«SE UNA CHIESA TESTIMONIA LA RISURREZIONE DI GESU’»

 

          CONTRIBUTO DELLA COMUNITA’  CRISTIANA  DI SAN PAOLO IN ROMA

          al  percorso nazionale itinerante verso il IV Convegno ecclesiale italiano di Verona

                                               

Premessa: le motivazioni di una ricerca

Per la quarta volta in trent’anni – dopo quello di Roma del 1976, di Loreto dell’85 e di Palermo del ‘95 – la Chiesa cattolica italiana si accinge a celebrare a Verona (16-20 ottobre 2006) un Convegno ecclesiale nazionale, questa volta sul tema Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. In vista di tale importante appuntamento, la Conferenza episcopale italiana (Cei) ed il comitato ad hoc dell’incontro veronese hanno invitato tutte le variegate strutture, presenze ed esperienze ecclesiali cattoliche del nostro paese ad offrire un loro contributo per preparare al meglio l’evento, e favorire un dialogo che, noi pensiamo, non potrà che essere aperto, intenso e costruttivo.

     Accogliendo volentieri tale invito – e come, per analoghi appuntamenti, già aveva fatto in passato – anche la nostra Comunità cristiana di base si è interrogata sul tema proposto, riferendosi  prima di tutto alle Sacre Scritture, e poi esaminando la Traccia di riflessione in vista di Verona (pubblicata il 29 aprile 2005 dalla commissione preparatoria presieduta dal card. Dionigi Tettamanzi, arc. di Milano), e anche ripensando alla propria stessa piccola storia; ed ora offre alla più vasta comunità ecclesiale le sue riflessioni, i suoi interrogativi e le sue proposte.

    La nostra, ovviamente, non è, e non vuole essere, una trattazione sistematica di tutti i complessi problemi biblici, storici e teologici legati alla risurrezione di Cristo; e nemmeno una panoramica esauriente di tutte le necessarie conseguenze ecclesiali, istituzionali e pastorali che dovrebbero derivare dalla cruciale affermazione di fede Cristo è risorto, in verità è risorto (il grido di gioia risuonato nelle scorse settimane in tutte le Chiese d’Occidente e d’Oriente per annunciare la Santa Pasqua). Ci limitiamo, brevemente, a:

    1/ cercare di capire, nelle Scritture, quale sia il significato ultimo, e fondamentale, della risurrezione di Gesù;

    2/ evidenziare, di conseguenza, come le primitive comunità cristiane cercassero di vivere, nella comunione e nella pace, il messaggio di Gesù, e come questo fu poi compreso dalle Chiese;

    3/ tratteggiare una descrizione della situazione odierna dell’Italia, perché è a questo paese, in rapida, complessa e assai problematica evoluzione, che dobbiamo cercare di parlare, e in esso soprattutto testimoniare la nostra fede;

    4/ indicare il luogo e lo strumento più adatto, secondo noi, a adottare quelle riforme che permetterebbero d’inverare, più incisivamente, nella concreta realtà della Chiesa cattolica italiana, l’affermazione teoretica – dirimente ma, spesso, rimasta astratta e sterile – della risurrezione di Gesù Messia.

     Attraverso l’ufficio del Vicariato di Roma incaricato per la diocesi di coordinare il lavoro preparatorio per il IV Convegno, confidiamo che anche la nostra voce, tra le molte altre, giunga a Verona; ma, intanto, riteniamo utile diffondere il nostro documento, al fine di contribuire, per quel poco che possiamo, al dibattito che dovrebbe accompagnare l’imminente appuntamento della Chiesa cattolica italiana.

 

I. Gesù risuscitato, l’ineffabile dono del Padre

 

     1/ La risurrezione di Cristo sta al centro delle Scritture cristiane, e dunque essa sta al centro della fede della Chiesa, di ogni Chiesa. E’ perciò d’importanza decisiva cercare di rispondere alla domanda: ma che significa, risurrezione? Sembra evidente – come ci avvertono molti esegeti (si vedano, ad esempio, Giuseppe Barbaglio in Gesù, ebreo di Galilea, EDB, Bologna 2005, 2ª ed.; e Hans Kessler ne La risurrezione di Gesù Cristo. Uno studio biblico, teologico-fondamentale e sistematico, Queriniana, Brescia 1999) – che negli evangeli i diversi racconti sulla risurrezione di Gesù, se presi alla lettera quasi fossero bollettini di un’agenzia giornalistica, manifestano incoerenze, lacune e contraddizioni. Ma, appunto, questi racconti non vanno presi alla lettera: essi non sono cronaca ma, piuttosto, il tentativo delle prime comunità cristiane (alcune formate da persone provenienti soprattutto dall’ebraismo, altre da gente che veniva dalle religioni greco-romane), messo per iscritto diversi decenni dopo la conclusione della vita terrena di Gesù, di riflettere  sulla Pasqua del Messia, e quindi di esprimere, attraverso anche immagini mitiche, una affermazione capitale: nel piano amoroso di Dio l’ultima parola non è della morte, ma della vita. Gesù è certamente morto, e morto sull’infamante patibolo della croce. Ma nell’istante stesso della morte Egli è stato raccolto dal Padre, in Lui vivendo, in Lui vivente.

