque, il Concilio, di “ministero dei sacerdoti” e di Sacerdotum ordinis. È vero che poi, nel
descrivere la sostanza del “ministero” presbiterale, il testo fa quasi una
equivalenza tra i due titoli, e tra i due concetti. Tuttavia ci pare che la scelta fatta delle parole manifesti un
qualche disagio a proposito del senso tradizionale di sacerdozio. Disagio comunque approfonditosi – anche in molti preti
– nel post-Concilio, seppure non giunto, per lo più, ad attingere i nodi
biblici di fondo della questione.
46/ Ovviamente, una disamina teologica su sacerdozio/sacerdoti non può ignorare
quanto, nel passato e oggi, moltissimi preti cattolici (come pope
russo-ortodossi o papas greci e
sacerdoti di tutte le Chiese orientali) hanno fatto, e fanno, per testimoniare
il vangelo nelle loro parrocchie, annunciare la Parola, invitare
all’Eucaristia, confortare i sofferenti, sacrificarsi – è il caso di dirlo –
per il bene della gente e soprattutto per le persone più escluse ed
abbandonate. Episodi spiacevolissimi (avvenuti soprattutto negli Usa, ma anche
in Europa e altrove) di violenze sessuali di preti contro minori non possono
assolutamente indurre a generalizzazioni ingiuste, anche se ci si deve
interrogare sul sistema della formazione seminaristica e sulle responsabilità
di quei vescovi che hanno tollerato tale scandalo.
47/ Lo zelo e l’impegno pastorale di tantissimi preti (e
pope e papas) è un tesoro prezioso per le Chiese. Riteniamo, tuttavia, che
proprio partendo da questo “capitale” si possa e si debba valutare più
accuratamente, dal punto di vista biblico, storico ed esegetico, e facendo
tesoro dell’ap-porto della Riforma, che cosa significhi “ministro” e quale il
suo ruolo nel contesto di una comunità cristiana ove tutti sono radicalmente eguali
per il battesimo e per tutti vale il sacerdozio
regale. È indubbio infatti che la crescente “clericalizzazione” della
Chiesa latina, e il progressivo formarsi – al di là della buona volontà del
singolo – di una “casta” sacerdotale, abbia creato una struttura oggettivamente
invadente, portato spesso i fedeli alla dismissione delle loro responsabilità,
depotenziato i carismi dei “laici”, atrofizzato le comunità. Ci pare dunque
che, in prospettiva, occorra un profondo ripensamento, teologico e pastorale, che
metta al centro la comunità più che il suo ministro. Un tale ripensamento è già
in atto, nella prassi, in molte esperienze di Chiese, anche nel Nord, ma
soprattutto nel Sud del mondo. E noi siamo convinti che questo “stile”
ecclesiale sarà un dono importante per la intera Ekklesìa. Perciò abbiamo fiducia che questa “ortoprassi” aiuterà
anche le Chiese del Nord a vivificare i ministeri ecclesiali lasciando perdere
scorze ormai rinsecchite del grande albero fiorito delle Chiese. Per ridare
senso, ancora una volta, alla lapidaria affermazione di Paolo ai Galati: “Tutti
voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati
battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né
greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna; poiché tutti
voi siete uno in Cristo Gesù” (3, 26-28). Se l’apostolo chiede di superare
contrapposizioni e divisioni apparentemente – allora – insuperabili, come si
potrebbe coerentemente introdurre poi nella Chiesa una insuperabile
“differenza” tra sacerdoti e laici?
48/ La citata prima lettera ai Corinti non parla di chi
avesse la “presidenza” dell’Eucaristia, né di “come” fosse scelto il
“presidente”. Non solo ignora, ovviamente, il sacerdote, ma anche il ministro
o l’anziano; il problema sembra non
interessare minimamente Paolo: forse proprio perché non esisteva, in sé, nessun problema di “presidenza”
o di “ordinazione”? Solo di una cosa l’apostolo appare preoccupato: che la
celebrazione comunitaria dell’Eucaristia non sia un rito vuoto, ma diventi
invece momento per decidersi, con e come Gesù,
a spezzare la propria vita per
gli altri.
49/ In molti scritti del Nuovo Testamento si parla di
“imposizione delle mani”: che significa? Negli evangeli è il gesto che Gesù
compie prima di guarire, o guarendo, un ammalato; non lo compie mai sugli
apostoli. Negli Atti e nelle Lettere l’imposizione delle mani serve per
implorare dal Cielo la guarigione degli ammalati, per invocare lo Spirito Santo
su una persona, per coronare una preghiera, per manifestare il compito pubblico
e specifico di qualcuno al servizio della comunità. Insomma, lo stesso gesto è
compiuto in situazioni diverse, ma sottolinea un identico movimento: una
trasmissione di energia spirituale, di speranza, di tensione, tra chi impone le
mani e chi riceve tale imposizione. Il tutto come dono dall’Alto.
50/ La prima lettera a Timoteo afferma: “Non trascurare
il dono spirituale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazioni di
profeti, con l’imposizione delle mani da parte del collegio di presbìteri” (4,
14). E, anche: “Se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro. Ma
bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta,
sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino,
non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia
dirigere bene le propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità,
perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della
Chiesa di Dio?” (3, 1-5).
51/ Da decenni, però, molti esegeti escludono che sia
proprio Paolo, anche se apparentemente sembra così, l’autore della I lettera a Timoteo – come della II allo
stesso personaggio, e poi di quella a Tito e la II ai Tessalonicesi, e cioè le
cosiddette “lettere pastorali”; come, assai probabilmente, non sono sue la
lettera agli Efesini e quella ai Colossesi (cf. Giuseppe Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane,
Cittadella, Assisi 1985, pp. 183-184). A queste conclusioni, per la I lettera a
Timoteo, gli studiosi arrivano analizzando lo stile, del tutto diverso da
quello delle lettere sicuramente di Paolo: I Tessalonicesi, Corinti I e II,
Galati, Filippesi, Filemone, Romani; e poi considerando alcuni riferimenti –
come il “collegio dei presbìteri” – che denoterebbe un’orga-nizzazione
ecclesiastica inesistente al tempo di Paolo, e formatasi solo all’alba del
secondo secolo. Chi sostiene questa tesi (da altri comunque contestata), pone
perciò la datazione di Timoteo I al 100/110 d. C., quando Paolo era morto da
una quarantina d’anni.
52/ Molti libri delle Scritture ebraiche e cristiane,
come è noto, non vengono più attribuite ai loro autori tradizionali: così, da
tanto tempo ormai, è pacifica acquisizione, per gli studiosi, che il Pentateuco
non sia stato scritto da Mosè, ma infine redatto sette-otto secoli dopo la sua
morte: e, per il Nuovo Testamento, basti dire, per limitarsi a Paolo, che
ancora nel IV secolo la Chiesa d’Occidente esitava ad attribuire all’apostolo
la lettera agli Ebrei, anche se poi gliela attribuì (ma oggi quasi nessuno
sostiene che autore di tale testo sia l’apostolo delle genti). Tali
disconoscimenti di “paternità” non inficiano – per i credenti ebrei e cristiani
– il fatto che i rispettivi libri sacri siano da considerarsi “rivelati” (anche
se variegate sono le spiegazioni sul senso e la portata di “rivelazione”);
tuttavia attribuire un libro biblico ad un autore o ad un altro, vissuto in
Palestina o altrove, in un secolo piuttosto che in un altro, cambia ovviamente
il modo di interpretare e di capire, nel suo significato storico e teologico,
un determinato libro delle Sacre Scritture.
53/ Ciò premesso, torniamo a… Timoteo. Intanto
osserviamo che, nella lettera, una delle qualità richieste per l’episcopato è che il candidato sia
sposato (“una sola volta”) e dimostri di saper ben guidare la sua famiglia
prima di pretendere di “sovrintendere” a una intera comunità ecclesiale.
Affermazioni così sensate e cristalline svuotano inesorabilmente, ci pare,
tutte le argomentazioni con le quali, da un millennio, la gerarchia della
Chiesa latina ribadisce come praticamente indissolubile il legame tra
sacerdozio e celibato. Ma, accennata e chiusa tale questione minore, torniamo
alla “imposizione delle mani”.
54/ Il gesto dell’imposizione delle mani, come abbiamo
visto, nei Vangeli non è legato al “sacerdozio”. D’altronde, proprio il modo
variegato con cui – dagli Atti, ai Corinti, a Timoteo – si organizzano le
comunità cristiane sembra evidenziare un dato, sempre più sottolineato da molti
esegeti: Gesù non aveva lasciato nessun comandamento, nessun “ordine” su come
avrebbe dovuto organizzarsi la Sua comunità dopo la Sua morte, salvo l’invito a
farsi servitori gli uni degli altri. Infatti, se un “modello” preciso di Chiesa
fosse stato da lui delineato, perché mai le prime comunità cristiane, e gli
stessi apostoli, scelsero prassi e modalità assai differenti per
l’organizzazione della comunità? Non sarebbero stati, esse ed essi, fedelissimi
nel realizzare la struttura decisa da Gesù? Dunque, affermano tali esegeti, fu,
ed è, grande responsabilità e grande grazia, della Chiesa, di ogni Chiesa,
trovare – a seconda dei tempi e dei luoghi – quelle strutture che meglio
permettano di rimanere fedeli all’Evan-gelo e testimoniarlo.
