«SE UNA
CHIESA TESTIMONIA
CONTRIBUTO DELLA COMUNITA’ CRISTIANA
DI SAN PAOLO IN ROMA
al percorso
nazionale itinerante verso il IV Convegno ecclesiale italiano di Verona
Premessa: le motivazioni di una ricerca
Per la quarta volta in
trent’anni – dopo quello di Roma del 1976, di Loreto
dell’85 e di Palermo del ‘95 –
Accogliendo volentieri tale invito – e
come, per analoghi appuntamenti, già aveva fatto in passato – anche la nostra
Comunità cristiana di base si è interrogata sul tema proposto, riferendosi prima di tutto alle Sacre Scritture, e poi esaminando
La nostra, ovviamente, non è, e non vuole
essere, una trattazione sistematica di tutti i complessi problemi biblici,
storici e teologici legati alla risurrezione di Cristo; e nemmeno una
panoramica esauriente di tutte le necessarie conseguenze ecclesiali,
istituzionali e pastorali che dovrebbero derivare dalla cruciale affermazione
di fede Cristo è risorto, in verità è
risorto (il grido di gioia risuonato nelle scorse settimane in tutte le
Chiese d’Occidente e d’Oriente per annunciare
1/ cercare di capire, nelle Scritture,
quale sia il significato ultimo, e fondamentale, della risurrezione di Gesù;
2/ evidenziare, di conseguenza, come le
primitive comunità cristiane cercassero di vivere,
nella comunione e nella pace, il messaggio di Gesù, e come questo fu poi
compreso dalle Chiese;
3/ tratteggiare una descrizione della
situazione odierna dell’Italia, perché è a questo paese, in rapida, complessa e
assai problematica evoluzione, che dobbiamo cercare di parlare, e in esso soprattutto testimoniare la nostra fede;
4/ indicare il luogo e lo strumento più
adatto, secondo noi, a adottare quelle riforme che permetterebbero d’inverare,
più incisivamente, nella concreta realtà della Chiesa cattolica italiana,
l’affermazione teoretica – dirimente ma, spesso, rimasta astratta e sterile –
della risurrezione di Gesù Messia.
Attraverso l’ufficio del Vicariato di Roma
incaricato per la diocesi di coordinare il lavoro preparatorio per il IV Convegno, confidiamo che anche la nostra voce, tra le
molte altre, giunga a Verona; ma, intanto, riteniamo utile diffondere il nostro
documento, al fine di contribuire, per quel poco che possiamo, al dibattito che
dovrebbe accompagnare l’imminente appuntamento della Chiesa cattolica italiana.
I. Gesù risuscitato, l’ineffabile
dono del Padre
1/ La risurrezione di Cristo sta al centro
delle Scritture cristiane, e dunque essa sta al centro della fede della Chiesa,
di ogni Chiesa. E’ perciò d’importanza decisiva
cercare di rispondere alla domanda: ma che significa, risurrezione? Sembra evidente – come ci avvertono molti esegeti (si
vedano, ad esempio, Giuseppe Barbaglio in Gesù,
ebreo di Galilea, EDB, Bologna 2005, 2ª ed.; e Hans Kessler ne La risurrezione di
Gesù Cristo. Uno studio biblico, teologico-fondamentale e sistematico,
Queriniana, Brescia 1999) – che negli evangeli i diversi racconti sulla
risurrezione di Gesù, se presi alla lettera quasi fossero bollettini di
un’agenzia giornalistica, manifestano incoerenze, lacune e contraddizioni. Ma,
appunto, questi racconti non vanno presi alla lettera: essi non sono cronaca
ma, piuttosto, il tentativo delle prime comunità cristiane (alcune formate da
persone provenienti soprattutto dall’ebraismo, altre da gente che veniva dalle
religioni greco-romane), messo per iscritto diversi decenni dopo la conclusione
della vita terrena di Gesù, di riflettere
sulla Pasqua del Messia, e quindi di esprimere, attraverso anche
immagini mitiche, una affermazione capitale: nel piano
amoroso di Dio l’ultima parola non è della morte, ma della vita. Gesù è
certamente morto, e morto sull’infamante patibolo della croce. Ma nell’istante stesso della morte Egli è stato raccolto dal
Padre, in Lui vivendo, in Lui vivente.
2/ Che la morte non segni la definitiva
distruzione di tutto, e che l’io profondo di ogni
persona in essa e con essa non si dissolva, non si disperda, non si annulli, è
qualcosa che non si può provare razionalmente, e che sfugge totalmente a
verifica esperienziale, o scientifica. La vita – imperitura, gioiosa, traboccante, in Dio –
oltre la vita terrena la si può ammettere solo
radicandosi nella roccia della fede, cioè della fiducia nella promessa
misericordiosa di questo straordinario dono divino.
3/ Maria Maddalena, gli apostoli, i primi
discepoli e discepole hanno intuito – alla luce della fede – che il patibolo
sul quale il Maestro fu inchiodato per ordine del procuratore romano (non a
caso il Credo afferma in modo scultoreo: Gesù Cristo «patì sotto Ponzio Pilato»), non era
l’ultima e definitiva tappa di un naufragio, e di un’enorme illusione. Al
contrario, esso era il velo che nascondeva il fatto, indicibile a parole, che
l’amore di Dio è più forte della morte. La risurrezione di Gesù sgorgava
proprio – per la potenza creatrice di Dio – dalla croce, là sulla croce.
4/ Per i primi discepoli e discepole,
affermare – dopo la tremenda passione e morte alle quali avevano assistito, in
parte con sofferta, profonda, indistruttibile solidarietà; in parte con dubbi,
cedimenti, paure – che Gesù è il Vivente non era facile: come trovare le parole
per dire qualcosa che scavalca l’esperienza e la ragione umana e attinge il mistero del Regno
ultramondano di Dio? I racconti evangelici – carichi del ripensamento teologico
delle prime, e variegate, comunità cristiane – evidenziano l’ansia di
raccontare quello che, essi ammettono indirettamente, non si può raccontare con
la desiderata chiarezza: un’esperienza di fede. Perciò la questione della tomba
vuota, per dire che Gesù è davvero risorto con il suo corpo; perciò
l’insistenza su quel sepolcro; perciò
le descrizioni di pasti con il Gesù post-pasquale, per dire «noi l’abbiamo
davvero incontrato e toccato» (ma – obiezione – si potrà mai mangiare con
qualcuno che viene dal mondo ultra-terreno?); perciò la vicenda dei due
discepoli cui, mentre vanno ad Emmaus, «Gesù in
persona si accostò e camminava con loro» (Lc 24, 15), senza che essi
minimamente sospettassero chi egli fosse, fino a che «i loro occhi si aprirono,
e lo riconobbero quando a tavola con loro prese il pane, disse la benedizione,
lo spezzò e lo diede loro»; perciò Maria Maddalena (Gv c. 20), che prima
ritiene Gesù il giardiniere, e poi lo riconosce come il Signore.
5/ Il capitolo 20 di Giovanni – per
fermarci solo a quest’ultima «apparizione», ma analogo è il discorso su quella
ai viandanti di Emmaus – non è la narrazione di
un’esperienza sensibile, di un incontro con gli occhi del corpo; perciò non va
letto come l’accurata descrizione di un
fatto di cronaca. Il Risuscitato, infatti, rifulge di luce ultramondana e
inesprimibile: quando
6/ Sì, non ci sono prove che Gesù sia stato risuscitato dal
Padre, o che sia risorto per virtù propria. Esattamente come
non ci sono prove che Dio impedisce
che la morte fisica sia la totale, definitiva, irreparabile distruzione e
cancellazione di una persona. La verità stupefacente che Dio-amore è il
Dio della vita vittorioso anche sull’«ultimo nemico» (così l’apostolo Paolo – I
Cor 15, 26 – chiama la morte) non è scientificamente e apoditticamente
dimostrabile. E’ una verità di fede, una certezza che si può assumere solo
affidandosi totalmente alla Parola di Dio, superando i dubbi e le esitazioni
che una tale affermazione inaudita suscita in ognuno e ognuna di noi.