     2/ Che la morte non segni la definitiva distruzione di tutto, e che l’io profondo di ogni persona in essa e con essa non si dissolva, non si disperda, non si annulli, è qualcosa che non si può provare razionalmente, e che sfugge totalmente a verifica esperienziale, o scientifica. La vita –  imperitura, gioiosa, traboccante, in Dio – oltre la vita terrena la si può ammettere solo radicandosi nella roccia della fede, cioè della fiducia nella promessa misericordiosa di questo straordinario dono divino.

     3/ Maria Maddalena, gli apostoli, i primi discepoli e discepole hanno intuito – alla luce della fede – che il patibolo sul quale il Maestro fu inchiodato per ordine del procuratore romano (non a caso il Credo afferma in modo scultoreo: Gesù Cristo «patì sotto Ponzio Pilato»), non era l’ultima e definitiva tappa di un naufragio, e di un’enorme illusione. Al contrario, esso era il velo che nascondeva il fatto, indicibile a parole, che l’amore di Dio è più forte della morte. La risurrezione di Gesù sgorgava proprio – per la potenza creatrice di Dio – dalla croce, là sulla croce.

     4/ Per i primi discepoli e discepole, affermare – dopo la tremenda passione e morte alle quali avevano assistito, in parte con sofferta, profonda, indistruttibile solidarietà; in parte con dubbi, cedimenti, paure – che Gesù è il Vivente non era facile: come trovare le parole per dire qualcosa che scavalca l’esperienza e la ragione  umana e attinge il mistero del Regno ultramondano di Dio? I racconti evangelici – carichi del ripensamento teologico delle prime, e variegate, comunità cristiane – evidenziano l’ansia di raccontare quello che, essi ammettono indirettamente, non si può raccontare con la desiderata chiarezza: un’esperienza di fede. Perciò la questione della tomba vuota, per dire che Gesù è davvero risorto con il suo corpo; perciò l’insistenza su quel sepolcro; perciò le descrizioni di pasti con il Gesù post-pasquale, per dire «noi l’abbiamo davvero incontrato e toccato» (ma – obiezione – si potrà mai mangiare con qualcuno che viene dal mondo ultra-terreno?); perciò la vicenda dei due discepoli cui, mentre vanno ad Emmaus, «Gesù in persona si accostò e camminava con loro» (Lc 24, 15), senza che essi minimamente sospettassero chi egli fosse, fino a che «i loro occhi si aprirono, e lo riconobbero quando a tavola con loro prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro»; perciò Maria Maddalena (Gv c. 20), che prima ritiene Gesù il giardiniere, e poi lo riconosce come il Signore.

     5/ Il capitolo 20 di Giovanni – per fermarci solo a quest’ultima «apparizione», ma analogo è il discorso su quella ai viandanti di Emmaus – non è la narrazione di un’esperienza sensibile, di un incontro con gli occhi del corpo; perciò non va letto  come l’accurata descrizione di un fatto di cronaca. Il Risuscitato, infatti, rifulge di luce ultramondana e inesprimibile: quando mai Maria Maddalena sarebbe potuta cadere in un equivoco, e confondere il Vivente con un comune mortale? Ma quelle che potrebbero apparirci contraddizioni o debolezze del testo, in realtà derivano da una nostra lettura superficiale di esso. Perché il racconto, proprio per come è costruito, vuole farci intravedere qualche cosa di diverso da quello che emerge a prima vista; e, cioè, ripeterci con immagini poetiche il leit-motiv dominante: Gesù, dopo essere stato ucciso (come tutti avevano constatato), ora vive di una nuova vita. Il Dio della vita così ha voluto per Lui, come ha voluto e vuole per tutte e tutti i «giusti» venuti su questa terra prima di Lui, e per quelle e quelli che verranno dopo di Lui, fino alla fine del mondo. Ma questa volontà divina non è dimostrabile: perciò la Risurrezione non si può provare storicamente, mentre si può provare storicamente la fede delle discepole e dei discepoli nella Risurrezione di Gesù. Del resto, se Gesù avesse voluto dimostrare al mondo la sua vittoria, non sarebbe allora apparso a Pilato e a quanti avevano voluto la sua morte?

     6/ Sì, non ci sono prove che Gesù sia stato risuscitato dal Padre, o che sia risorto per virtù propria. Esattamente come non ci sono prove che Dio impedisce che la morte fisica sia la totale, definitiva, irreparabile distruzione e cancellazione di una persona. La verità stupefacente che Dio-amore è il Dio della vita vittorioso anche sull’«ultimo nemico» (così l’apostolo Paolo – I Cor 15, 26 – chiama la morte) non è scientificamente e apoditticamente dimostrabile. E’ una verità di fede, una certezza che si può assumere solo affidandosi totalmente alla Parola di Dio, superando i dubbi e le esitazioni che una tale affermazione inaudita suscita in ognuno e ognuna di noi.