55/ Queste ultime tesi possono apparire assai distanti, a
prima vista, dalla dottrina ufficiale attuale della Chiesa cattolica romana,
che fa risalire all’esplicita volontà di Cristo l’istituzione del sacramento
dell’Ordine, poi storicamente sviluppatosi in episcopato, presbiterato,
diaconato. Tuttavia, a ben guardare, forse il fossato tra le tesi ufficiali
(che, del resto, hanno alle spalle una storia tribolata) e quelle dei
teologi/teologhe di avanguardia non è così profondo, ambedue ritenendo un
caposaldo per la Chiesa le parole di Gesù ai Dodici: “I capi delle nazioni, voi
lo sapete, dominano su di esse, e i grandi esercitano su di esse il potere. Non
così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi si farà
vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro
schiavo” (Mt 20, 25-27).
56/ A proposito di “modelli” è istruttivo riflettere sul
caso del tutto atipico di Paolo. Egli non era presente all’ultima cena di Gesù,
e dunque al “Fate questo…”; anzi, probabilmente
non conobbe mai Gesù, nella sua vita. Non fu dunque scelto dal Nazareno come
apostolo, o “ordinato” da qualcuno dei Dodici; tale divenne solo per un
intervento mistico del Signore. L’incipit
della lettera ai Galati è, in proposito, illuminante: “Paolo, apostolo non
da parte di uomini, né per mezzo di uomini, ma per mezzo di Gesù Cristo e di
Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti…”. Egli precisa di essere l’apostolo
dei “gentili” [i pagani] (Rom 11, 13) come Pietro lo è dei “circoncisi” [gli
ebrei] (Gal 2, 8). Ed è interessante notare che a Gerusalemme “Giacomo, Cefa e
Giovanni, ritenuti le colonne, riconoscendo la grazia conferitami, diedero a me
[Paolo] e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo
verso i pagani ed essi verso i circoncisi” (Gal 2, 9): dunque nessuna
imposizione delle mani, ma semplice stretta di mano – normale, seppur
pregnante, gesto di amicizia – pur di fronte ad una missione così impegnativa.
57/ La dottrina cattolica ufficiale sostiene che la
“materia” sacramentale degli ordini sacri “maggiori” (episcopato, presbiterato,
diaconato) è l’imposizione delle mani; e che attraverso tale imposizione si è
formata una catena ininterrotta che dagli apostoli è giunta fino a noi. Perciò
i vescovi sono chiamati “successori degli apostoli”. Se questa catena si
spezza, non vi è più “successione” e, dunque, in radice, non vi è più una
Chiesa autentica e piena. Di conseguenza, pur ammettendo che “nella Santa Cena
fanno memoria della morte e della risurrezione del Signore”, lo stesso Vaticano
II sottolinea che le Chiese e comunità ecclesiali nate dalla Riforma del secolo
XVI “non hanno conservato, specialmente per la mancanza del sacramento
dell’Ordine, la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico” (Unitatis redintegratio, n. 22, EV I, 567). Al contrario, precisa il
Concilio, le Chiese orientali (=ortodosse), “quantunque [da noi] separate,
hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il
Sacerdozio e l’Eucaristia” (Ibid.,
549).
58/ La questione, cruciale, dei ministeri non poteva
essere evitata nel dialogo ecumenico. E, infatti, il BEM l’affronta di petto. A
proposito di persone che “siano pubblicamente e in modo continuo responsabili
di evidenziare la fondamentale dipendenza della Chiesa da Gesù Cristo”, il
documento puntualizza: “Il ministero di tali persone, che da tempo assai antico
sono state ordinate, è costitutivo della vita e della testimonianza della
Chiesa” (Enchiridion oecumenicum, I,
3118). E commenta: “Peraltro, le forme concrete di ordinazione e ministero
ordinato hanno subìto un’evolu-zione nel corso di un complesso sviluppo
storico. Le Chiese devono dunque evitare di attribuire le loro forme
particolari di ministero ordinato direttamente alla volontà e all’istitu-zione
di Gesù Cristo” (Ibid., 3123).
59/ Poi, mentre ribadisce l’importanza della “successione
apostolica”, il testo nota: “In ragione delle particolari circostanze storiche
della Chiesa in espansione nei primi secoli, la successione dei vescovi divenne
uno dei modi, insieme con la trasmissione dell’Evangelo e la vita della
comunità, in cui trovò espressione la tradizione apostolica della Chiesa. Tale
successione fu compresa come servizio, simbolo e salvaguardia della continuità
della fede e della comunione apostoliche” (Ibid., 3157). E, ancora: “Le Chiese
che hanno una successione apostolica mediante l’episco-pato riconoscono sempre
di più che nelle Chiese che non hanno conservato la forma dell’episcopato
storico è stata conservata una continuità nella fede apostolica, nel culto e
nella missione”. Queste ultime, comunque, “non possono accettare nessuna
ipotesi in base alla quale il ministero esercitato nella loro tradizione
sarebbe invalido sino a quando non sia entrato in una linea [già] esistente di
successione episcopale” (Ibid., 3159-60).
60/ In controluce si intravede un aspro dibattito teologico
tra le Chiese cattolica romana e ortodosse da una parte, e quelle nate dalla
Riforma dall’altra. Secondo le prime, le Chiese protestanti (e anglicane e
“libere”) non hanno la successione apostolica in quanto non avrebbero un
episcopato valido; queste ultime, invece, rivendicano la pienezza della
“successione apostolica”, legata alla “continuità nella fede apostolica, nel
culto e nella missione”. Il contrasto tra le due interpretazioni è grande e,
lasciato irrisolto, impedisce l’unità visibile delle Chiese. Per superarlo,
molti non vedono altra strada se non quella di un reciproco riconoscimento
delle Chiese tra di loro. Non già, ovviamente, per un compromesso al ribasso
che distrugga il messaggio evangelico, ma nella consapevolezza che le une e le
altre, in modi differenti e con un’organizzazione ecclesiastica differente,
hanno conservato la fede degli apostoli. Ciò comporta che ogni Chiesa sappia
distinguere, nella sua proclamazione e nella sua organizzazione, tra ciò che è
volontà permanente di Gesù e quanto è un tentativo umano – legittimo, del tutto
indispensabile, ma potenzialmente mutabile – di tradurre qui e ora il messaggio
inesauribile dell’Evangelo.
61/ Nella Lumen
gentium (n. 8), il Vaticano II ha affermato che la Chiesa “una, santa,
cattolica e apostolica” proclamata nel “Credo” “sussiste nella [subsistit in] Chiesa cattolica, governata dal
successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui” (EV I, 305). Invece, fino a Pio XII la teologia romana ufficiale
affermava che la Chiesa proclamata nel “Credo” è [est] la Chiesa cattolica romana, e non semplicemente che sussiste in questa. Si trattava ben più
che di una sfumatura verbale: si proclamava la perfetta e piena equivalenza
Chiesa di Cristo=Chiesa cattolica romana.
62/ Intenso è stato, nel post-Concilio, il dibattito
teologico sul senso che la Lumen gentium intendesse
dare alla scelta del subsistit al
posto di est. Secondo vari teologi e
teologhe, sussiste potrebbe forse
significare che la Chiesa romana ha l’autocoscienza di essere una vera Chiesa, ma non la presunzione di
essere l’unica vera Chiesa
(potrebbero esserlo, almeno, dal suo punto di vista, anche le Chiese
ortodosse). In tale prospettiva, nessuna Chiesa dovrebbe tornare all’altra, ma tutte dovrebbero convergere verso Cristo. Ma a sbarrare questa strada il 6 agosto
2000 è intervenuto il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione
per la Dottrina della Fede – il dicastero vaticano che vigila sulla
“ortodossia” dei cattolici – con la dichiarazione Dominus Iesus (testo integrale in Adista del 18 settembre 2000, n. 64). In questa si dice che, con il sussiste, il Concilio affermò che la Chiesa di
Cristo “continua ad esistere solamente nella Chiesa cattolica”; inoltre, si
puntualizza che le Chiese che non hanno conservato l’episcopato e la genuina
sostanza del mistero eucaristico, “non sono Chiese in senso proprio”. Ovvero:
possono legittimamente chiamarsi Chiese anche quelle ortodosse, seppure manchi
loro qualcosa di sostanziale, non essendo in comunione con il successore di Pietro;
ma non quelle protestanti. Affermazione che sollevò un’ondata di critiche da
parte delle Chiese della Riforma.
63/ Per fortuita coincidenza, nello stesso mese di
agosto del 2000 anche il Concilio episcopale russo emanò un approfondito
documento (integrale in Regno-documenti, 5/2001) che esprime l’autocomprensione
teologica della Chiesa russa e anche delle Chiese “sorelle”. Esso afferma che
l’insie-me dell’Ortodossia è la
Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica” proclamata nel “Credo”; e –
conseguenza logica – che ad essersi purtroppo “separate” e “staccate” dalla
“vera Chiesa di Cristo”, e cioè dalla Chiesa ortodossa, è stata la Chiesa
romana – e, dietro ad essa, le altre Chiese occidentali (cf. Confronti,
10/2000).