7/ Quanto siano
impenetrabili le tenebre della morte, e dunque del tutto naturale e «normale»,
anche per un credente nel Dio di Gesù, la paura di essa, ancora una volta ce
l’insegna il Rabbi di Nazareth. Egli che, sulla croce, si
vede come dimenticato da quel Padre a cui sempre si era affidato con immensa
pietà filiale; e dunque, come vero uomo – come uno di noi – geme in preda
all’angoscia di fronte all’abisso incolmabile. Non resiste come un eroe,
sprezzante dei dolori lancinanti, sentendosi sicuro che di lì a pochi minuti
tutto sarebbe passato, e lui sarebbe andato felice e
risuscitato nel Regno del Padre. Non è uno stoico che ritiene la morte fine di
tutto, e traguardo di cui gli Dèi – anch’essi infine
sottoposti al Fato immodificabile – non rispondono. E’ un credente nel Dio
della vita; perciò Gesù si domanda sgomento come mai il Padre rimanga in
silenzio di fronte alla sua implorazione e alla sua morte imminente: «Eloì, Eloì, lemà
sabactàni? – Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?». Così riporta Marco (15, 33) e, analogamente, Matteo (27, 46;
questi però usa le parole ebraiche, non l’aramaico): per i due evangelisti
queste sono le ultime parole pronunciate da Gesù. Invece
Luca (23, 46), non riporta l’invocazione drammatica di Gesù, e poi mette in
bocca al Maestro che sta per spirare un’altra parola conclusiva, ignorata dagli
altri due sinottici: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Gesù si è
fermato un istante prima di cadere nella disperazione,
e con fede suprema decide di abbandonarsi fiducioso ad un Dio che Egli chiama
ancora Padre, un Padre che però non scende a schiodarlo dalla croce.
8/ Si possono ben intuire le motivazioni delle
prime comunità cristiane che si sforzano di addurre prove inconfutabili per dimostrare che Gesù era stato davvero
risuscitato: il sepolcro è vuoto, gli angeli hanno sollevato una pietra
pesantissima che sigillava la tomba, Lui ha mangiato con noi, noi l’abbiamo
toccato… Era il tentativo, apologetico, di convincere la gente della verità della risurrezione. Tentativi a volte
coronati da successo ma, talora, in gran parte falliti, come dimostra il caso
di Paolo ad Atene. Nella grande città ellenica,
culla di una straordinaria cultura, l’apostolo, all’areopago, cerca di
convertire i greci: «”Dio ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la
terra con giustizia per mezzo di un uomo [Cristo] che Egli ha designato,
dandone a tutti prova sicura con il risuscitarlo dai morti”. Quando
sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano; altri
dissero: “Ti sentiremo su questo un’altra volta”. Così Paolo uscì da quella
riunione. Ma alcuni aderirono a lui e divennero
credenti» (Atti 17, 31-34).
9/
Sappiamo bene dei moltissimi sforzi, di teologi di ogni
epoca, di trovare le prove evidenti,
o scientifiche, della risurrezione di Gesù. Qualcuno ha notato che non si trovano
in giro reliquie di frammenti di ossa di Gesù, il che
dimostrerebbe che il suo corpo non è rimasto su questa terra, e dunque Lui è
risorto. Qualche altro, per spiegare come mai, stando agli Evangeli (così Gv
20, 19 e 26), il Cristo post-pasquale passasse
attraverso porte chiuse e mura, ha pensato a misteriosi cambiamenti fisici che
hanno trasformato il corpo corruttibile di Gesù in corpo incorruttibile e
spirituale, sottratto alle leggi che reggono l’universo della materia; insomma,
sarebbe avvenuto un sovvertimento delle leggi di natura, anticipo e caparra di
quello che accadrà un giorno al corpo di tutti i defunti che risorgeranno.
Altri, ancora, partendo dalla sindone custodita a Torino, assicurano che essa
renderebbe visibile l’istante stesso, luminosissimo, in cui Gesù fu
risuscitato, e dunque sbalzato fuori dal sepolcro dove
rimasero però le bende e il lenzuolo che rinserravano il suo cadavere.
10/ Non vogliamo esprimere giudizi su
quanti fondano su tali basi la dimostrabilità della risurrezione di Gesù.
Diremo soltanto che, per noi, tali prove non
sono risolutive e, anzi, rischiano di mettere in ombra l’esperienza di fede.
Riteniamo, infatti, che la fede nella
risurrezione di Gesù sia, appunto, una questione di fede, di nuda fede, di sola
fede, di fede spoglia, sofferta, problematica. Non vi sono sindoni, microscopi,
leggi fisiche, miracoli che possano surrogare tale
fede, o renderla facile, evidente, solare. Siamo proprio su un altro piano,
rispetto all’esperienza controllabile e verificabile con i sensi o con i sempre
più sofisticati apparecchi che la tecnica ci mette a
disposizione: siamo sul piano della fiducia nell’amore inesausto di Dio, nella
potenza del Suo Spirito vivificante. Volere, con la scienza, dimostrare che Gesù è stato risuscitato
ci appare come una tentazione pericolosa, perché mirante a sottomettere all’umana
ragione l’amore di Dio che, di per
sé, è ineffabile e sfuggente ai nostri prometeici sforzi di incapsularlo.
Nessun megacongresso di scienziati e di teologi può provare in modo apodittico la risurrezione di Gesù; la ritiene
invece vera, verissima, chi si affida alla Parola del Signore. E il mondo può essere scosso da quanti, con la loro vita,
inverano la proclamazione di fede «Cristo è davvero risorto», e osano perfino
dare la vita per testimoniarla.
11/ In effetti, la fede nella risurrezione
non solo non può rimanere un’idea astratta senza collegamento con la vita, ma,
proprio come fede, deve in qualche modo diventare esperienza personale che, se
pure è corroborata da quanto affermano nelle Scritture i primi discepoli e
discepole di Gesù, si fa però dono e scelta intima, attuale, di
ogni credente. In merito, appropriatamente il teologo catalano/indiano
Raimon Panikkar rileva: «Dovrebbe essere evidente che la fede nella
risurrezione non può essere ridotta all’accettazione della credenza dei primi
discepoli che va interpretata come un’esperienza
soggettiva che liberò un’energia psichica tale da convertirli in fondatori di
ciò che poi si chiamerà Cristianesimo.
L’intero edificio cristiano non può poggiare sulla soggettività di alcuni discepoli, per quanto intensa e sincera possa
essere stata la loro esperienza. Inoltre la fede (cristiana) deve essere
personale e dunque immediata come ogni esperienza esistenziale: non si può
accontentare di essere fede nella fede di altri, fiducia nella testimonianza di alcuni
privilegiati… Per esperienza esistenziale si intende la coscienza che tale
esperienza trasforma la nostra vita» (da La
porta stretta della conoscenza. Sensi, ragione e fede, Rizzoli, Milano
2005, pp. 61-63).