     7/ Quanto siano impenetrabili le tenebre della morte, e dunque del tutto naturale e «normale», anche per un credente nel Dio di Gesù, la paura di essa, ancora una volta ce l’insegna il Rabbi di Nazareth. Egli che, sulla croce, si vede come dimenticato da quel Padre a cui sempre si era affidato con immensa pietà filiale; e dunque, come vero uomo – come uno di noi – geme in preda all’angoscia di fronte all’abisso incolmabile. Non resiste come un eroe, sprezzante dei dolori lancinanti, sentendosi sicuro che di lì a pochi minuti tutto sarebbe passato, e lui sarebbe andato felice e risuscitato nel Regno del Padre. Non è uno stoico che ritiene la morte fine di tutto, e traguardo di cui gli Dèi – anch’essi infine sottoposti al Fato immodificabile – non rispondono. E’ un credente nel Dio della vita; perciò Gesù si domanda sgomento come mai il Padre rimanga in silenzio di fronte alla sua implorazione e alla sua morte imminente: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni? – Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Così riporta Marco (15, 33) e, analogamente, Matteo (27, 46; questi però usa le parole ebraiche, non l’aramaico): per i due evangelisti queste sono le ultime parole pronunciate da Gesù. Invece Luca (23, 46), non riporta l’invocazione drammatica di Gesù, e poi mette in bocca al Maestro che sta per spirare un’altra parola conclusiva, ignorata dagli altri due sinottici: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Gesù si è fermato un istante prima di cadere nella disperazione, e con fede suprema decide di abbandonarsi fiducioso ad un Dio che Egli chiama ancora Padre, un Padre che però non scende a schiodarlo dalla croce.

      8/ Si possono ben intuire le motivazioni delle prime comunità cristiane che si sforzano di addurre prove inconfutabili per dimostrare che Gesù era stato davvero risuscitato: il sepolcro è vuoto, gli angeli hanno sollevato una pietra pesantissima che sigillava la tomba, Lui ha mangiato con noi, noi l’abbiamo toccato… Era il tentativo, apologetico, di convincere la gente della verità della risurrezione. Tentativi a volte coronati da successo ma, talora, in gran parte falliti, come dimostra il caso di Paolo ad Atene. Nella grande città ellenica, culla di una straordinaria cultura, l’apostolo, all’areopago, cerca di convertire i greci: «”Dio ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo [Cristo] che Egli ha designato, dandone a tutti prova sicura con il risuscitarlo dai morti”. Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano; altri dissero: “Ti sentiremo su questo un’altra volta”. Così Paolo uscì da quella riunione. Ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti» (Atti 17, 31-34).

      9/ Sappiamo bene dei moltissimi sforzi, di teologi di ogni epoca, di trovare le prove evidenti, o scientifiche, della risurrezione di Gesù. Qualcuno ha notato che non si trovano in giro reliquie di frammenti di ossa di Gesù, il che dimostrerebbe che il suo corpo non è rimasto su questa terra, e dunque Lui è risorto. Qualche altro, per spiegare come mai, stando agli Evangeli (così Gv 20, 19 e 26), il Cristo post-pasquale passasse attraverso porte chiuse e mura, ha pensato a misteriosi cambiamenti fisici che hanno trasformato il corpo corruttibile di Gesù in corpo incorruttibile e spirituale, sottratto alle leggi che reggono l’universo della materia; insomma, sarebbe avvenuto un sovvertimento delle leggi di natura, anticipo e caparra di quello che accadrà un giorno al corpo di tutti i defunti che risorgeranno. Altri, ancora, partendo dalla sindone custodita a Torino, assicurano che essa renderebbe visibile l’istante stesso, luminosissimo, in cui Gesù fu risuscitato, e dunque sbalzato fuori dal sepolcro dove rimasero però le bende e il lenzuolo che rinserravano il suo cadavere.

      10/ Non vogliamo esprimere giudizi su quanti fondano su tali basi la dimostrabilità della risurrezione di Gesù. Diremo soltanto che, per noi, tali prove non sono risolutive e, anzi, rischiano di mettere in ombra l’esperienza di fede. Riteniamo, infatti, che la fede nella risurrezione di Gesù sia, appunto, una questione di fede, di nuda fede, di sola fede, di fede spoglia, sofferta, problematica. Non vi sono sindoni, microscopi, leggi fisiche, miracoli che possano surrogare tale fede, o renderla facile, evidente, solare. Siamo proprio su un altro piano, rispetto all’esperienza controllabile e verificabile con i sensi o con i sempre più sofisticati apparecchi che la tecnica ci mette a disposizione: siamo sul piano della fiducia nell’amore inesausto di Dio, nella potenza del Suo Spirito vivificante. Volere, con la scienza, dimostrare che Gesù è stato risuscitato ci appare come una tentazione pericolosa, perché mirante a sottomettere all’umana ragione l’amore di Dio che, di per sé, è ineffabile e sfuggente ai nostri prometeici sforzi di incapsularlo. Nessun megacongresso di scienziati e di teologi può provare in modo apodittico la risurrezione di Gesù; la ritiene invece vera, verissima, chi si affida alla Parola del Signore. E il mondo può essere scosso da quanti, con la loro vita, inverano la proclamazione di fede «Cristo è davvero risorto», e osano perfino dare la vita per testimoniarla.