64/ La contesa teologica tra Roma e l’Ortodossia, come
tra Roma e le Chiese della Riforma sembra, allo stato dei fatti, insuperabile. Per fortuna esiste –
esisterebbe – il “luogo” teologico appropriato per comporla e, in generale, per
sanare la divisione storica tra le Chiese: un Concilio autenticamente universale, da molti negli anni recenti
auspicato, e negli anni Novanta sollecitato da Konrad Raiser, allora segretario
generale del Consiglio ecumenico delle Chiese. La caduta dei muri che dividono
le Chiese dovrebbe appunto essere coronata, in tale Concilio, dalla possibilità
di celebrare, tutti insieme, l’Eucaristia, come segno della ritrovata,
pacificata ed esplicita comunione tra le Chiese sorelle. Utopia? Certo, un tale
evento profetico non appare, per ora, all’orizzonte. Perciò noi uniamo le
nostre preghiere a quanti e quante implorano lo Spirito santo perché spazzi via
le nubi che oggi oscurano il cielo delle Chiese appesantite da secolari
inimicizie e, fecondando la buona volontà di tante e tanti cristiani, renda
presto possibile ciò che al momento sembra irrealizzabile. E, nel frattempo, ci
rallegriamo per quanti già ora sono impegnati per il “processo conciliare”:
cioè quelle iniziative e quella tensione ecclesiale (ma che guardi al mondo,
soprattutto all’impegno per la pace nella giustizia) che aprono dei “percorsi”
i quali, intrecciandosi, possono almeno indirettamente preparare e avvicinare
la grande meta. In tal senso, feconde sono state le Assemblee ecumeniche
europee di Basilea (1989), e di Graz (1997), anche se queste non si sono poste,
formalmente, nella prospettiva del futuro Concilio.
65/ A rendere ardua la via verso l’auspicato Concilio autenticamente universale e,
comunque, tra gli ostacoli gravi e complessi che impediscono la comunione
eucaristica fra tutte le Chiese, primeggia il contrasto sul ministero di unità
rivendicato dal vescovo di Roma: un ministero che, in dissonanza con le tesi
degli ortodossi e dei protestanti, la dottrina cattolica ufficiale non fa
derivare da contingenti circostanze storiche ma da una volontà esplicita e
permanente di Cristo per la sua Chiesa. Dunque, un ministero che, nella sua
radice e nella sua intima sostanza, è sottratto ad ogni “trattativa”.
66/ Citando il Vaticano II e l’enciclica Ecclesia de Eucharistia, i Lineamenta sottolineano che “la
comunione cattolica si esprime nei ‘vincoli’ della professione di fede, della
dottrina degli apostoli, dei sacramenti e dell’ordine gerarchico. Essa esige
quindi un contesto d’integrità dei legami anche esterni di comunione, in
special modo il Battesimo e l’Ordine. L’Eucaristia come sacramento è tra questi
vincoli necessari, ma perché sia visibilmente cattolica deve essere celebrata una
cum papa et episcopo [uniti al papa e al vescovo], princìpi di unità
visibile universale e particolare” (n. 19). Il paragrafo tocca problemi
difficili, importanti e assai discussi: tra questi vogliamo qui accennare, dal
punto di vista del dibattito ecumenico, al rapporto Eucaristia/vescovo di
Roma/co-munione cattolica.
67/ Le Chiese ortodosse, nel loro insieme, respingono
fermamente la tesi che alla loro Eucaristia – celebrata in stato di “non
comunione” con il vescovo di Roma – manchi qualcosa per essere pienamente il
sacramento creduto. L’Ortodossia, oltre a ritenere che sia stata la Chiesa
romana, e non essa, a staccarsi dalla “vera” Chiesa, rifiuta poi risolutamente
i dogmi del primato pontificio e dell’infallibilità papale proclamati nel 1870
dal Concilio Vaticano I. Gli ortodossi, insomma, non ritengono che il ruolo di
Pietro nel collegio apostolico si sia “trasmesso”, nel senso che lo intende
Roma, ai papi; e sottolineano che lo stesso capitolo XVI di Matteo apre una
dialettica sul ruolo di Pietro, proclamato “beato” per la sua fede, ma anche
“Satana” per la sua incredulità. E, venendo alla storia successiva, respingono
nettamente la tesi romana che il papa abbia di diritto una “potestà
[giurisdizionale] piena, suprema e universale su tutta la Chiesa” (Lumen gentium, n. 22; EV, I, 337). Per l’Ortodossia solo il
Concilio ecumenico è la massima autorità della Chiesa, cui tutti, vescovo di
Roma compreso, debbono obbedire. Nell’Ekumene,
per l’Ortodossia, il papa romano ha solo un “primato d’onore”.
68/ Analizzando le ragioni del contrasto
Roma-Ortodossia, cinquant’anni fa il teologo russo Nicolas Afanassieff rilevò
come, dal suo punto di vista, una difficoltà insormontabile fosse proprio il
rapporto primato papale/Eucaristia. Insistendo sulla priorità ontologica della
Chiesa “locale” rispetto all’astratta Chiesa “universale”, Afanassieff rileva
che il primato papale, così come anche giuridicamente rivendicato da Roma,
significherebbe la pretesa di una Chiesa di avere potere su un’altra Chiesa, e
dunque sul Corpo eucaristico di Cristo che è invece identico – uno e unico – in
ogni Chiesa “locale” celebrante la divina liturgia (cf. AA.VV., Il primato di Pietro, Il Mulino, Bologna
1965, pp. 487-555).
69/ È al di là delle nostre intenzioni (oltre che,
ovviamente, delle nostre forze) addentrarci in tutta la problematica biblica,
storica e teologica legata al “primato” di Pietro e a quello rivendicato dai
suoi “successori”. In proposito, possiamo solo augurarci che i dibattiti
intra-cattolici, ed ecumenici, arrivino ad una conclusione pacificamente
condivisa. Notiamo, tuttavia, che gli stessi Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno
riconosciuto che il papato, così come storicamente si è configurato e
potenziato, è uno dei massimi ostacoli alla riconciliazione tra le Chiese
cristiane. Perciò, nell’enciclica Ut unum
sint (1995) Karol Wojtyla ha arditamente osato dirsi disposto a rivedere i modi storici di esercizio del primato papale, purché rimanga integra la sostanza del primato del successore di
Pietro. I dieci anni successivi a quest’enciclica hanno però dimostrato la
difficoltà concreta di cambiare il modo
di esercizio del primato papale (si è infatti rafforzato il potere della
Curia romana nei confronti delle Chiese cattoliche nazionali o continentali); e
anche la difficoltà di Roma a rispondere alle obiezioni delle Chiese non
cattoliche sul ministero rivendicato dal suo vescovo.
70/ Forse solo nel futuro Concilio universale le Chiese potranno, insieme, trovare un accordo
su sostanza e modalità di esercizio del “ministero petrino” affidato al vescovo
di Roma – a servizio, appunto, della loro unità (e, dunque, come dono prezioso
per tutta l’Ekklesìa). Ma sarà arduo
raggiungere questo traguardo se, intanto, il papato non s’incamminerà sulla
strada, dolorosissima ma inevitabile, della spoliazione evangelica. Il papa è
tale, secondo la teologia cattolica ufficiale, perché è vescovo di Roma. Ma, di fatto, oggi in lui si assommano e
si concentrano molti altri titoli. Oltre a quello di “successore di Pietro”,
uno di essi – “sovrano della Città del Vaticano” – suscita particolare disagio.
Tale sovranità mondana (non è una questione di persone, ma di strutture) dà al
papa un potere e dei privilegi che nessun altro capo di Chiesa ha, o può avere.
Così il papa romano visita Paesi nei quali è accolto come capo di Stato, con il
cannone che spara a salve; ha una rete diplomatica di collegamento con i vari
Paesi del mondo e, alle Nazioni Unite, la Santa Sede ha uno “status” non
ammesso per nessun’altra Chiesa, Confessione o Religione. Non può essere sottovalutato
il peso “simbolico”, e dunque il negativo contraccolpo ecumenico di una tale
“sovranità”, inestricabilmente saldata al ruolo di vescovo di Roma. Nessuna
Chiesa slegata dalla comunione con il pontefice romano accetta un tale
groviglio storico-teologico che, del resto, turba anche molti cattolici.
71/ Teologicamente facilissimo, di fatto è
difficilissimo per il papato abbandonare la sovranità quasi regale ereditata
dalla storia. Forse, come umile
avvio su una strada tutta in salita, sarebbe già qualcosa se, a partire dal
prossimo papa, il vescovo di Roma facesse davvero, direttamente, come suo
compito primario, il pastore della sua Chiesa locale, risiedendo di norma presso San Giovanni in Laterano, la
basilica dove sta la sua cattedra episcopale, là celebrando la domenica
l’Eucaristia per il popolo della sua diocesi, e annunciando la Parola. Il
palazzo del Vaticano potrebbe allora essere riservato solo ad alcuni rari
incontri. E il governo della Chiesa cattolica sarebbe affidato ad un vero
Sinodo – con la partecipazione di vescovi, preti, monaci, monache, religiosi,
suore, laici e laiche – guidato dal vescovo di Roma; un Sinodo non deputato
(come fa oggi la Curia romana) a risolvere tutto, ma solo concentrato su alcuni
pochi problemi, lasciando la gran maggioranza delle questioni e decisioni alla
responsabilità delle Chiese locali sparse nel mondo e, anche, organizzate
continentalmente. Un tale cambiamento nell’esercizio
del ministero del vescovo di Roma non risolverebbe da solo, e d’incanto, i
problemi biblici, teologici e storici ed che stanno a monte del “principio del
primato” e che riguardano proprio la sua sostanza.