12/ Noi, vogliamo ribadirlo,
crediamo alla «realtà» della risurrezione di Gesù. Ma, per inquadrare
correttamente il senso del nostro discorso, dobbiamo ricordare la fondamentale
distinzione tra fede e sua formulazione: la prima rimanendo sempre
salda, la seconda essendo gravata da schemi culturali forse validi in un certo
tempo e in un certo luogo, ma comunque relativi e provvisori, e perciò superabili.
Nella Chiesa cattolica romana (come in altre, ovviamente) ben pochi oggi negano tale distinzione, ribadita magistralmente
da Giovanni XXIII nell’allocuzione Gaudet
Mater Ecclesia con cui l’11 ottobre 1962 aprì il Vaticano II. E la
costituzione conciliare sulla rivelazione Dei
verbum ribadisce (n. 12): per interpretare
13/ Certo, è difficile credere. Ben
sapendolo, prima di lasciare questo mondo Gesù promise di inviarci lo Spirito,
il Paraclito, l’Avvocato, Colui-che-sta-accanto, il Consolatore (cf. Gv 14, 26) che ci
accompagna nelle difficoltà della vita e con dolce insistenza ci invita ad affidarci a Lui.
14/ Comunque, a
consolazione di noi che spesso siamo portati a dubitare della Risurrezione,
l’evangelo di Giovanni (c. 20) ci parla di Tommaso che per credere vuole prove
concrete: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei
chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo
costato, non crederò». Quest’apostolo era ardimentoso e quando – in occasione
della morte di Lazzaro – Gesù aveva preannunciato
anche la sua propria drammatica fine, egli aveva esclamato: «Andiamo anche noi
a morire con lui!» (Gv 11, 16). Ma torniamo al
dopo-Pasqua. «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa, e c’era con
loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e
disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo
dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non
essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio
Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto:
beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”». Quale
che sia il genere letterario di
questo brano, ci sembra che esso indichi due ancoraggi: la beatitudine, per noi che con gli occhi non
vediamo il Risuscitato, di credere a Gesù sulla parola («Voi amate Cristo, pur
senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in Lui; perciò esultate di
gioia indicibile…», afferma I Pt 1, 8); ma, anche, come rileva Antonietta
Potente, religiosa domenicana in Bolivia, la serietà del dubbio, perché «non è
possibile vivere la fede senza toccare o lottare con il Mistero come faceva
Giacobbe [Gen. 32, 25-31], o senza osare quello che ha
osato Tommaso. Dobbiamo lasciare giocare la fede con l’incredulità» (La fede, Icone edizioni, Roma 2006, pp.
51-52).
15/ L’Evangelo ignora una fede nella
risurrezione che estranei dalla storia e rinvii tutto all’aldilà; e in nessun
caso – come ci annuncia solennemente Matteo al capitolo XXV («avevo fame, avevo
sete… ») – essa può essere il pretesto «religioso» per lasciare che altri si
sporchino le mani a cambiare le storture e strutture sociali ingiuste, mentre i
cristiani sarebbero autorizzati a starsene da parte,
indifferenti, solo intenti ad aspettare il paradiso sperato nell’altro
mondo. Quando, infatti, Gesù dice «il Regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,
21) afferma appunto che già ora, per chiunque accolga l’amore del Padre, e
cerchi di condividerlo nella vita, inizia, come un germe, la risurrezione, che
un giorno fiorirà pienamente; e quando proclama «beati i perseguitati per causa
della giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli»
(Mt 5, 10) usa il presente è, non il
futuro sarà. Perciò,
oltre a proclamare «Cristo è stato risuscitato»,
dovremmo anche proclamare che «Egli risorge»
in ogni momento della storia tutte le volte che si compie un atto di amore, o si riscatta un oppresso, o si libera un prigioniero,
o si rende giustizia ad un perseguitato, o si costruisce una pace onesta.
Calzante perciò ci sembra un pensiero (cf. Riforma,
28 aprile 2006, p. 7) del teologo
evangelico tedesco Jürgen Moltmann: «La risurrezione non è l’oppio dell’aldilà,
propinato per illusoriamente consolare, ma è la forza della rinascita in questa
vita. La speranza non ha per oggetto un altro mondo, ma la redenzione di questo
mondo».
16/ Del resto, una celebrazione della
Pasqua ritualmente perfetta, ma compiuta senza la decisione interiore di
lasciarsi afferrare dal Signore, e senza la scelta di impegnarci a diventare
«samaritani» per chi, vittima dei «briganti» (Lc 10, 30), incrociassimo
nel nostro cammino, sarebbe la contraffazione sacrilega della risurrezione di
Cristo nella storia. Molto più Pasqua – è solo un esempio, ma pregnante – è
stata una singolare celebrazione della Cena del Signore senza pane e senza
vino, ma nella solidarietà vera, avvenuta nel
17/
18/ «E il terzo
giorno risuscitò», proclamano le Scritture cristiane, e afferma il Credo stabilito dal primo Concilio
ecumenico, quello di Nicea del 325, e completato dal secondo Concilio
ecumenico, quello di Costantinopoli del 381. Nelle liturgie delle Chiese
cristiane – in Oriente e in Occidente – il racconto, lo svolgimento, il
dispiegamento del dramma della passione, morte e risurrezione di Gesù viene,
per così dire, scandito in tre giorni: il Venerdì santo
si ricorda il martirio di Gesù; il Sabato santo la trepida attesa del grande
evento; la domenica di Pasqua, infine, la finalmente avvenuta risurrezione. Le
celebrazioni liturgiche distanziano gli accadimenti nel tempo, per favorire nei
fedeli la graduale comprensione e la progressiva assimilazione dei misteri
narrati. Si tratta di una sapiente scelta pedagogica e pastorale. Tuttavia,
bisogna essere avvertiti che, il dramma che noi vediamo
riprodotto in più atti, nella realtà non fu così spezzettato o articolato. In
effetti, se in alcuni passi (Gv 2, 19) si dice che Gesù risusciterà «dopo tre
giorni», per lo più (Mt 16, 21; Lc 9, 22) Egli afferma
che risusciterà «il terzo giorno», locuzione che significa «presto», ma con
valenza teologica, non temporale. E, cioè, gli
Evangeli non si preoccupano tanto di riferire tutti i dettagli di cronaca
legati alla morte e alla risurrezione di Cristo, quanto piuttosto di aiutarci a
capire il senso profondo di tali eventi e di tali misteri per accompagnarci poi
a seguire, nella nostra vita, Gesù.