     11/ In effetti, la fede nella risurrezione non solo non può rimanere un’idea astratta senza collegamento con la vita, ma, proprio come fede, deve in qualche modo diventare esperienza personale che, se pure è corroborata da quanto affermano nelle Scritture i primi discepoli e discepole di Gesù, si fa però dono e scelta intima, attuale, di ogni credente. In merito, appropriatamente il teologo catalano/indiano Raimon Panikkar rileva: «Dovrebbe essere evidente che la fede nella risurrezione non può essere ridotta all’accettazione della credenza dei primi discepoli che va interpretata come un’esperienza soggettiva che liberò un’energia psichica tale da convertirli in fondatori di ciò che poi si chiamerà Cristianesimo. L’intero edificio cristiano non può poggiare sulla soggettività di alcuni discepoli, per quanto intensa e sincera possa essere stata la loro esperienza. Inoltre la fede (cristiana) deve essere personale e dunque immediata come ogni esperienza esistenziale: non si può accontentare di essere fede nella fede di altri, fiducia nella testimonianza di alcuni privilegiati… Per esperienza esistenziale si intende la coscienza che tale esperienza trasforma la nostra vita» (da La porta stretta della conoscenza. Sensi, ragione e fede, Rizzoli, Milano 2005, pp. 61-63).

     12/ Noi, vogliamo ribadirlo, crediamo alla «realtà» della risurrezione di Gesù. Ma, per inquadrare correttamente il senso del nostro discorso, dobbiamo ricordare la fondamentale distinzione tra fede e sua formulazione: la prima rimanendo sempre salda, la seconda essendo gravata da schemi culturali forse validi in un certo tempo e in un certo luogo, ma comunque  relativi e provvisori, e perciò superabili. Nella Chiesa cattolica romana (come in altre, ovviamente) ben pochi oggi negano tale distinzione, ribadita magistralmente da Giovanni XXIII nell’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia con cui l’11 ottobre 1962 aprì il Vaticano II. E la costituzione conciliare sulla rivelazione Dei verbum ribadisce (n. 12): per interpretare la Sacra Scrittura, occorre tener conto del genere letterario di un testo, che può essere storico, profetico, poetico… Pacifiche, in astratto, tali premesse esegetiche sono però spesso ignorate, o contraddette, nella predicazione, nella pastorale, nella catechesi e, talora, anche in sede magisteriale. Ciò – come sottolinea il teologo spagnolo Andrés Torres Queiruga ne La risurrezione senza miracolo (La Meridiana, Molfetta, 2006) – avviene in particolare riguardo al problema della risurrezione di Gesù: troppo spesso si parte dando ai racconti evangelici su di essa valore cronachistico, e si tentano impervie, e anche bizzarre, soluzioni per concordare a tutti i costi i racconti non concordabili degli evangeli, senza invece interrogarsi sul loro reale genere letterario. Ma, se cadono i racconti mitici, o i rivestimenti culturali e paradigmatici con cui le Scritture hanno cercato di spiegare il mistero della risurrezione e di descrivere l’incontro con il Vivente, non cade assolutamente il cardine e l’archetipo di tale annuncio, e cioè che Dio talmente ha amato Gesù da farlo vivere per sempre oltre la morte, così come il Padre ha fatto e farà con tutti i suoi amati figli e figlie di tutti i popoli, di tutte le religioni e di tutti i tempi, che in questa terra avranno, secondo la loro coscienza, operato con amore e aperti alla solidarietà. Quest’annuncio d’amore infinito e di speranza inaudita è esattamente il cuore perenne, e immodificabile, dell’Evangelo della Risurrezione.

     13/ Certo, è difficile credere. Ben sapendolo, prima di lasciare questo mondo Gesù promise di inviarci lo Spirito, il Paraclito, l’Avvocato, Colui-che-sta-accanto, il Consolatore (cf. Gv 14, 26) che ci accompagna nelle difficoltà della vita e con dolce insistenza ci invita ad affidarci a Lui. La Chiesa, ogni Chiesa, vive dunque nel tempo dello Spirito, e lo invoca fiduciosa – Veni, Sancte Spiritus! perché discenda per darle luce e infonderle coraggio nel cammino dell’Evangelo e, anche, perché trasformi l’universo. Afferma Paolo: «Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo… Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza con noi, con gemiti inesprimibili» (Rom 8, 22-23, 26). Dunque, lo Spirito ci è dato: ma per fare che? Per renderci «nuova creatura». Ma non saremmo tali se la nostra fede nella risurrezione rimanesse astratta ed arida, senza conseguenze nella vita, senza la decisione personale di spenderci incessantemente, qui e ora, per la giustizia, la pace, la fraternità, la solidarietà. Una tale fede sarebbe la nostra condanna, esattamente come la partecipazione alla Cena del Signore senza la decisione di condividere con i più bisognosi anche i nostri beni materiali (I Cor. 11, 17-32). Perciò la lettera agli Efesini ci sollecita: «Comportatevi come i figli della luce: il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità» (5, 8, 9). D’altronde, gli evangeli ci dicono che nelle sue «apparizioni» ai discepoli il Risorto si presenta con le parole «Pace a voi!». Saluto rituale, o forte invito ad essere nel mondo «facitori di pace»? 