Ma, forse, permetterebbe di vagliare la plausibilità, nell’Ekumene di oggi, di una “Chiesa che presiede nell’amore”: è questo
il titolo che Ignazio di Antiochia (vescovo, scrittore e martire del II secolo)
dà alla Chiesa di Roma. Ma su che cosa significasse, nella realtà, o
nell’ipotesi, una tale “presidenza nell’agape”,
e dunque il rapporto tra essa e la “inter-comunione” eucaristica tra le Chiese,
contrastanti sono le opinioni di storici e
teologi e, soprattutto, delle Chiese stesse. Tali opinioni divergono
ancor più quando si tratti di immaginare per il terzo millennio una “presidenza
nell’agape” a sostegno della
comunione delle Chiese e a servizio della loro unità (non uniformità!)
sinfonica e della loro “diversità riconciliata”.
72/ Ma, prima di diventare materia di dibattito
ecumenico per la sua sostanza e, se
ammessa questa, per la sua forma, e
quindi, in prospettiva, tema capitale dell’auspicato Concilio autenticamente universale, il problema dell’esercizio del
ministero del vescovo di Roma dovrebbe essere uno degli argomenti di quel nuovo
e ravvicinato Concilio della Chiesa cattolica (Concilio generale, non certo ecumenico,
essendo un’Assemblea interna ad una sola Chiesa) da molti sollecitato – non
solo dalla base, ma anche dal mondo teologico e pure da diversi vescovi e da
alcuni cardinali. Noi uniamo la nostra piccola voce a quanti e quante auspicano
che la preparazione di tale evento sia impegno prioritario del successore di
Giovanni Paolo II. Tale Concilio sarebbe la sede ideale per confrontarsi
responsabilmente, alla luce delle Scritture e attenti alle lezioni della storia
passata e presente, e sensibili all’attenzione dell’intera Ekumene, su molti problemi: tra essi, il papato appunto; e
l’Eucaristia (“inter-comunione”; “ospitalità eucaristica”; ministeri ecclesiali
aperti a uomini e donne; traduzione concreta nella vita del “Fate questo in
memoria di me”, e dunque impegno per la pace nella giustizia nel mondo). Un
tale Concilio, ovviamente, dovrebbe essere “nuovo” anche nella sua
composizione, non potendosi immaginare che esso fosse composto solo da vescovi,
senza preti e, soprattutto, senza laici (uomini e donne).
73/ Il futuro dirà se la prassi della Chiesa di Roma, e
il dialogo ecumenico, faranno fiorire un “consenso” sul significato del
“ministero petrino”. Ma, intanto, a molti sembra feconda la strada suggerita da
alcuni gruppi ecumenici: ogni comunità cristiana locale riconosca come tale
l’altra comunità cristiana locale che vive accanto, anche se su di esse pesa
una divisione storica. Insomma, una Chiesa riconosca l’altra Chiesa, e la
reciproca Eucaristia. In tale prospettiva appaiono meno convincenti le ragioni
addotte dagli ultimi documenti vaticani per proibire non solo la
“inter-comunione” (concelebrazione di ministri di Chiese separate) ma anche la
“ospitalità eucaristica” (invitarsi reciprocamente, ad esempio tra una comunità
cattolica e una evangelica, a partecipare da una parte alla Messa, dall’altra
alla santa Cena, gli uni e gli altri comunicandosi).
74/ Una tale “ospitalità”, affermano i documenti
vaticani, sarebbe possibile solo il giorno in cui le due Parti, eredi della
Riforma e della Controriforma, avessero del tutto superato gli ostacoli
dottrinali che ancora le dividono. L’Euca-ristia, dunque, come premio finale
all’unità visibile delle Chiese. Ma agli ecumenisti più audaci – senza contare
il fatto importantissimo che il 31 ottobre 1999 la Federazione luterana
mondiale e la Chiesa cattolica hanno firmato un accordo su punti fondamentali
della giustificazione, superamento quasi totale della contrapposizione
insanabile avvenuta tra loro nel Cinquecento (cf. Confronti, 12/1999) – sembra che questa “ospitalità” debba essere
invece attuata, come medicina corroborante per spingere finalmente le Chiese a
riconoscersi e a incontrarsi. Eucaristia come viatico, dunque, per i pellegrini
affamati ed assetati.
75/ Ricalcando quanto abbiamo visto fare in altre parti del
mondo, in condizioni analoghe, anche noi, come Comunità, alcune volte abbiamo
praticato una tale “ospitalità” con comunità evangeliche romane: e ogni volta
ne siamo usciti corroborati nella fede, consapevoli dello scandalo che offre al
mondo la persistente scissura tra le nostre Chiese, e desiderosi di lavorare di
più e meglio per la causa dell’Evan-gelo. Non abbiamo affatto nascosto i punti
su cui le rispettive Chiese di appartenenza sono in disaccordo, ma abbiamo
anche pensato che il muro delle nostre divisioni non arrivasse fino al cielo, e
che fosse possibile, ogni tanto almeno, scavalcare questa barriera per
ritrovarci insieme alla mensa del Signore, memori del “Fate questo” che Gesù ha
lasciato come testamento.
76/ Una tale “ospitalità”, sottolineano le teologhe e i
teologi orientati al “sì”, è possibile perché non sono le Chiese che invitano
all’Eucaristia, ma è Cristo che invita alla Sua mensa. Egli che è venuto per
sanare gli ammalati e non i sani, e per invitare al banchetto storpi e zoppi;
Egli invita i cristiani e le Chiese alla sua mensa, ad una sola condizione: la
consapevolezza di essere peccatori, e la determinazione ad ascoltare il Suo
invito al ravvedimento. Perché dunque le Chiese dovrebbero porre delle
condizioni per e su l’Euca-ristia che Gesù non ha posto? Perché accogliere alla
mensa eucaristica solo i “nostri”? O perché escludere dall’Eucari-stia quei
cristiani che come noi credono che
Cristo sia in essa presente, anche se non spiegano
tale presenza con le nostre categorie filosofiche e teologiche?
77/ Sempre in favore della “ospitalità eucaristica”,
diversi teologi e teologhe sottolineano poi che, dal Vaticano II ad oggi, sono
passati quarant’anni, densi di dialoghi ecumenici bilaterali e multilaterali,
per non parlare del BEM. Non si potrebbero dunque porre i problemi, le domande
e le risposte, come se questi quattro decenni fossero rimasti, ecumenicamente,
sterili. Al di là poi delle nuove “concordie” teologiche ecumeniche, è la
prassi “alternativa” che è cresciuta. È davvero arduo sostenere – dicono ancora
questi studiosi, e molti gruppi con loro – che cristiani di Chiese diverse
insieme impegnati per la pace, la giustizia e la riconciliazione nel mondo
debbano poi dividersi nel momento della Cena del Signore, costretti a celebrare
Eucaristie parallele e incomunicanti.
78/ Le autorità delle Chiese (non solo della cattolica;
ancor più rigida è la posizione nell’Ortodossia) si oppongono comunque alla
“ospitalità eucaristica”. Si possono ben capire le ragioni teologiche e pastorali da loro addotte.
Tuttavia, ci sembra, dovrebbero essere presi in attenta considerazione quanti
ritengono giunto il momento di superare antichi steccati e compiere dei gesti
concreti che mettano in discussione lo status
quo delle Chiese. Come la “ospitalità eucaristica” che una parrocchia
cattolica ed una evangelica hanno reciprocamente compiuto a Berlino, nel maggio
del 2003, durante l’Oekumenische
Kirchentag. La storia insegna, del resto, che l’ufficialità delle Chiese di
solito è mossa ad interrogarsi, e a cambiare, solo quando la gente insiste in
una prassi che, sulle prime, è malvista dalle autorità ecclesiastiche. Data la
complessità geografica, sociale e culturale delle comunità che insieme
compongono la Chiesa cattolica romana, questo rinserrarsi nella “ragion di
Chiesa” – e cioè nella logica dell’istituzione che tende ad autoconservarsi
immodificata – può ben essere capito. Ma anche, e ciò non dovrebbe
scandalizzare nessuno, va storicamente situato e criticamente valutato.
79/ Ovviamente, se la Messa è vista prima di tutto come sacrificio, non solo è impensabile ogni “ospitalità eucaristica” ma, anche,
ogni Eucaristia che non sia presieduta da un ministro ordinato ad hoc. Il sacrificio esige che, a compierlo, vi
sia un sacerdote a ciò deputato: solo
lui può essere pontifex, facitore di ponti tra l’umanità e Dio.
Se si parla invece di Eucaristia come dono di Cristo all’assemblea, come popolo di Dio convocato dalla parola di Gesù, la prospettiva cambia radicalmente.