19/ Un altro elemento, poi, ci sembra di
dover tener presente quando si parla di morte e risurrezione: il background, cioè
i presupposti culturali, antropologici e filosofici con cui vengono visti la
persona umana e l’aldilà. In proposito, diversissima
era la visione ebraica da quella che, nel mondo greco-romano, si rifaceva, tra
l’altro, al Platonismo: la prima non vedeva quella divisione tra «anima» e
«corpo» così sottolineata, invece, nella
seconda; e gli ebrei non immaginavano l’anima
«prigioniera» del corpo, come sosteneva il Platonismo, e consideravano
la persona umana – uomo o donna – un’unità inscindibile. Così, per descrivere
la morte di Davide, il I Libro dei Re afferma: «Egli
si addormentò con i suoi padri, e fu sepolto nella città di Davide» (2, 10);
analoghe le parole con cui il Genesi narra gli ultimi
istanti di Giacobbe: «Quando ebbe finito di dare ai figli questo
ordine [“seppellitemi presso i miei padri nella caverna di Malpela”],
ritrasse i piedi nel letto e fu riunito ai suoi antenati» (Gen 49, 33). Pur rimanendo il cadavere ben visibile sulla terra, si
pensava che non solo l’«anima» ma, per dirla con parole moderne, la «intera persona»
del defunto «si riunisse» ai suoi padri. Senza voler qui affrontare il problema
di come il Primo Testamento e la vivente tradizione ebraica vedessero,
e vedano, l’aldilà, ci pare importante domandarci con quali parametri culturali
le Scritture cristiane abbiano parlato del «dopo morte» di Gesù e dei «tre
giorni» nei quali la sola sua «anima» si sarebbe «riunita» al Padre, prima di
potere, a Pasqua, «ricongiungersi» finalmente anche con il «corpo» del
Risuscitato che, «quaranta giorni» dopo (At 1, 3), è asceso al cielo. La
stessa, e più stringente, domanda ci si deve porre sul
Credo niceno-costantinopolitano,
tutto stilato con categorie filosofiche e teologiche gravate dalla cultura
greco-romana, senza tener conto dell’eredità ebraica. Una «esclusione» gravida
di nefaste conseguenze per le Chiese cristiane, e all’origine – con altre cause
– della dicotomia anima/corpo che fino ai nostri giorni, salvo eccezioni, ha
contraddistinto la teologia e la predicazione cristiane.
20/ Potrebbe essere buona per un film di
successo l’ipotesi che, se duemila anni fa, nella notte tra il Sabato (santo) e
«il primo giorno della settimana», ci fossero state telecamere puntate sul
sepolcro di Gesù, ad un certo punto della notte misteriosa esse avrebbero potuto riprendere l’istante della risurrezione, o
comunque, come minimo, essendo Gesù forse invisibile, documentare almeno il
fracasso di una pesante pietra sepolcrale che rotolava via smossa come una
piuma da una mano potente e misteriosa, e poi far vedere agli spettatori
ammirati la tomba vuota, invitandoli ad esclamare, insieme all’entusiasta
telecronista: «Miracolo!». Ma – noi pensiamo – seppure le telecamere ci fossero state, non avrebbero potuto documentare lo
straordinario, in quanto l’inaudito era già accaduto, come accade ogni giorno:
Dio ama talmente le sue creature da sconfiggere, per amore, la morte che
vorrebbe inghiottirle. Questa sconfitta della morte avvenne, per Gesù, proprio all’ora nona di quel tragico Venerdì, quando gridando a gran
voce emise il suo spirito, e il Padre lo raccolse e gli diede nuova e più
folgorante vita. Ma questa «ordinaria follia»
dell’Ineffabile non si poté e non si può filmare o verificare. Si può solamente
– se si vuole – crederla possibile. Una tale, difficile fede non è contro la
ragione, ma certamente è molto al di là di essa.
21/ E’ umano, e del tutto comprensibile,
che in ogni tempo tra i cristiani sorga la domanda: quando e come risorgeremo?
L’interrogativo se lo posero, ovviamente, anche le prime comunità cristiane. Ad
esse Paolo rispose affermando la risurrezione di Cristo per affermare quella
dei morti: «Si semina un corpo corruttibile, e risorge
incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e
risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo
spirituale» (I Cor 15, 42-44). Il come,
senza nulla svelare di concreto, l’apostolo
lo illustrò subito dopo con la metafora del seme che viene
sparso nella terra, ove sembra morire, e poi invece a primavera improvvisamente
fiorisce e diventa una stupenda spiga dorata. Perciò quando
nella professione di fede niceno-costantinopolitana (che si recita tutte le
domeniche nella liturgia cattolica) si afferma «Credo nella risurrezione
della carne» si proclama, appunto, la fede nella potenza creatrice di Dio che
ci sosterrà, e ci riprenderà, dopo che avremo valicato le porte della morte.
Non sarà certo la rianimazione di cadaveri, ma (in proposito il biblista
Alberto Maggi ha pagine illuminanti) una meravigliosa – e, certo, per noi sulla
terra, incomprensibile – fioritura in pienezza di tutto il nostro essere. La parusìa, il ritorno glorioso di Cristo sulla terra, il giudizio finale e,
infine, la nuova creazione (come
suggeriscono la lettera ai Romani, 8, 19-23 – «la creazione stessa attende di essere pure lei liberata dalla schiavitù della
corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» – e
l’Apocalisse, 21, 5 – «Ecco, io faccio nuove tutte le cose») ci dischiudono
panorami indicibili che non possiamo né intravedere né esplorare. Ma, nella
fede, ci affidiamo a Colui che, avendo risuscitato
Cristo, con Lui e in Lui ci risusciterà. Perché sappiamo che
«Dio è più grande del nostro cuore, e
conosce ogni cosa» (I Gv 3, 20).
II. La
testimonianza di Paolo e della Chiesa agli inizi e, poi, nello sviluppo della
storia
22/ Paolo
esprimeva ai Corinzi la sua preferenza, nelle riunioni liturgiche, per poche e costruttive parole piuttosto che per
lunghi, sapienti e ispirati discorsi (cf I Cor, cap. 14). Per questo, riteniamo
che la sua figura e la sua predicazione dovrebbero essere per noi
particolarmente pregnanti proprio perché lui,
l’apostolo dei gentili, si rivolge principalmente a noi, che non siamo
discendenti di Abramo secondo la carne, ma ulivi selvatici innestati su quella
«radice santa» (Rom 11, 16) dalla quale sia lui che Gesù erano sorti. La figura
di Paolo era un tempo preminente nella Chiesa di Roma, unita poi a quella di
Pietro in segno di continuità con
23/ Qui vogliamo rilevare che l’annuncio
dell’apostolo non si risolveva nel proporre una nuova serie di leggi in luogo
delle antiche, né in un’astratta adorazione del Risorto, né in estatiche
esperienze o in paralizzanti attese della parusìa,
ma nella totale adesione di fede all’unica legge dell’amore proclamata e
testimoniata da Gesù, legge che deve essere iscritta nei
nostri cuori e operosa nella nostra prassi se osiamo dirci cristiani.
Questa «fede operante mediante l’amore»
(Gal 5,6) si sperimentava innanzi tutto all’interno delle singole comunità (ecclesiae): nel rispetto dei vari
carismi, utili tutti al bene e all’armonia comuni; nel porre l’Eucaristia a
discrimine tra solidarietà ed egoismo; nel valorizzare la partecipazione
collettiva alle scelte più importanti; nel farsi voce dello Spirito che parla
alle Chiese; nel sottolineare, come già aveva fatto
Gesù, che il ricoprire posti di responsabilità, lungi dal costituire un
privilegio od una prerogativa, sollecitava maggiore spirito di servizio. Il
comportamento esemplare della comunità equivaleva in tal modo ad una
testimonianza del Risorto tanto più efficace
all’esterno in quanto non basata sulle parole ma sui fatti (I Tess 1, 6-8). Perciò, a ben guardare, ci sembra che vada del tutto
superata un’interpretazione della morte di Cristo sulla croce come sacrificio necessario per placare, con il suo sangue e il suo martirio, l’ira
di Dio contro l’umanità peccatrice, incapace di liberarsi dal «male oscuro» che
la sovrasta. L’ignominia della croce, piuttosto, svela e mette
a nudo i meccanismi della violenza contro l’Innocente, e il
comportamento di Gesù indica a noi la possibilità di superarli aderendo al Suo
messaggio e alla Sua umanità (cf. Rom. 8, 1-4).