     14/ Comunque, a consolazione di noi che spesso siamo portati a dubitare della Risurrezione, l’evangelo di Giovanni (c. 20) ci parla di Tommaso che per credere vuole prove concrete: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Quest’apostolo era ardimentoso e quando – in occasione della morte di Lazzaro – Gesù aveva preannunciato anche la sua propria drammatica fine, egli aveva esclamato: «Andiamo anche noi a morire con lui!» (Gv 11, 16). Ma torniamo al dopo-Pasqua. «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa, e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”». Quale che sia il genere letterario di questo brano, ci sembra che esso indichi due ancoraggi: la  beatitudine, per noi che con gli occhi non vediamo il Risuscitato, di credere a Gesù sulla parola («Voi amate Cristo, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in Lui; perciò esultate di gioia indicibile…», afferma I Pt 1, 8); ma, anche, come rileva Antonietta Potente, religiosa domenicana in Bolivia, la serietà del dubbio, perché «non è possibile vivere la fede senza toccare o lottare con il Mistero come faceva Giacobbe [Gen. 32, 25-31], o senza osare quello che ha osato Tommaso. Dobbiamo lasciare giocare la fede con l’incredulità» (La fede, Icone edizioni, Roma 2006, pp. 51-52).

     15/ L’Evangelo ignora una fede nella risurrezione che estranei dalla storia e rinvii tutto all’aldilà; e in nessun caso – come ci annuncia solennemente Matteo al capitolo XXV («avevo fame, avevo sete… ») – essa può essere il pretesto «religioso» per lasciare che altri si sporchino le mani a cambiare le storture e strutture sociali ingiuste, mentre i cristiani sarebbero autorizzati a starsene da parte, indifferenti, solo intenti ad aspettare il paradiso sperato nell’altro mondo. Quando, infatti, Gesù dice «il Regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17, 21) afferma appunto che già ora, per chiunque accolga l’amore del Padre, e cerchi di condividerlo nella vita, inizia, come un germe, la risurrezione, che un giorno fiorirà pienamente; e quando proclama «beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli» (Mt 5, 10) usa il presente è, non il futuro sarà. Perciò, oltre a proclamare «Cristo è stato risuscitato», dovremmo anche proclamare che «Egli risorge» in ogni momento della storia tutte le volte che si compie un atto di amore, o si riscatta un oppresso, o si libera un prigioniero, o si rende giustizia ad un perseguitato, o si costruisce una pace onesta. Calzante perciò ci sembra un pensiero (cf. Riforma, 28 aprile 2006, p. 7) del teologo evangelico tedesco Jürgen Moltmann: «La risurrezione non è l’oppio dell’aldilà, propinato per illusoriamente consolare, ma è la forza della rinascita in questa vita. La speranza non ha per oggetto un altro mondo, ma la redenzione di questo mondo».

     16/ Del resto, una celebrazione della Pasqua ritualmente perfetta, ma compiuta senza la decisione interiore di lasciarsi afferrare dal Signore, e senza la scelta di impegnarci a diventare «samaritani» per chi, vittima dei «briganti» (Lc 10, 30), incrociassimo nel nostro cammino, sarebbe la contraffazione sacrilega della risurrezione di Cristo nella storia. Molto più Pasqua – è solo un esempio, ma pregnante – è stata una singolare celebrazione della Cena del Signore senza pane e senza vino, ma nella solidarietà vera, avvenuta nel 1973 in un carcere di Montevideo, dove i generali golpisti avevano fatto ammassare un gruppo di oppositori. Riprendiamo il fatto, così come descritto dallo scrittore uruguayano Eduardo Galeano, dal sito web della Red latinoamericana de Liturgia, del CLAI (Consiglio latinoamericano di Chiese): «Alla sveglia, si alzarono tutti. Nessuno aveva chiuso gli occhi in quell’immensa baracca. I prigionieri erano rimasti in attesa fino al mattino, dopo una giornata di bastonate e minacce di fucilazione. Un prigioniero appena arrivato da Montevideo, e che non aveva ancora perduto la cognizione del tempo ricordò: “Oggi è domenica di Pasqua”. I cristiani si passarono la voce. Bisognava celebrare. Era però proibito riunirsi, non era permesso nessun tipo di riunione, quale che fosse, e nella loro carne i detenuti avevano imparato che quella proibizione non era uno scherzo. Però bisognava fare la riunione. Aiutarono gli altri prigionieri, quelli che non erano cristiani: alcuni vigilavano i portoni, e seguivano i passi dei soldati di guardia; altri formavano un anello di persone che andavano e venivano camminando, intorno ai celebranti, come al solito. E al centro si fece la cerimonia. Miguel Brun [pastore evangelico metodista, arrestato per la sua opposizione alla dittatura – NdR] sussurrò alcune parole. Evocò la risurrezione di Gesù che annunciava la redenzione di tutti i prigionieri. Gesù era stato perseguitato, incarcerato, torturato e assassinato, ma una domenica come quella aveva fatto incrinare i muri e li aveva fatti crollare, affinché tutti i prigionieri potessero trovare la libertà e tutta la solitudine un incontro… Nella baracca non vi era niente. pane né vino né alcun bicchiere. Fu la comunione delle mani vuote. Miguel offrì a chi si sarebbe dovuto offrire. “Mangiamo – sussurrò – questo è il suo corpo”. E i cristiani portarono le mani alla bocca per mangiare il pane invisibile. “Beviamo. Questo è il suo sangue”. E alzarono la coppa che non c’era per bere il vino invisibile. Poi si abbracciarono».