Una domanda sorge, allora: un gruppo di cristiani, desideroso di adempiere
intensamente e fedelmente il “Fate questo in memoria di me”, ma privo di
ministro ordinato, potrebbe celebrare un’autentica Cena del Signore? O una tale
celebrazione dovrebbe essere considerata, sempre e comunque, solamente una del
tutto non sacramentale “agape fraterna”, o preghiera comunitaria, ma non
propriamente, in senso stretto, “Eucaristia”? Sfiorando tale tema, Armido
Rizzi, nel libro citato al n. 26, afferma: “Di fronte alla domanda precisa: è necessario che la celebrazione eucaristica abbia
come soggetto forte e determinante il sacerdote, nell’accezione precisa,
cattolica del termine, che è un individuo appositamente ordinato con un
apposito sacramento; ecco, di fronte a questo, mi pare che c’è una certa
riluttanza dei teologi a rispondere e a pronunciarsi. Credo che la ragione
principale [di ciò] sia proprio nei residui di concezione dell’Eucaristia sul
piano dell’efficacia, cioè del potere,
potere di dire una parola che cambia la sostanza delle cose, per cui bisogna
essere investito di uno specifico potere per dire quelle specifiche parole con
quella loro specifica efficacia” (pp. 36-37). Analoga la tesi di Hans Küng che
si domanda, e chiede a teologi e pastori di domandarsi: perché, in casi
eccezionali, in assenza di un sacerdote ordinato, anche un semplice cristiano
non potrebbe celebrare nella sua comunità una vera Eucaristia? (cf. La Chiesa, Queriniana, Brescia 1967, p.
514).
80/ Tocchiamo, qui, un punto molto delicato. Sappiamo
quale sia, in proposito, la dottrina cattolica ufficiale, come anche le
proposte di ricerca e la prassi “alternativa” di varie comunità in diverse
parti del mondo (per le Comunità di base, cf. Martino Morganti, Eucaristia raccontata. Prassi e riflessioni
delle Cdb italiane, Borla, Roma 1988, p. 278). Non pretendiamo di poter
risolvere sotto ogni aspetto le questioni teoriche e di fatto connesse ad un
tale problema, sovente fonte di sofferenza per le persone implicate. Ci sembra
però significativo che dal mondo teologico si levino delle voci per ipotizzare:
se una comunità cristiana, per questioni di diritto canonico o di fatto, fosse
priva di un sacerdote “ordinato”, essa avrebbe comunque la possibilità di
celebrare l’Eucaristia. Infatti, senza Eucaristia, quella comunità morirebbe.
Ma una comunità cristiana viene prima delle norme canoniche.
81/ Alcuni recenti orientamenti della Curia romana
sembrano tuttavia contrastare del tutto una tale evoluzione. Basti, in
proposito, qualche spigolatura dalla Redemptionis
sacramentum, un’istruzione (25 marzo 2004) della Congregazione per il culto
divino e la disciplina dei sacramenti. Per prevenire scelte etichettate come
“abusi”, tale dicastero curiale, guidato dal cardinale Francis Arinze, elenca
divieti come questi: “È vietato usare canoni non approvati dalla Santa Sede”
(51); “è vietato che i fedeli recitino, con il sacerdote, la preghiera eucaristica
[il canone], riservata solo a lui”
(n. 52); “è vietato ai laici predicare durante la Messa” (66); “non è
consentito ai fedeli di prendere da sé e tanto meno di passarsi tra loro di
mano in mano la sacra ostia o il sacro calice” (94).
82/ È giusto, come fa il documento vaticano, sollecitare
i fedeli ad evitare ogni sciatteria (difetto che incombe talora anche sulla
nostra comunità, purtroppo), ma non ci sembra necessario, per questo, sgranare
un puntiglioso ventaglio di proibizioni. Così, dell’insieme dei “no” vaticani
appena elencati, particolarmente insostenibile ci appare la proibizione ai
laici di “predicare” durante la Messa. Di solito, nella nostra comunità un
gruppo a turno prepara un’introduzione alle letture bibliche della domenica;
poi liberamente prende la parola ogni partecipante all’Assemblea eucaristica
che lo desideri. La nostra esperienza trentennale ci ha insegnato che questo
modo di commentare, e attualizzare, le Sacre Scritture, questa indifferibile
“riappropriazione” della Parola confiscata da secoli ai laici e alla comunità
intera, è di fondamentale importanza per una crescita della consapevolezza
ecclesiale di ciascuna persona, per favorire una lettura personale della Bibbia
e per rafforzare la comunità nel suo insieme. Non vogliamo dire, con questo,
che tale prassi sia l’unica possibile, né criticare chi segue la normativa
ufficiale (il sacerdote predica, i fedeli ascoltano senza poter intervenire); e
nemmeno nascondere che la “libertà d’intervento” può indurre talora ad un certo
spontaneismo o a riflessioni improvvisate. Ciononostante, ci sembra che una
celebrazione “partecipativa” sia da preferirsi ad un’oggettiva riduzione al
silenzio del “popolo di Dio” indotta dalle norme ufficiali.
83/ La Lumen
gentium (n. 10, EV I, 312) afferma:
“Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico,
quantunque differiscano di essenza e
non soltanto di grado, sono tuttavia
ordinati l’uno all’altro; ambedue infatti, ognuno nel proprio modo, partecipano
dell’unico sacerdozio di Cristo”. A prescindere qui dalla questione del sacerdozio gerarchico (abbiamo già
espresso, sopra, i problemi che essa solleva) non si vede ove l’affermazione
conciliare sarebbe violata o smentita quando una comunità, nella celebrazione
eucaristica, compisse quelle scelte, appena elencate, che la Redemptionis sacramentum considera
“abusi”.
84/ Sembra crescere, in certi settori della Curia romana
e della gerarchia cattolica, la tendenza a minimizzare la portata del Vaticano
II, sottacendo le novità conciliari che tentavano di alleggerire il
“clericalismo”. Infatti, anche se i documenti della Santa Sede – di svariato
genere – usciti in questi ultimi anni citano sempre l’ultimo Concilio, in
realtà ne danno di solito un’interpretazione restrittiva, e finiscono per
svuotarlo di ogni dinamismo. Semplificando, si potrebbe dire che si tenta di
leggere il Vaticano II alla luce del Concilio di Trento, e non questo alla luce
di quello.
85/ In verità, descrivendo la Chiesa come sacramento, e cioè come “segno e strumento” dell’amore di Dio per l’umanità,
la Lumen gentium (n. 1, EV, I, 284) ha cercato di superare la
“ecclesiologia giuridica” (la Chiesa come “società perfetta”, ben divisa tra
“docente” e “discente”, come trasluce dal Tridentino o comunque dall’interpretazione
che ne è stata fatta a Roma) inserendola nella “ecclesiologia di comunione”
(sgorgante dalle Scritture e dalla Grande Tradizione dei primi secoli). Ma
mentre il capitolo II della Lumen gentium
(“Il popolo di Dio”) ha il suo asse in questa seconda prospettiva, il
capitolo III (“La costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare
l’episcopato”) parte dalla prima e, pur con qualche apertura, in quella rimane
impigliato. Per questa ragione – a livello ufficiale – si è tratta ogni
possibile conseguenza dal capitolo III (ma, anche qui, rafforzando il papato e
senza attuare veramente la pur proclamata collegialità episcopale), e nessuna
dal capitolo II. E, infatti, non vi è alcun organismo che, a livello
dell’intera Chiesa cattolica romana, rappresenti il popolo di Dio, clero e
laici, nella varietà dei loro carismi e ministeri. I “semplici fedeli” non
hanno voce in capitolo, nemmeno per la scelta del loro parroco e del vescovo
della loro diocesi; e solo i maschi sono ritenuti degni del carisma di “governare”.
86/ Una delle radici inespresse, ma reali, di tale
anomala situazione, che stride con le esperienze di vita ecclesiale che ci
sembrano emergere dal Nuovo Testamento, è proprio l’interpretare la Messa come sacrificio fatto a Dio, e il sacerdote come l’unico sacrificatore autorizzato. Ben diverso,
invece, è lo sfondo teorico, e la sua concretizzazione pratica, se al centro
dell’Eucaristia si pone la comunità che, tutta insieme, accoglie dal Signore
l’invito al “Fate questo”. La comunità si dà certo, come anche volentieri
accoglie, delle esili strutture, necessarie per vivere in modo sereno e
arricchente e per essere in comunione con le altre comunità; ma, se e quando
non previste dal Signore, tali strutture non sono assolute, ma di per sé sempre
riformabili per venire meglio incontro alle esigenze e ai contesti che cambiano
secondo i tempi e i luoghi. È ben vero che “lo Spirito spira dove vuole” (cf.
Gv 3, 8), ma di solito Egli all’interno della comunità, di ogni comunità, fa
nascere i Suoi doni – i diversi “carismi” – tutti convergenti verso il bene di
tutti. È la comunità che fa il ministro, non il ministro che fa la comunità:
dove “fare” non significa che la comunità crei o inventi i “carismi” per conto
suo e con le sue sole forze, ma significa che per e nella comunità scende lo
Spirito – come a Pentecoste – con una pioggia di doni per l’utilità della Ekklesìa. La comunità, se è saggia,
“riconosce” tali doni e ne fa tesoro ringraziando il Donatore.