24/ Così Paolo
riuscì a convincere la sospettosa Chiesa «dei santi» di Gerusalemme che la
circoncisione del cuore, come già proclamato da Geremia (9, 25 e 31, 31-34) era
più importante di quella della carne, e che l’irruzione dei tempi ultimi
costringeva a vedere con occhi nuovi, secondo l’annuncio dei profeti, la
veneranda tradizione della Torah,
25/ Già dalla fine del primo secolo
l’incremento numerico dei fedeli e delle comunità, l’allontanarsi nel tempo
della prospettiva della parusìa che
tutto avrebbe risolto, la scomparsa
della prima generazione dei testimoni con la loro autorevolezza e col loro
entusiasmo, i tentativi – provocati dal contatto con la filosofia greco-romana
– di approfondimento teologico del mistero
dell’Incarnazione, posero problemi di carattere dottrinale cui si pensò di ovviare
accentuando il carattere istituzionale e gerarchico della struttura
ecclesiastica (cf. le lettere cosiddette pastorali
– a Tito e a Timoteo, attribuite a Paolo, ma certamente non sue – e le prime
lettere della tradizione post-apostolica:
26/ Ciò favorì un progressivo svilimento
delle prerogative dell’assemblea, per eccesso di delega ai responsabili – per
Ignazio di Antiochia non c’è ecclesia se non dove c’è il vescovo, e a lui subordinata – e
innescò la deleteria spaccatura tra chierici
e laici. Una
spaccatura (come più ampiamente abbiamo cercato di spiegare nel nostro
documento citato al n. 22) che si fece più esplicita, e più radicale, nel secolo
IV, quando con Costantino il cristianesimo diviene religione lecita e, con Teodosio, obbligatoria nell’impero romano.
Le Scritture cristiane – nella Lettera agli ebrei – chiamano
infatti sacerdos e pontifex soltanto
il Cristo (ma Gesù era un «laico»,
non apparteneva a famiglie di sacerdoti del tempio di Gerusalemme o di
leviti!); ma non danno mai una tale qualifica agli apostoli e ai discepoli,
denominandoli invece, semplicemente, ministri,
diaconi (servitori), presbiteri (anziani) ed episcopi (sorveglianti). Non questa,
tuttavia, è stata la scelta del Cristianesimo trionfante. Esso, quasi
riadattando alla nuova situazione alcuni aspetti della casta sacerdotale
dell’antico tempio ebraico, e anche occhieggiando l’organizzazione greco-romana
del sacro, si riempie di sacerdozio e
di sacerdoti: una struttura lontana
dalle parole e dalla prassi di Gesù, e dimentica dell’Evangelo, secondo il
quale, quando il Rabbi di Nazareth spirò, «il velo del tempio si squarciò in
due da cima a fondo» (Mt 27, 51). Annotazione, questa, non certo di cronaca, ma
affermazione teologica capitale, per indicare che era cancellata per sempre
l’intera struttura sacerdotale composta da uomini
«mediatori» e «ponti» necessari tra il credente e l’Altissimo.
27/ Dopo il tentativo, con
28/ La divisione dei cristiani in due generi – chierici e laici – ha consumato
a poco a poco (sia pure con eccezioni) la piena partecipazione di tutti i
battezzati alla vita della Chiesa, aprendo poi un’ulteriore dolorosa divisione,
tra un genere dominante ed
accentratore, quello dei maschi, ed un genere
dominato e dipendente, quello delle donne. La questione è tanto più
sorprendente ed amara perché proprio ad una donna, Maria Maddalena – secondo il
racconto di Giovanni (c. 20) – il Risuscitato affida il compito di annunciare
ai «fratelli» e ai «discepoli» la sua risurrezione. Se
anche, come dicevamo, la cronaca non andò proprio così, ci si deve domandare
quale sia l’insegnamento permanente che soggiace a tale narrazione, che pone
una donna – testimone non credibile, secondo la mentalità di allora –
all’inizio della lunga catena dei discepoli e discepole che grideranno «Gesù è
davvero risorto». E’ interessante notare che, seppure con variazioni, il
vangelo più antico, quello di Marco (c. 16), poi quello di Matteo (c. 28), e
infine quello di Giovanni, il più recente dei quattro evangeli, pongono l’annuncio di Maria Maddalena (insieme ad altre
donne) come il primo anello della proclamazione della risurrezione anche agli
altri apostoli. Non è certo casuale, una tale «primogenitura», e se le
Scritture cristiane l’hanno affermata e confermata, bisognerà interrogarsi sul
suo significato profondo. In altre parole: se le donne sono le prime a credere
nella risurrezione, e ad annunciarla a Pietro e agli altri, vi saranno mai,
nella comunità cristiana, ministeri per volontà di Dio negati ad esse? Molte sono le ragioni – culturali, cultuali,
antropologiche, storiche, teologiche – che hanno portato le Chiese, nei secoli,
ad escludere progressivamente la donna dai ministeri, riservando questi al
maschio. Ma oggi – risvegliati dal femminismo, dal progredire
della società, oltre che da una rinnovata riflessione biblica e da un accurato
ripensamento teologico – riteniamo non più possibile continuare a sostenere, e
attribuendo questo NO alla volontà permanente di Cristo, che le testimoni della
risurrezione di Gesù non possono presiedere
III. A «quale Italia», e «come»,
29/ Cerchiamo ora, assai brevemente e per
flash, di chiederci: com’è questa nostra Italia oggi, cioè
il paese al quale e per il quale primariamente
30/ Sul «chi siamo», come italiani,
autorevoli istituti di indagine e di studio sulla vita
individuale e collettiva del nostro paese segnalano, oggi, una crescita delle
disuguaglianze e delle disparità: convivono dolorosamente arricchimenti
ingiustificati e impoverimenti inattesi. Qualcosa di profondo si è verificato
nel nostro paese: adesso, oltre che tra Sud e Nord, l’Italia – documentano le
analisi del Censis – si trova, per così dire, divisa verticalmente: tra chi,
malato, può curarsi convenientemente, e chi fatica ad avere un intervento
chirurgico pur necessario; tra i ricchi che si arricchiscono sempre più e i
molti che hanno difficoltà ad arrivare a fine mese, e
debbono magari indebitarsi; tra chi è onesto e paga le tasse, e chi evade
«normalmente» il fisco. Se nel 2001 l’evasione fiscale era stimata in 140
miliardi di euro, nel 2005 essa è indicata in 248
miliardi. Il messaggio – arrivato proprio da individui o gruppi più abbienti,
presenti anche a livello elevatissimo nel governo che ha guidato l’Italia dal
2001 all’aprile 2006 – è stato questo: essendo il carico fiscale eccessivo, non
vi è un obbligo civile e morale di contribuire, secondo le leggi vigenti e in
proporzione ai propri redditi, alle esigenze collettive della società.
31/ Sulla precarietà delle vite delle
lavoratrici e dei lavoratori, soprattutto le giovani e i giovani, rende testimonianza un’ampia letteratura; titoli come Tu quando scadi, Un anno di corsa, Tutt’al
più muoio, Vita precaria e amore eterno, La generazione low cost, Non ci sono santi scandiscono le ore e i
giorni delle famiglie e dei loro ragazzi e ragazze. Le
giovani generazioni vivono la sensazione «che gli adulti si siano defilati
dalla storia scivolando in un rassegnato disimpegno; che la cultura, la scuola,
la ricerca scientifica siano parole rituali, pronunziate dai genitori e dai
ministri senza convinzione e senza speranza; che la semi-occupazione
rappresenti l’unico approdo in cui vegetare, come su bagnasciuga senza tempo» (Domenico De Masi, sociologo). «La
protesta contro la precarietà è vicina alla soglia di esplosione anche in Italia; il primo Maggio è
ribattezzato da molti giovani in “festa di San Precario”» (così si esprime
l’economista Michele Salvati). A fronte di tanta povertà e precarietà, stanno
una sfacciata esibizione di lusso e provocatorie
speculazioni finanziarie.