     17/ La Pasqua cristiana si innesta, in parte, in quella ebraica (Pesaq), nel ricordo, tra l’altro, del passaggio del Mar Rosso, e cioè dell’intervento del Signore che libera il popolo d’Israele dalla schiavitù del Faraone per incamminarlo verso la terra promessa. Non a caso il quarto vangelo – con evidente riflessione teologica che salda le due Pasque, commistione che l’Ebraismo naturalmente non accetta – apre il racconto dell’Ultima Cena, e quindi della passione, morte e risurrezione di Gesù con queste parole: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. E mentre cenavano…» (Gv 13, 1). Gesù passerà dunque dalla vita mortale a quella immortale, dalla sofferenza alla gloria imperitura. Per tali motivi il passaggio dell’Esodo, e la Pasqua cristiana, sono visti non solo come liberazione da ogni impedimento che ci ostacoli nel cammino spirituale verso Dio ma, anche, come archetipo della possibile liberazione dalle catene con cui i  prepotenti, nelle specifiche situazioni storiche, tengono prigionieri ed opprimono i popoli (e, dunque, vera liberazione anche sociale e politica, qui e ora). Ma, a proposito della liberazione degli Ebrei dalla schiavitù dell’Egitto – che il libro biblico dell’Esodo narra (c. 15) in esaltante chiave epica: «Voglio cantare in onore del Signore: perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere / i carri del faraone e del suo esercito ha gettato in mare» – è opportuno ricordare che anche oggi, nella celebrazione del settimo giorno di Pesaq, giorno in cui sarebbe avvenuto il passaggio del Mar Rosso e la morte per annegamento degli egiziani, gli ebrei si astengono dal cantare parte dell’Hallel – canto di giubilo, dal salmo 113 al salmo 117 – per manifestare il dolore per le vite perdute. Del resto un midrash (commento rabbinico di un evento biblico, per trarne un insegnamento etico e spirituale) narra che il giorno del passaggio attraverso le acque, mentre gli angeli intonavano un canto di giubilo, il Santo, benedetto Egli sia, li rimproverò: «Tacete! L’opera delle mie mani, gli egiziani, stanno morendo sprofondati nelle acque, e voi cantate?». 

     18/ «E il terzo giorno risuscitò», proclamano le Scritture cristiane, e afferma il Credo stabilito dal primo Concilio ecumenico, quello di Nicea del 325, e completato dal secondo Concilio ecumenico, quello di Costantinopoli del 381. Nelle liturgie delle Chiese cristiane – in Oriente e in Occidente – il racconto, lo svolgimento, il dispiegamento del dramma della passione, morte e risurrezione di Gesù viene, per così dire, scandito in tre giorni: il Venerdì santo si ricorda il martirio di Gesù; il Sabato santo la trepida attesa del grande evento; la domenica di Pasqua, infine, la finalmente avvenuta risurrezione. Le celebrazioni liturgiche distanziano gli accadimenti nel tempo, per favorire nei fedeli la graduale comprensione e la progressiva assimilazione dei misteri narrati. Si tratta di una sapiente scelta pedagogica e pastorale. Tuttavia, bisogna essere avvertiti che, il dramma che noi vediamo riprodotto in più atti, nella realtà non fu così spezzettato o articolato. In effetti, se in alcuni passi (Gv 2, 19) si dice che Gesù risusciterà «dopo tre giorni», per lo più (Mt 16, 21; Lc 9, 22) Egli afferma che risusciterà «il terzo giorno», locuzione che significa «presto», ma con valenza teologica, non temporale. E, cioè, gli Evangeli non si preoccupano tanto di riferire tutti i dettagli di cronaca legati alla morte e alla risurrezione di Cristo, quanto piuttosto di aiutarci a capire il senso profondo di tali eventi e di tali misteri per accompagnarci poi a seguire, nella nostra vita, Gesù.

    19/ Un altro elemento, poi, ci sembra di dover tener presente quando si parla di morte e risurrezione: il background, cioè i presupposti culturali, antropologici e filosofici con cui vengono visti la persona umana e l’aldilà. In proposito, diversissima era la visione ebraica da quella che, nel mondo greco-romano, si rifaceva, tra l’altro, al Platonismo: la prima non vedeva quella divisione tra «anima» e «corpo»  così sottolineata, invece, nella seconda; e gli ebrei non immaginavano l’anima  «prigioniera» del corpo, come sosteneva il Platonismo, e consideravano la persona umana – uomo o donna – un’unità inscindibile. Così, per descrivere la morte di Davide, il I Libro dei Re afferma: «Egli si addormentò con i suoi padri, e fu sepolto nella città di Davide» (2, 10); analoghe le parole con cui il Genesi narra gli ultimi istanti di Giacobbe: «Quando ebbe finito di dare ai figli questo ordine [“seppellitemi presso i miei padri nella caverna di Malpela”], ritrasse i piedi nel letto e fu riunito ai suoi antenati» (Gen 49, 33). Pur rimanendo il cadavere ben visibile sulla terra, si pensava che non solo l’«anima» ma, per dirla con parole moderne, la «intera persona» del defunto «si riunisse» ai suoi padri. Senza voler qui affrontare il problema di come il Primo Testamento e la vivente tradizione ebraica vedessero, e vedano, l’aldilà, ci pare importante domandarci con quali parametri culturali le Scritture cristiane abbiano parlato del «dopo morte» di Gesù e dei «tre giorni» nei quali la sola sua «anima» si sarebbe «riunita» al Padre, prima di potere, a Pasqua, «ricongiungersi» finalmente anche con il «corpo» del Risuscitato che, «quaranta giorni» dopo (At 1, 3), è asceso al cielo. La stessa, e più stringente, domanda ci si deve porre sul Credo niceno-costantinopolitano, tutto stilato con categorie filosofiche e teologiche gravate dalla cultura greco-romana, senza tener conto dell’eredità ebraica. Una «esclusione» gravida di nefaste conseguenze per le Chiese cristiane, e all’origine – con altre cause – della dicotomia anima/corpo che fino ai nostri giorni, salvo eccezioni, ha contraddistinto la teologia e la predicazione cristiane.  