I – La
“primogenitura” di Maria di Magdala
87/ In tale prospettiva non si comprende perché le donne
siano escluse, in linea di principio, dalla presidenza dell’Eucaristia. Con le
molte e i molti che già lo hanno detto, anche noi esprimiamo le nostre
perplessità sul “no” pronunciato, in merito, con Paolo VI, dalla Congregazione
per la Dottrina della Fede (dichiarazione Inter
insigniores, 15 ott. 1976), e poi il 22 maggio 1994 ribadito con più
impegnativa solennità da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis: “Dichiaro che la
Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione
sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da
tutti i fedeli della Chiesa” (EV 14,
1348).
88/ Naturalmente, se ci fa problema il sacerdozio di mediazione degli uomini
(maschi) – perché solo Cristo può
averlo, secondo il Nuovo Testamento – non possiamo poi desiderare la donna-sacerdote. Del resto,
un’accettazione della “donna-prete” che si basasse sulla dottrina cattolica
ufficiale del sacerdozio, semplicemente aprendolo anche al femminile, non
farebbe che clericalizzare ancor più la Chiesa romana. È ben vero che forse,
nella prassi, una tale ammissione innescherebbe profondi cambiamenti nella
simbologia sacramentaria, nell’organizzazione interna della Chiesa e nel modo
con cui questa vede la sessualità; e perciò comprendiamo i gruppi che si
battono per tale prospettiva. Ma, a nostro giudizio, non è l’ammissione della
donna-prete (né, sull’altro fronte, l’abolizione della legge del celibato
sacerdotale nella Chiesa latina, lasciando immutata la struttura clericale) che
metterà in questione la radice del potere sacro: la strada maestra del
rinnovamento – noi pensiamo – può passare solo per un profondo ripensamento,
biblico e fattuale, dei ministeri
ecclesiali, egualmente aperti a uomini e donne, senza preclusioni basate sul
sesso o sullo stato civile. Perciò non siamo d’accordo con alcune tesi fondanti
della Lettera ai vescovi della Chiesa
cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo,
firmata dal card. Ratzinger il 31 maggio 2004 e pubblicata il 31 luglio (testo
integrale in Adista, n. 60 del 4
settembre). Infatti, pur dando talora la sensazione di accogliere le idee del
femminismo “non” radicale, in realtà il testo appare intriso di pensiero
universalistico maschile; ripropone saldamente l’impianto e la mentalità
patriarcale della Chiesa romana; tace sulle cause storiche, teologiche,
antropologiche e sociali che hanno determinato la subordinazione delle donne
nella società e nella Chiesa e la loro esclusione dalla gestione del sacro.
89/ Sappiamo bene che Paolo intima ai Corinti: “Come in
tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano, perché non è
loro permesso parlare” (I, 14, 34). Però quasi unanimemente gli esegeti oggi
dicono che tale affermazione non voleva essere normativa per tutti i secoli, ma
solo un precetto disciplinare contingente, richiesta da una particolare
situazione (ma vi sono perfino studiosi secondo i quali l’inciso restrittivo
non sarebbe paolino, ma una “glossa” aggiunta da qualcuno per poter meglio
fondare un atteggiamento misogino, o armonizzare la lettera di Paolo con quelle
“pastorali” [cf. sopra n. 51] della fine del primo secolo). In ogni caso, è
invece normativo per sempre quanto l’apostolo afferma nella lettera ai Galati:
“Non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo” (3, 28).
90/ Altri esegeti attirano anche l’attenzione sul fatto
che, nella conclusione della lettera ai Romani, Paolo afferma: “Salutate
Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli
insigni che erano già in Cristo prima di me” (16, 7). Che significa quell’apostolo riferito anche ad una donna? È
un modo di dire retorico, o contiene qualcosa di sostanziale? Per lungo tempo,
appoggiandosi su alcuni codici, nelle Bibbie si leggeva Giunio (maschio),
tralasciando i codici che parlavano di Giunia (femmina). Ma oggi quasi tutti
gli studiosi ritengono che la parola originale, nel greco paolino, fosse
proprio Iounian, Giunia – così anche
la Bibbia tradotta a cura della Conferenza episcopale italiana.
91/ Ancora: quale era esattamente il compito/carisma di
quella Febe che, sempre nella lettera ai Romani (16, 1), Paolo qualifica come “diaconessa della Chiesa di Cencre
(Corinto)”? Semplice ”inserviente” come sostiene la teologia curiale, o
qualcosa che dovrebbe far parte – usando le categorie della dottrina sacramentaria cattolica ufficiale –
dell’“ordine” del diaconato? E quale funzione esercitavano le due cristiane che
Plinio il Giovane, allora governatore delle province romane della Bitinia e del
Ponto, nella sua famosa lettera scritta nell’anno 112 o 113 all’imperatore
Traiano confessa di aver sottoposto a tortura, e che dagli stessi cristiani
erano chiamate ministrae? (cf.
Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di
Galilea. Un’indagine storica, EDB, Bologna 2002, pag. 44).
92/ Un’interpretazione “aperta” del pensiero di Paolo
può essere supportata anche dall’audacia con cui egli mise in discussione,
rispetto ad un Pietro invece più timoroso, la necessità assoluta della
circoncisione: un rito, si badi, ritenuto non inventato dagli uomini, ma
stabilito dalla Torah, la legge di Dio stesso (capitolo 12 del
Levitico), e perciò per gli apostoli, tutti ebrei, dapprima considerato
intangibile. Eppure, dopo una serrata discussione, il cosiddetto “Concilio di
Gerusalemme” (verso il 48 dell’era volgare) adottò il rivoluzionario punto di
vista di Paolo che non chiedeva la circoncisione ai pagani che si facevano
cristiani. Se Paolo di Tarso, e poi gli altri apostoli e discepoli, tanto
osarono, analogamente ancor più potrebbero oggi fare le Chiese, mutando una
lunga tradizione ecclesiastica contraria all’uguaglianza di responsabilità di
uomini e donne nella comunità cristiana. E, per fortuna, ormai da alcuni decenni
la gran parte delle Chiese della Riforma hanno cominciato risolutamente a
concretizzare, con precisi cambiamenti istituzionali, tale uguaglianza.
93/ Vi è, del resto, una singolare contraddizione nella
Chiesa romana: essa – come le altre – alla base dell’appar-tenenza alla Chiesa
pone, come “porta”, il battesimo. Ora, dice la teologia ufficiale, attraverso
il battezzatore è Cristo stesso che battezza. Ma, secondo norme da sempre in
vigore, questa persona non è obbligatoriamente un prete, anche se di solito lo
è: in caso di necessità può essere un laico, uomo o donna. Dunque, quando
battezza, anche la donna “agisce in persona di Cristo”. Perché mai la stessa
donna può battezzare, ma non presiedere l’Eucaristia? Può agire “in persona di
Cristo” nel primo caso, ma non nel secondo? La teologia “tradizionale” dovrebbe
essere logica: o la donna non può mai battezzare,
perché, come donna, non può mai “rappresentare” Gesù che era un maschio; oppure
essa può anche celebrare e/o presiedere l’Eucaristia.
94/ La questione donna/sacerdozio e donna/ministeri non
poteva non essere toccata dal BEM. Che, in proposito, rileva: “Le Chiese che
praticano l’ordinazione delle donne lo fanno a motivo della loro comprensione
dell’Evangelo e del ministero. Essa si fonda, per loro, sulla convinzione
teologica profondamente motivata che il ministero ordinato della Chiesa manca
di pienezza quando è limitato a un sesso soltanto… Le Chiese che non praticano
l’ordinazione delle donne ritengono che il peso di diciannove secoli di tradizione
contro tale ordinazione non possa essere messo da parte. Credono che esistono
problemi teologici riguardanti la natura umana e la cristologia che stanno al
cuore delle loro convinzioni e della loro comprensione del ruolo delle donne
nella Chiesa. La discussione di questi problemi pratici e teologici all’interno
delle diverse Chiese e tradizioni cristiane dovrebbe essere completata da uno
studio e da una riflessione comuni nell’àmbito della comunione ecumenica di
tutte le Chiese” (Enchiridion oecumenicum,
op. cit., 3135).
95/ Una riflessione problematica sul sacerdozio e sui
ministeri lambisce, inevitabilmente, il nodo del potere nelle Chiese, e il modo
di rappresentare e nominare Dio (o D*o, una grafia usata da alcune teologhe per
sottolineare che l’Ineffabile non è né maschio né femmina, e comunque per
mettere in crisi l’automatismo Dio=Lui, al maschile). Scrive in un suo libro la
teologa della liberazione brasiliana Ivone Gebara: “La questione del
cambiamento del potere nelle Chiese non è solo concessione di spazi per una
partecipazione più ampia delle donne. Si tratta di una rivoluzione nella comprensione delle relazioni umane di potere, di
una riflessione sulla sua genesi e sulle sue conseguenze storiche per ricominciare finalmente un altro modo di
essere donna e uomo di fronte al mistero insondabile che siamo, dinanzi alla
Fonte della Vita che ci costituisce e che costituiamo” (Noi figlie di Eva, Cittadella ed., Assisi 1995, pp. 81-82). E al
loro XIII Incontro nazionale (Frascati, 2002), le donne delle Comunità
cristiane di base italiane hanno rilevato che “nella ricerca che esse stanno
affrontando da alcuni anni sul Divino,
per liberarlo dalla gabbia del patriarcato, per dirlo con modalità più consone
alla sensibilità delle donne e degli uomini di oggi e per poterlo quindi
condividere, le parole di Elisabeth Green, teologa battista, sono illuminanti.