32/ Con fatica e in un certo isolamento –
sommersi come sono dalle numerose televisioni – studiosi laici, spesso non
credenti, indagano quotidianamente nelle pieghe delle nostre società e ci
segnalano una preoccupante mutazione
antropologica. Scrivono e dicono che il
paese è esploso. Rilevano come negli ultimi dieci o quindici anni una forza
irresistibile si è sprigionata dentro la nostra società; come un impulso che ha
fatto scoppiare le psicologie e i comportamenti, proiettandoli in frantumi
sulla scena e sulle platee della post-Italia.
Perciò, di fronte allo show nazionale, si potrebbe cadere nel moralismo più cupo. Si ha
l’impressione di un paese senza: senza
istituzioni, senza etica, senz’anima. Imperano i reality shows, dai quali vengono proposti
«progetti di vita».
33/
Contemporaneamente siamo consapevoli delle presenza di
molte potenzialità positive, di grandi forze vive e sane in tanti settori della
società, di energie generose capaci di spendersi per il paese, per la legalità,
per la giustizia sociale, per la solidarietà, per la pace nel mondo. Tra queste
molte realtà – speranza per il futuro - vogliamo in particolare sottolineare la presenza di una vasta e davvero preziosa
rete del volontariato sociale, religioso e non, che impegna centinaia di
migliaia di uomini e donne, ragazzi e ragazze. Una tale realtà non si può né
dimenticare né sottovalutare. E, tuttavia, essa non oscura il
segno che grava sulla società del nostro paese: quello di un paese smarrito. Una tale
mutazione del paese è anche responsabilità dei gruppi dirigenti politici e
istituzionali: una responsabilità raramente denunciata e contrastata con forza
dai vertici della Chiesa cattolica italiana, forse paghi delle «facilitazioni»
fiscali e normative ottenute dai governanti. Noi pensiamo comunque
che sia dovere comunitario dell’intera Chiesa italiana, nella varietà delle sue
componenti e nella distinzione dei compiti e delle responsabilità, scrutare
questi «segni dei tempi», per rispondervi con franchezza, umiltà e prontezza di
conversione. Senza la pretesa di avere, essa sola, ricette
pronte, risolutive e definitive.
34/ La domanda è: come è
potuta avvenire questa mutazione? Mentre nel contempo
35/ Negli Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio
2000 (29 giugno 2001) si afferma: «Guardiamo con interesse alla ricerca di senso
che sta, almeno un poco, riavvicinando molti uomini e donne del nostro paese
all’esperienza religiosa e in particolare a Gesù Cristo». Quindi, si formula il
proposito di un «progetto culturale
orientato in senso cristiano»; e si esplicita questa
missione: «Tutte le Chiese particolari e ciascuna delle nostre piccole o grandi
comunità devono prestare attenzione a questa conversione culturale, in modo che
il vangelo sia incarnato nel nostro tempo, per ispirare la cultura e aprirla
all’accoglienza integrale di tutto ciò
che è autenticamente umano». Il percorso di preparazione verso Verona prevede
che il Servizio nazionale per il Progetto culturale (una nuova istituzione
ecclesiale?, ci domandiamo) attivi una serie di
iniziative ad hoc.
36/
Ma – siamo convinti –
37/ Comunque,
intanto che veniva progettato e comunicato questo progetto culturale, cos’è avvenuto nel cattolicesimo italiano?
Un’indagine molto approfondita sui cattolici nel nostro paese (Programma di
ricerca, diretto da Ilvo Diamanti, Università di Urbino,
38/ Oggi forte
incombe una tentazione sulla gerarchia cattolica italiana: quella di una sorta
di volontà di «rivincita». Sconfitta nei referendum sulle leggi sul divorzio
nel ‘74 e sull’aborto nell’81 (quando essa, salvo eccezioni, si spese per far prevalere il SI’
all’abolizione delle rispettive leggi), ma galvanizzata dalla «vittoria» del
referendum sulla procreazione medicalmente assistita, nel giugno 2005 (quando
essa esortò cattolici e non cattolici a disertare le urne, per far mancare il quorum e quindi rendere nulla la
consultazione) cerca in ogni modo di dimostrare quanto
39/ Noi ci sentiamo a disagio in una
proclamazione del Cristianesimo civile,
e ci lascia molto perplessi un tipo di magistero che sembra sostenerlo (il che,
del resto, emerge soprattutto nel nostro Paese, considerato forse dal Vaticano
un sorvegliato speciale nel contesto europeo). Riteniamo poi del tutto improponibile che
l’episcopato – parliamo di esso come corpo, a prescindere dalle poche, coraggiose
eccezioni di singoli vescovi – si appelli, nell’esercizio del suo ministero,
alla Costituzione italiana. La magna
charta, infatti, rappresenta,
potremmo dire, la bibbia civile sulla
base della quale uomini e donne di diverso orientamento politico e culturale e
di diverse religioni e fedi organizzano la comune convivenza. In nome di essa è possibile l’affermazione e la pratica di posizioni
anche di parte ma non prevaricanti; mai, neppure in nome del vangelo. Con
questo fondamentale approccio e con questo prioritario metodo, i cristiani –
qualunque sia la funzione profetica e ministeriale che esse ed essi sono
chiamati a svolgere nella Chiesa di Gesù risorto – devono affrontare, di fronte
e insieme agli altri e alle altre, uomini e donne, le
complesse questioni dell’etica individuale
e pubblica, della convivenza delle diverse culture, della compresenza delle
diverse religioni e dello stare insieme nello stesso spazio pubblico, di tutti e di tutte. D’altronde, di fronte al grande numero di pronunciamenti episcopali riguardanti la
morale sessuale, familiare, ed embrionale, vi è stata, soprattutto negli ultimi
cinque anni, l’assenza dell’incidenza cattolica sulle grandi questioni dell’ethos pubblico, tra cui – sempre più
drammaticamente – la perdita di una cultura dei diritti e della legalità.
40/ In particolare, poi, dobbiamo rilevare
la drammatica latitanza di un pronunciamento inequivocabile sulla questione
delle guerre in Afghanistan e in Iraq. In proposito, nessuno può dimenticare
che la presidenza della Cei nel 2003 diede l’avallo morale alla cosiddetta
«missione di pace» militare italiana a Nassiriya, una «missione» che moltissimi
italiani, e cattolici italiani, hanno considerato e considerano un appoggio
alla guerra, illegale e immorale, intrapresa dagli
anglo-americani contro Baghdad.
41/ In tale contesto
è motivo di speranza la presenza, anche in Italia, di molti gruppi cattolici,
associazioni e singoli – vescovi, preti, laici, uomini e donne – che in questi
anni hanno gridato forte la profezia della pace, e si sono impegnati opportune et importune per ricordare a
tutti, alle Chiese come alla società civile, le esigenze imprescindibili della
pace nella giustizia in Iraq, nel conflitto israelo-palestinese, nelle guerre
in Africa nelle regioni dei Grandi Laghi e del Darfur, in Centro-America. E, per quanto riguarda i problemi più propriamente italiani,
come dimenticare quei laici e preti di frontiera che si sono opposti (anche a
prezzo della vita) contro le varie mafie? Come non esprimere solidarietà,
carica di affetto, a vescovi come quello attuale
[mons. Giancarlo Bregantini] di Locri,
dove da anni è impegnato in prima persona, malgrado aspre difficoltà e tante
insidie, a sollecitare le genti calabresi a mantenere salda la legalità, e a
contrastare con tenacia la dilagante ‘Ndrangheta?