     20/ Potrebbe essere buona per un film di successo l’ipotesi che, se duemila anni fa, nella notte tra il Sabato (santo) e «il primo giorno della settimana», ci fossero state telecamere puntate sul sepolcro di Gesù, ad un certo punto della notte misteriosa esse avrebbero potuto riprendere l’istante della risurrezione, o comunque, come minimo, essendo Gesù forse invisibile, documentare almeno il fracasso di una pesante pietra sepolcrale che rotolava via smossa come una piuma da una mano potente e misteriosa, e poi far vedere agli spettatori ammirati la tomba vuota, invitandoli ad esclamare, insieme all’entusiasta telecronista: «Miracolo!». Ma – noi pensiamo – seppure le telecamere ci fossero state, non avrebbero potuto documentare lo straordinario, in quanto l’inaudito era già accaduto, come accade ogni giorno: Dio ama talmente le sue creature da sconfiggere, per amore, la morte che vorrebbe inghiottirle. Questa sconfitta della morte avvenne, per Gesù, proprio all’ora nona di quel tragico Venerdì, quando gridando a gran voce emise il suo spirito, e il Padre lo raccolse e gli diede nuova e più folgorante vita. Ma questa «ordinaria follia» dell’Ineffabile non si poté e non si può filmare o verificare. Si può solamente – se si vuole – crederla possibile. Una tale, difficile fede non è contro la ragione, ma certamente è molto al di là di essa.

     21/ E’ umano, e del tutto comprensibile, che in ogni tempo tra i cristiani sorga la domanda: quando e come risorgeremo? L’interrogativo se lo posero, ovviamente, anche le prime comunità cristiane. Ad esse Paolo rispose affermando la risurrezione di Cristo per affermare quella dei morti: «Si semina un corpo corruttibile, e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale» (I Cor 15, 42-44). Il come, senza nulla svelare di concreto, l’apostolo lo illustrò subito dopo con la metafora del seme che viene sparso nella terra, ove sembra morire, e poi invece a primavera improvvisamente fiorisce e diventa una stupenda spiga dorata. Perciò quando nella professione di fede niceno-costantinopolitana (che si recita tutte le domeniche nella liturgia cattolica) si afferma «Credo nella risurrezione della carne» si proclama, appunto, la fede nella potenza creatrice di Dio che ci sosterrà, e ci riprenderà, dopo che avremo valicato le porte della morte. Non sarà certo la rianimazione di cadaveri, ma (in proposito il biblista Alberto Maggi ha pagine illuminanti) una meravigliosa – e, certo, per noi sulla terra, incomprensibile – fioritura in pienezza di tutto il nostro essere. La parusìa, il ritorno glorioso di Cristo sulla terra, il giudizio finale e, infine, la nuova creazione (come suggeriscono la lettera ai Romani, 8, 19-23 – «la creazione stessa attende di essere pure lei liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» – e l’Apocalisse, 21, 5 – «Ecco, io faccio nuove tutte le cose») ci dischiudono panorami indicibili che non possiamo né intravedere né esplorare. Ma, nella fede, ci affidiamo a Colui che, avendo risuscitato Cristo, con Lui e in Lui ci risusciterà. Perché sappiamo che «Dio è più grande  del nostro cuore, e conosce ogni cosa» (I Gv 3, 20).

 

 

II. La testimonianza di Paolo e della Chiesa agli inizi e, poi, nello sviluppo della storia

 

     22/ Paolo esprimeva ai Corinzi la sua preferenza, nelle riunioni liturgiche, per  poche e costruttive parole piuttosto che per lunghi, sapienti e ispirati discorsi (cf I Cor, cap. 14). Per questo, riteniamo che la sua figura e la sua predicazione dovrebbero essere per noi particolarmente pregnanti proprio perché lui, l’apostolo dei gentili, si rivolge principalmente a noi, che non siamo discendenti di Abramo secondo la carne, ma ulivi selvatici innestati su quella «radice santa» (Rom 11, 16) dalla quale sia lui che Gesù erano sorti. La figura di Paolo era un tempo preminente nella Chiesa di Roma, unita poi a quella di Pietro in segno di continuità con la Chiesa madre di Gerusalemme e, successivamente, dalla figura di Pietro offuscata quando nella Chiesa romana si sono affermate pretese egemoniche. Eppure la sua prassi, la sua sensibilità per le differenze, il suo buon senso unito a straordinaria intelligenza teologica, potrebbero essere anche oggi, nel nostro mondo variegato, di grande aiuto e insegnamento. Egli, infatti, era attento alle esigenze concrete delle singole comunità, applicando con rispetto e sagacia a ciascuna situazione l’annuncio essenziale e immutabile dell’unico vangelo di salvezza che a sua volta egli aveva ricevuto, e cioè l’evento del Cristo morto per noi a causa del peccato e  risuscitato dal Padre. Questo kerigma originario – risalente, secondo tutti gli studiosi, alla più antica comunità cristiana – sarà poi oggetto nella storia di svariate interpretazioni, da quelle mitiche a quelle sacrificali (su queste – mettendone in evidenza anche le contraddizioni – abbiamo cercato di riflettere in “Fate questo in memoria di me”. Condividere il pane nell’Eucaristia e nella vita – il contributo della nostra Comunità cristiana di base al Sinodo dei vescovi del 2005).