Ella dice: ‘Come noi tutte sappiamo, il discorso di colui che pretendeva di
parlare in nome di tutti e di tutte a prescindere da genere, età, appartenenza etnica,
orientamento sessuale, posizione socioeconomica e così via, si è rivelato non
solo parziale, ma addirittura di parte’” (Atti
XIII Incontro, Qualevita ed., Torre dei Nolfi-AQ 2003, p. 10).
96/ In questo impegnativo cammino di ripensamento e di
conversione, ci sembra che ogni Chiesa sarebbe aiutata a compiere grandi passi
se riflettesse più profondamente sul capitolo XX del vangelo di Giovanni. Il
quale racconta che non Pietro o l’altro discepolo, “quello che Gesù amava”,
ebbero per primi l’apparizione del Resuscitato. La “primogenitura” nel
testimoniare una verità così impensabile, costitutiva della “nuova era” e della
ragion d’essere della Chiesa, messaggio folgorante al mondo, toccò invece a
Maria di Magdala. Essa, una donna, viene mandata a dare il grande annuncio:
“Va’ dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio
e Dio vostro”. Ed ella “andò subito ad annunziare ai discepoli: ho visto il
Signore”. Perciò Tommaso d’Aquino chiamò questa donna apostola apostolorum (apostola degli apostoli). Oggi, con la nostra
sensibilità, noi osiamo porre una domanda più esplicita: Maria di Magdala, che
ebbe il compito singolare di scuotere i discepoli e gli apostoli testimoniando
loro che Gesù, pur dopo la passione e morte, era il Vivente, potrà mai essere
stata privata dal Signore della possibilità del “Fare questo” in memoria di
Lui, e di spezzare il pane dell’Eucaristia?
97/ La nostra “carrellata” di queste pagine non è
solitaria: infatti, abbiamo espresso non solo idee o prassi della nostra
Comunità, ma abbiamo raccolto, e guardato in filigrana, valutazioni e
prospettive che salgono da molte parti, e modi di celebrare l’Eucaristia che si
diffondono sempre di più nei cinque Continenti. Il prossimo Sinodo dei vescovi
potrebbe misurarsi con queste realtà, o prendere da esse le distanze, o
bollarle come “abusi”, o semplicemente ignorarle. Noi ci auguriamo che
l’Assemblea di ottobre guardi ad esse con benignità.
98/ Infatti, se si va alla sostanza dell’evangelo, non
dovrebbe essere troppo difficile accettare prassi e prospettive teologiche che,
per quanto diverse tra loro, sottolineano questo o quell’aspetto di una Realtà
che comunque ci sorpassa tutti, perché attinge l’Ineffabile (D*o, “non
dicibile”); e che concordano sull’annuncio fondamentale: il Vangelo ci conferma
che l’Eterno, nella sua misericordia e nell’amore per le sue creature, si è
fatto Emanuel, Dio-con-noi.
D’al-tronde, se diciamo che l’Eucaristia, per certi aspetti, tocca il mistero
di Dio, non dovremmo poi avere la pretesa di poterla spiegare completamente in
ogni suo singolo aspetto, o incapsularla dentro categorie filosofiche e
teologiche presentate come degli occhiali indispensabili per penetrare oltre il
visibile.
99/ Partendo da quanto scrive Paolo ai Corinti (nel
passaggio cruciale di I, 11 [cf. n. 13]), e dal fatto che il quarto evangelo
ignora, nell’ultima cena di Gesù, la “istituzione” dell’Eucaristia, ma narra
invece la lavanda dei piedi, la citata (al n. 32) lettera apostolica Mane nobiscum Domine elenca “le tante
povertà del nostro mondo” che le comunità cattoliche, soprattutto durante
l’“Anno dell’Eucaristia”, dovrebbero cercare di lenire: “il dramma della fame
che tormenta centinaia di milioni di esseri umani, le malattie che flagellano i
Paesi in via di sviluppo, la solitudine degli anziani, i disagi dei disoccupati,
le traversie degli immigrati. Non possiamo illuderci: dall’amore vicendevole e,
in particolare, dalla sollecitudine per chi è nel bisogno saremo riconosciuti
come veri discepoli di Cristo (cf. Gv 13, 35; Mt 25, 31-46). È questo il criterio in base al quale sarà comprovata
l’autenticità delle nostre celebrazioni eucaristiche” (n. 28).
100/ Parole, queste, che bene illuminano come debba
essere una “coerente” Cena del Signore. Nella stessa linea di pensiero, ci
sembra che una più attenta consapevolezza nel proclamare il Padre nostro potrebbe aiutarci nel
saldare ogni celebrazione eucaristica con il suo inveramento nella nostra vita. Nella preghiera che Gesù di Nazareth ci
ha insegnato si fondono perfettamente il riconoscimento della Signoria di Dio –
un Dio amoroso – e l’attenzione ai nostri problemi quotidiani, concreti, anche economici: “Sia santificato il Tuo nome,
venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà”; e, poi: “Dacci oggi il nostro
pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non ci indurre in tentazione,
liberaci dal male”.
101/ Quel pane è proprio il pane che – allora – faceva in
casa ogni massaia d’Israele, il pane che faceva anche Maria di Nazareth nella
sua famiglia: dunque è la richiesta di poter mangiare per vivere. Una richiesta
“materialista”, niente affatto romantica o spiritualista. Il pane era allora –
e in molte parti del mondo lo è ancor oggi – il cibo fondamentale dei poveri.
Chi non aveva (ha) nemmeno il pane, almeno il pane, o il cibo che in una data
cultura è ciò che nel bacino mediterraneo rappresenta il pane, era (è)
destinato a morire di fame. Ma la preghiera non dice “il mio pane”; dice “il nostro
pane”. Dunque, “Dacci il nostro pane
di questo giorno” significa che ciascuno e ciascuna di noi deve essere bene
attento a non badare solo alla sua fame; deve nel contempo essere vigile e aver
cura perché anche l’altro, e soprattutto il povero, possa nutrirsi. Altrimenti
diventa bestemmia e sacrilegio pregare il Padre
nostro e celebrare la Cena del Signore. In altri termini: l’Agape eucaristica che non sbocchi poi in
agape concreta (=condivisione reale)
è contraffazione di una Eucaristia autentica.
102/ E perché quel “Dacci il pane” non suoni come attesa
oziosa demandando a Dio di fare tutto, e di risolvere automaticamente i nostri
problemi, Gesù subito aggiunge: “Rimetti i nostri debiti come noi li rimettiamo…”. Perché il Padre non riserva a Sé la
misura del suo dare sovrano ma, in qualche modo, l’affida a noi: tanto quanto
noi rimetteremo, Lui rimetterà; tanto quanto noi non rimetteremo, Lui non rimetterà.
Ciò vale per i debiti personali e per i debiti collettivi, per ogni cristiano e
per le Chiese come tali. L’onere della prova è rovesciato su di noi. Questo,
forse, è il “potere delle chiavi” di cui parla Matteo (16, 19) e a cui lo
stesso evangelista accenna in 18, 18. Infatti – come ci ricorda Dietrich
Bonhoeffer, teologo luterano martirizzato dai nazisti – Dio non è un
Tappabuchi. Ma è un Dio esigente: e dunque (Matteo 5, 23-24) Gesù ci ricorda
che non saremmo credibili di fronte al Padre se chiedessimo a Lui quel perdono
che però noi non riusciamo ad offrire a chi ci ha offeso. E perciò il Nazareno
ci invita (il che vale per i singoli cristiani ma forse anche per le Chiese) ad
interrompere “l’of-ferta sull’altare” – e cioè un rito, per quanto solenne –
per andare, prima e subito, a riconciliarci con il fratello, al fine, allora
sì, di poter poi proseguire pacificati nell’offerta del nostro dono
sull’altare.
103/ Ancora: “Dacci il pane quotidiano”. Non mucchi di pane che si possono accumulare per
giorni, ma il pane di questo giorno; ogni giorno noi dobbiamo pregare per il
dono del pane (o per il cibo equivalente), e dunque per il nostro singolo ed
ecclesiale impegno per fare, spezzare, condividere questo pane. Domani… si
ricomincerà di nuovo a fare il pane, a condividerlo in solidarietà.
Analogamente a quanto accadeva per la manna: il Signore – nel racconto,
ovviamente simbolico, di Esodo c. 16 e Numeri c. 11 – faceva scendere dal cielo
questo cibo, ogni giorno (Sabato escluso), per la quantità sufficiente per quel
giorno; se qualcuno, diffidente della provvidenza del Signore, ne faceva
avanzare una parte per l’indomani, questa generava vermi e imputridiva. La
preghiera insegnataci da Gesù non accenna a non “accumulare” il pane, ma va in
quel senso: un senso alto e profondo di affidamento alla Provvidenza e, nel
contempo, di responsabilizzazione personale ed ecclesiale. Ci spinge insomma –
per usare ancora un’espressione di Bonhoeffer – a “stare dinanzi a Dio come se
Dio non ci fosse”. I cristiani, allora, dovrebbero immergersi pienamente e
laicamente nella storia per contribuire a dare ad essa senso, però non
presumendo di avere in tasca tutte le soluzioni degli enormi, e spesso inediti,
problemi etici, sociali e geopolitici che incombono sul mondo, ma ricercandole
umilmente insieme a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà.