42/ Un altro problema – distinto da quello
della religione civile, ma per molti
aspetti ad esso collegato – bussa alle porte anche
della Chiesa cattolica: una sorta di «rivincita» della dimensione religiosa. Siamo naturalmente consapevoli che il secolo
appena concluso ci consegna profonde trasformazioni sociali: crisi della forma
tradizionale della famiglia; una diversa consapevolezza, individuale e sociale,
della sessualità; il femminismo; la nascita della società di massa; la globalizzazione
(prima incipiente con la internazionalizzazione della
economia, poi pervasiva con la
rivoluzione informatica e delle comunicazioni); l’espropriazione e la
privatizzazione dei beni comuni globali come l’acqua e l’outer space (lo spazio esterno alla terra)… che hanno generato e
consolidato una psicologia di massa dell’incertezza, con una perdita di senso
nella vita collettiva e individuale. Siamo altresì consapevoli che una
superficiale e sbrigativa concezione della
modernità porta a sottovalutare che questa incertezza
genera un forte bisogno di significato, cui una delle risposte sta proprio
nella proliferazione dei nuovi movimenti religiosi, registrata dalla fine degli
anni Sessanta in poi. A questa incertezza e alla
richiesta di significato che le è sottesa,
43/ Insomma, in un mondo
caratterizzato da una mutazione frenetica e rapidissima – antropologica,
sociale, economica, tecnologica e culturale – che origina anche confusioni,
smarrimenti, ribellioni e deliri, ci sembra che
44/ In tale contesto,
tra le molte sfide che oggi si pongono alla Chiesa italiana, una delle più
grandi, ci sembra, è la crescente presenza nel nostro Paese di genti
provenienti da altri paesi, anche extraeuropei, e portatrici quindi di
patrimoni culturali e religiosi diversi dai nostri. Cessata, si spera, ogni
velleità di riduzione a
uno di ciò che è diverso, mediante indottrinamento più o meno forzato,
dovremmo invece riandare alle origini della nostra fede, tornare ad essere
lievito e sale, senza pretendere di essere il tutto. Dovremmo dunque saper
offrire una testimonianza credibile e coerente della nostra fede ai fratelli e
sorelle che l’evolvere della storia ci pone accanto come compagni di viaggio. Del tutto negativa ci pare perciò la tentazione di
arroccarsi in una difesa ostinata di una verità che noi cristiani per primi
dovremmo sapere di non possedere mai totalmente, visto che essa è una meta
verso la quale ci accompagna e sospinge lo Spirito Consolatore (Gv 14, 26),
forse anche attraverso questi incontri con genti diverse. Incontri che, a
livello di convivenza civile, richiedono l’accettazione di regole comuni, da
adattarsi naturalmente alla nuova situazione mediante gli organi democratici a
ciò preposti; e, a livello di fede, richiedono rispetto e attenzione reciproca
ma non uniformità; anzi, dal confronto le varie fedi dovrebbero trarre stimolo
per una riflessione su se stesse e per una vera e propria conversione che non è più quella da una fede all’altra ma da una
fede sterile a quella operante mediante l’amore, perché le fedi non sono al servizio
di se stesse, ma delle persone (non esiste la fede, da sola; esistono i/le
credenti!). Per fare alcuni esempi: non bastano certo un velo o un saio per
rendere chi li indossa timorato/a di Dio secondo la rispettiva fede; non basta un
crocifisso imposto per legge sulla parete per santificare un consiglio di
amministrazione dove si gioca sulla pelle dei poveri; o un tribunale dove non
si dà giustizia ai deboli; o una sala d’ospedale dove la sofferenza è lasciata
a se stessa. In quei casi la memoria del Risorto è profanata. Quindi, prima di
fare lotte per non perdere posizioni sui muri, ci si impegni
per iscrivere quel segno, con tutto ciò che rappresenta, nei nostri cuori. La
circoncisione della carne non conta nulla, diceva inascoltato Paolo di Tarso,
se la nostra fede cristiana non è visibile; e se è visibile come deve essere, cioè come servizio e non come potere, nessuno ne sarà
scandalizzato, anzi si troveranno sorprendenti affinità tra le fedi e le
culture, che oggi sono sbandierate come spauracchi e temute assai più del
peccato.
45/ In questo panorama – che abbiamo
appena sfiorato – come testimoniare la fede nel Cristo risorto con l’umiltà e
la sincerità di chi si mette alla sequela
di Gesù senza pretendere di avere la soluzione
a tutte le attese dell’umanità e, anzi, accrescendo il rispetto e la simpatia
verso ogni forma di ricerca di senso, e riconoscendo con gioia che anche
persone che si proclamano «atee», o «agnostiche», sanno impegnare la loro vita
per la giustizia, la solidarietà, la pace, a ciò spinte
semplicemente dall’amore per chi soffre e per chi è oppresso? Come resistere
alla tentazione – secondo le parole indimenticabili di Dietrich Bonhoeffer (in Resistenza e resa, Bompiani, Milano
1969, pp. 241 e 259) – di «far
comparire Dio come tappabuchi dei nostri vuoti di conoscenza», e considerando
come peccato quella metodologia di
comunicazione del nostro essere cristiani che, nota ancora il teologo luterano
tedesco, «fiuta la pista dei peccati umani, per poter prendere in castagna» la
debolezza e le sconfitte dell’umanità di cui siamo
parte? Noi cristiani e cristiane di base esprimiamo la
duplice consapevolezza che: camminare quotidianamente con tutte le persone di
buona volontà nell’impegno per la progressiva e incessante umanizzazione della
società, sia anche una testimonianza di fede nel Risorto; e che – citiamo il
teologo domenicano francese Claude Geffré, il cui pensiero bene dipinge quale
dovrebbe essere oggi il mutamento di prospettiva anche della Chiesa cattolica
in una Italia ove in pochissimi anni l’Islam è divenuto numericamente la
seconda religione del Paese – «(assistiamo) a grandi mutazioni all’interno del
pensiero cristiano, dove occorre riconoscere che stiamo vivendo una svolta
teologica che si pone sotto il segno di un nuovo paradigma, quello del
pluralismo religioso. E’ la risposta a una situazione
storica nuova caratterizzata non più, come nel secolo scorso, dall’indifferenza
religiosa e da una secolarizzazione sempre trionfante, ma dalla pluralità delle
fedi religiose» (Concilium, 3/2005).
E’ in tale contesto che dobbiamo interrogarci se sia
possibile annunciare in modo credibile «Cristo
è davvero risorto» se poi,
insieme, non c’è l’uomo nuovo, la nuova creatura che sorge in e da questo annuncio.
IV.
Verso un Concilio della Chiesa cattolica italiana?