104/ “Dacci il nostro pane…”. Con questo nostro decisivo – sbarramento
invalicabile che denuda nella sua contraddittorietà ogni celebrazione eucaristica
solo rituale e vuota o, peggio, convocante come nulla fosse i carnefici non
pentiti accanto alle loro vittime – Gesù ci ha consegnato una parola oggi più
importante che mai. Proprio oggi, infatti, le teorie della “guerra infinita e
preventiva” contro il terrorismo, identificato peraltro spesso con l’Islam o
con un Paese tout court; quelle della
“insindacabilità” delle scelte dell’im-pero economico e militare dominante;
quelle della legittimità di sfruttare e di violare impunemente l’ecosistema
della Terra Madre per il vantaggio economico di pochi e potenti; quelle della
“non-discutibilità” del modello di sviluppo capitalista che, nell’era della
globalizzazione, fonda le sue fortune sull’affamamento di gran parte dei popoli
del mondo (inutili “esuberi”); quelle della intangibilità non solo del debito
estero che i Paesi del Sud hanno verso quelli del Nord, ma anche dell’interesse
sul debito che dissangua le economie di quei Paesi (o, forse, dopo lo tsunami che il 26 dicembre 2004 ha
spaventosamente devastato il Sud-Est asiatico, il Nord avrà una qualche
resipiscenza in proposito, almeno verso i Paesi indebitati, colpiti dalla
recentissima sventura?); quelle della superiorità della razza bianca e della
religione cristiana; quelle della liceità di accaparrarsi i beni comuni (Common Goods) della terra e dello spazio
escludendo da questa corsa i popoli che non siano tecnicamente in grado di
parteciparvi… tutte queste teorie (e prassi!) partono esattamente dalla
negazione dell’unità della famiglia umana. Pare non esservi all’orizzonte
politico ed etico dei Gruppi Multinazionali e dei Paesi del Nord – con
l’eccezione di crescenti settori – nessun nostro
(comune) pane; ma solo il nostro (ristretto):
quello del club, limitato ed esclusivo, degli arricchiti.
105/ Non sarà l’Eucaristia, da sola, a risolvere questi
problemi immani e queste ingiustizie planetarie: se essa avesse una tale
potenza, già da duemila anni avremmo sulla terra il regno della giustizia e
della pace! Se tale regno, con ogni evidenza, non c’è ma, anzi, oggi più che
mai – da Baghdad a Gerusalemme, da Kinshasa a Grozny – oscuro è l’orizzonte del
mondo, ciò dipende, secondo i credenti, dal fatto che Iddio ha lasciato agli
uomini e alle donne la responsabilità di costruire la pace nella giustizia. E
la storia dimostra che, anche tra i cristiani depositari del dono della Cena
del Signore, se tanti e tante hanno coerentemente vissuto il “Fate questo”,
molti altri e altre invece lo hanno tradito. Perché l’Eucaristia può essere
vissuta come alienazione e dismissione dalle proprie responsabilità nella
storia, e vernice che copre i nostri misfatti; o, al contrario, come spinta
possente che mette le ali per contribuire a
spezzare ogni catena che soffochi la dignità umana e il cammino verso la
liberazione. Questa duplice ed opposta possibilità si dà perché il Regno di Dio
c’è e non c’è. C’è già (“Il regno dei cieli è vicino”; “Il regno di Dio è in mezzo a voi”, disse
Gesù – Mt 3, 2; Lc 17, 21) e si fa intravedere, come un lampo nella notte, ogni
volta che sulla terra vi sia chi opera per la giustizia e per la pace, chi
perdona, chi accarezza un povero e condivide ciò che ha con lui, chi compie un
gesto d’amore. E viene occultato ogni volta che vince la violenza, la guerra,
il terrorismo, l’odio, l’abbandono dei derelitti al loro destino, la religione
come copertura della prepotenza e dell’avidità, l’invocazione del nome di Dio
per “santificare” l’assassinio.
B – Il “digiuno” eucaristico
106/ Di fronte a tali stridenti contraddizioni, e mentre
l’Eterno sembra tacere impenetrabile pur dinanzi alle molte preghiere che
invocano da Lui la pace, ma la violenza continua a dominare, ci sembra che il
“digiuno eucaristico” sia un grido, un atto di pentimento corale che ogni tanto
ci obbliga a fare i conti con le nostre pigre, assonnate e alienanti
Eucaristie. Perciò, nel nostro piccolo, talora l’abbiamo fatto. Così, mentre si
consumava il dramma di Srebrenica – espugnata l’11 luglio 1995 dalle truppe
serbo-bosniache, provocando un massacro di civili e un esodo di massa della
popolazione musulmana – la domenica seguente, il 16 luglio, la nostra Comunità
decise di fare il “digiuno eucaristico” come gesto estremo per dire “no alla
guerra” e, ancor più, “no alla guerra in nome di Dio”.
107/ Ma, in merito, qui vogliamo
citare un evento più rilevante. Il giorno dell’Epifania del 2003, convocati da
missionari comboniani, Pax Christi e altri gruppi pacifisti cattolici
invitarono i fedeli di Bari a “non andare alla Messa”, ma a recarsi tuttavia in
una chiesa proprio per riflettere sul senso di questo singolare “digiuno” che
avveniva in un preciso contesto geopolitico: si avvicinava l’inizio della
“guerra preventiva” contro l’Iraq (sarebbe poi scoppiata due mesi dopo). Un
volantino diffuso per l’occasione diceva: “Noi missionari, presenti in molti
Paesi in guerra e testimoni della sofferenza che un sistema profondamente
ingiusto e di opulenza genera, ci sentiamo profondamente turbati e rinunciamo a
celebrare la nascita del Principe della pace in un clima di complicità
nell’ingiustizia e di guerra nei confronti del Sud del mondo”. L’evento di Bari
suscitò contrastanti reazioni ecclesiali: tanti cattolici, religiosi e laici,
parlarono di atto “profetico”; altri si lasciarono interrogare, stretti tra la
simpatia e il dubbio; l’ufficialità lo qualificò come “gesto che crea
disorientamento e confusione in molte persone”.
108/ A noi pare comunque che sarebbe stato davvero un
gesto profetico e dirompente se domenica 23 marzo 2003 – tre giorni dopo
l’inizio dell’attacco anglo-americano contro Baghdad, attacco compiuto al di
fuori della legalità internazionale e contro le risoluzioni dell’Onu – le
Chiese cristiane nel mondo (la cattolica e le anglicane, le ortodosse e le
luterane, le riformate e le pentecostali…) avessero appunto invitato i loro
fedeli a fare il “digiuno eucaristico”. Un’iniziativa tanto più significativa
per il fatto che tutti i capi di Stato e di governo nordamericani ed europei
favorevoli a quella guerra erano, formalmente, cristiani.
C – “Siamo tutti mendicanti”
109/ Certo, i mali e le contraddizioni del mondo sono
così grandi, e anche le colpe e responsabilità storiche di noi cristiani e
delle nostre Chiese così evidenti che… mai si potrebbe celebrare degnamente la
Cena del Signore, e perciò il “digiuno eucaristico” dovrebbe essere l’unica
possibilità rimastaci. Ma, dicevamo, Gesù ci invita alla Sua mensa non per
premiare la nostra giustizia, ma per donarci la sua salvezza. L’abitudine e
l’assuefazione ci portano però, quasi inevitabilmente, a offuscare la
consapevolezza di che cosa significhi il “Fate questo”. Perciò, talora, lo
shock del “digiuno eucaristico” può farci del bene. Stiamo lontani un momento
dall’Eucaristia proprio per poi tornare, ad essa convocati dall’Alto, a
celebrarla il meno indegnamente possibile.
110/ Tutte le Chiese (come il mondo con tutti i suoi
abitanti, naturalmente), come pure le nostre persone e la nostra Comunità, sono
sempre ricoperte dal manto della misericordia di Dio che rifulge nel dono della
sua Parola e dell’Eucaristia; ma su di esse pende anche il Suo giudizio: Egli
valuta che cosa ne facciamo della Cena del Signore, e se, e come viviamo
coerentemente con la comunione con Lui, con la condivisione da lui attesa, e
con la Parola da Lui annunciata. E perciò, terminando queste nostre
riflessioni, l’augurio che facciamo ai fratelli e alle sorelle di tutte le
Chiese, e a noi stessi, è che riusciamo ad esprimere con sincerità –
analogamente al centurione romano che chiedeva a Gesù di guarire il suo servo
(cf. Mt 8, 8) – l’invocazione che la liturgia romana pone come premessa alla
comunione eucaristica: “Signore, non sono degno di partecipare alla Tua mensa,
ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato”. Perché, come in punto di morte
lasciò scritto su un bigliettino Martin Lutero, pensando alla salvezza e alla
grazia che viene da Dio: “Wir sind
Bettler; hoc est verum” - “Siamo mendicanti; questa è la verità”.
Roma, 30 dicembre 2004
La Comunità cristiana di base di san Paolo