46/ Per
47/ Quest’ampia schiera delle e dei
testimoni, ci consola; ma, in controluce, essa obbliga a porsi una domanda
inquietante: come mai per molti cristiani, ieri e oggi, la fede nella
risurrezione di Cristo non ha significato e non significa praticamente
nulla? Come mai è cresciuta in tanti cristiani la religione
(ciò che si pensa di dover dare a Dio, per acquistare meriti; essa dà sicurezza
ma toglie libertà), ma non invece la fede (il riconoscimento di ciò che Dio ci
dona gratuitamente; essa toglie sicurezza ma dà libertà)? Come mai le
Chiese, come istituzioni, troppo spesso non si sono lasciate scuotere
nell’intimo dalla proclamazione della risurrezione, ragione ultima del loro
esistere? Per dare una risposta adeguata bisognerebbe fare la storia della
Chiesa e delle Chiese. Senza osare quest’impresa impervia, a noi pare di poter
intravedere una prima spiegazione del fatto che, troppo spesso,
48/ L’esame di coscienza non esime
nessuno; ma qui ci limitiamo a parlare di noi stessi, e della Chiesa cattolica
italiana. Per quanto riguarda noi stessi – in quanto
Comunità cristiana di base – abbiamo spesso constatato non solo l’asperità
teorica a credere in Cristo veramente
risorto, ma anche la resistenza pratica a tradurre nella vita quotidiana
l’annunciata proclamazione. Ci è infatti difficile
mantenere viva e squillante la fede nel Risuscitato (una fede, beninteso, che
non esclude dubbi e inquietudini,
soprattutto di fronte a morti dolorose o improvvise) e, nel contempo, trarre da
essa, con serena costanza, le conseguenze che ne dovrebbero derivare. Per
ognuno e ognuna di noi, e per noi come Comunità, spontanea allora ci sgorga dal
cuore la preghiera a Gesù del padre del ragazzo epilettico: «Credo [che tu
possa guarire mio figlio], aiutami nella mia incredulità» (Mc 9, 24).
49/
Grandi domande, poi, ci sentiamo di dover porre alla
Chiesa istituzionale e all’episcopato italiano. E’ possibile, a quarant’anni
dal Vaticano II, continuare ad ignorare, in concreto, le conseguenze che
dovrebbero derivare dall’affermazione della Gaudium
et spes, e cioè che «
50/ E’ troppo evidente che non esiste
annuncio credibile della risurrezione – annuncio testimoniale che deve essere
dato dalla Chiesa nel suo insieme e, in essa, anche
dall’episcopato come corpo – se non accompagnato dalla decisione di mantenere
51/ A quarant’anni dalla conclusione del
Concilio Vaticano II manca ancora, nella Chiesa italiana, un organo pubblico e
canonicamente garantito ove sia istituzionalmente possibile il dialogo tra le
varie componenti della comunità ecclesiale. Sarebbe
già un passo attivare davvero a livello nazionale – applicando il principio
della sussidiarietà – un Consiglio presbiterale (solo preti) e un Consiglio
pastorale (preti e laici) della Chiesa italiana. Questi organismi dovrebbero di
norma essere interpellati dall’episcopato su tutti i problemi – istituzionali,
pastorali, teologici, canonici – che interessano l’intera Chiesa italiana; e le
discussioni in tali organismi dovrebbero essere pubbliche. Infatti, se i
vescovi ritengono loro compito esclusivo, infine, decidere, non si vede perché,
prima, non possano e non debbano ascoltare formalmente preti e laici, come era pur buona norma nei primi secoli della Chiesa.
52/ A quarant’anni dalla conclusione del
Vaticano II i dibattiti interni alla Conferenza episcopale italiana – Assemblee
generali comprese – continuano ad essere riservati. Al «popolo di Dio», in
Italia, non viene riconosciuto il diritto-dovere di sapere se, e perché, un vescovo, ha
approvato, o respinto, una certa proposta. «Non si vogliono pressioni, o strumentalizzazioni», si ripete. Ma, allora, che cosa significa quella
«partecipazione» di tutti alla vita della Chiesa così caldamente raccomandata
dal Concilio?
53/ A quarant’anni dal Vaticano II le
voci critiche, i teologi e teologhe, e i cenacoli, gruppi e comunità che pongono
problemi fastidiosi all’establishment ecclesiastico
sono sempre tenuti alla larga.
54/ Si dirà: queste critiche sono
ingenerose, visto che è imminente la convocazione del IV
Convegno ecclesiale. Ma ci si perdoni se – guardando
la storia dei tre precedenti Convegni, e osservando i documenti ufficiali
preparatori dell’appuntamento veronese – noi riteniamo di non poter fare a meno
di evidenziare i limiti costitutivi di tale organismo. Un vero dibattito e un
vero confronto, infatti, non si possono fare su affermazioni generalissime e
vaghe, ma solo su problemi concreti e precisi. Ricordiamo, certo, che al
convegno di Roma, trent’anni fa, erano emerse voci
critiche, sia dal palco dei relatori ufficialmente invitati, che dalla base; ed
erano spuntate, qua e là, proposte operative per favorire davvero la collegialità e la partecipazione. Ma poi tali voci e
proposte furono inghiottite dal nulla. Ricordiamo, ancora, che al convegno di
Loreto, ventuno anni fa, l’allora presidente della Cei, card. Anastasio
Ballestrero, arcivescovo di Torino, fece intravedere la fine del collateralismo
della Chiesa italiana con
55/ Per tali ragioni, mentre di cuore
auspichiamo che anche a Verona emergano voci e testimonianze che innervino la
piattaforma ufficiale davvero povera di proposte innovative, abbiamo
l’impressione che la stagione dei Convegni ecclesiali, come finora celebrati,
sia esaurita. Bisognerebbe (questo il nostro
desiderio, che abbiamo motivo di pensare condiviso da molti e molte nella
Chiesa italiana) voltare pagina, finalmente, e volare alto. Dopo Verona non
sarebbe dunque il caso di cominciare ad ipotizzare un percorso conciliare che sbocchi poi effettivamente in un Concilio
della Chiesa cattolica italiana? Questo cammino,
e poi questo evento – se aperti
all’ascolto di tutte le voci, e capaci di accogliere rappresentanze delle varie
componenti della Chiesa italiana, senza settarie
preclusioni – sarebbero il luogo e lo strumento opportuno ove affrontare
problemi nodali e incombenti: la laicità dello Stato; il Concordato e le Intese
applicative; il rapporto tra normative ecclesiastiche e leggi civili; la
connessione tra il ministero del vescovo di Roma, «primate d’Italia», e
56/
57/ A conclusione delle nostre riflessioni
vogliamo riportare alcuni brani del Mio
prefazio a Pasqua (da Il sesto Angelo, Mondadori, Milano 1976,
pp. 387-388), una poesia di un grande testimone cristiano del nostro tempo,
padre David Maria Turoldo, con l’auspicio che essa sia inserita nella cartella
delle delegate e dei delegati al IV Convegno ecclesiale. Infatti, ci sembra che
queste parole, cariche di irruenza profetica, bene
delineino quello che non dovrebbe
essere, e fare, e quello che invece dovrebbe
essere e fare, una Chiesa che creda: «Cristo è veramente risorto».
Io voglio sapere
se Cristo è veramente risorto
se
che sia veramente risorto.
Perché allora è una potenza,
schiava come ogni potenza?
Perché non batter le strade
come una follia di sole,
a dire: Cristo è risorto, è risorto?
Perché non si libera dalla ragione
e non rinuncia alle ricchezze
per questa sola ricchezza di gioia?
[…]
Mia Chiesa amata e infedele,
mia amarezza di ogni domenica,
Chiesa che vorrei impazzita
di gioia
perché è veramente risorto.
E noi grondare luce
perché vive di noi:
noi questa sola umanità
bianca a ogni festa
in questo mondo del nulla e della
morte.
Amen.
* * * * * * * * * * * * *
*
Roma, 19 maggio 2006,
memoria liturgica di papa san Celestino V