     23/ Qui vogliamo rilevare che l’annuncio dell’apostolo non si risolveva nel proporre una nuova serie di leggi in luogo delle antiche, né in un’astratta adorazione del Risorto, né in estatiche esperienze o in paralizzanti attese della parusìa, ma nella totale adesione di fede all’unica legge dell’amore proclamata e testimoniata da Gesù, legge che deve essere iscritta nei nostri cuori e operosa nella nostra prassi se osiamo dirci cristiani. Questa «fede operante mediante l’amore» (Gal 5,6) si sperimentava innanzi tutto all’interno delle singole comunità (ecclesiae): nel rispetto dei vari carismi, utili tutti al bene e all’armonia comuni; nel porre l’Eucaristia a discrimine tra solidarietà ed egoismo; nel valorizzare la partecipazione collettiva alle scelte più importanti; nel farsi voce dello Spirito che parla alle Chiese; nel sottolineare, come già aveva fatto Gesù, che il ricoprire posti di responsabilità, lungi dal costituire un privilegio od una prerogativa, sollecitava maggiore spirito di servizio. Il comportamento esemplare della comunità equivaleva in tal modo ad una testimonianza del Risorto tanto più efficace all’esterno in quanto non basata sulle parole ma sui fatti (I Tess 1, 6-8). Perciò, a ben guardare, ci sembra che vada del tutto superata un’interpretazione della morte di Cristo sulla croce come sacrificio necessario per placare, con il suo sangue e il suo martirio, l’ira di Dio contro l’umanità peccatrice, incapace di liberarsi dal «male oscuro» che la sovrasta. L’ignominia della croce, piuttosto, svela e mette a nudo i meccanismi della violenza contro l’Innocente, e il comportamento di Gesù indica a noi la possibilità di superarli aderendo al Suo messaggio e alla Sua umanità (cf. Rom. 8, 1-4).

     24/ Così Paolo riuscì a convincere la sospettosa Chiesa «dei santi» di Gerusalemme che la circoncisione del cuore, come già proclamato da Geremia (9, 25 e 31, 31-34) era più importante di quella della carne, e che l’irruzione dei tempi ultimi costringeva a vedere con occhi nuovi, secondo l’annuncio dei profeti, la veneranda tradizione della Torah, la Legge. Ma, di fronte alla testimonianza dell’apostolo, una domanda ci viene spontanea: in quale conto è stato tenuto poi, nel corso della storia della Chiesa, questo splendido insegnamento dell’apostolo? Perché, rispetto al grandissimo pluralismo teologico – documentato dal Secondo Testamento – che percorreva le prime comunità, e i primi Cristianesimi, si è imboccata, e anche imposta, poi, la via del monolitismo dottrinale e del dogma?

     25/ Già dalla fine del primo secolo l’incremento numerico dei fedeli e delle comunità, l’allontanarsi nel tempo della prospettiva della parusìa che tutto avrebbe risolto, la scomparsa della prima generazione dei testimoni con la loro autorevolezza e col loro entusiasmo, i tentativi – provocati dal contatto con la filosofia greco-romana – di approfondimento teologico del mistero dell’Incarnazione, posero problemi di carattere dottrinale cui si pensò di ovviare accentuando il carattere istituzionale e gerarchico della struttura ecclesiastica (cf. le lettere cosiddette pastorali – a Tito e a Timoteo, attribuite a Paolo, ma certamente non sue – e le prime lettere della tradizione post-apostolica: la I di Clemente ai romani, del 98 circa, e quelle di Ignazio vescovo di Antiochia, del 110 circa). Queste strutture, forse anche necessarie per le esigenze dei loro tempi e vieppiù consolidatesi, hanno però comportato un prezzo altissimo: un radicale mutamento della primitiva visione di ecclesia, divenuta qualcosa di molto diverso dalla realtà che Paolo aveva sotto gli occhi e sulla quale costruiva la sua teologia. E per di più, al fine di auto-legittimare la propria presenza, percepita evidentemente come una novità rispetto al passato, i sostenitori di tali strutture tendevano a presentarle come effetto dell’applicazione di disposizioni impartite direttamente dagli apostoli se non dal Signore, e quindi a rivendicarle come di diritto divino e non frutto di una scelta importante ma storicamente determinata, e perciò contingente (cf. per tutti I Clem., XLIV, 1 ss).

     26/ Ciò favorì un progressivo svilimento delle prerogative dell’assemblea, per eccesso di delega ai responsabili – per Ignazio di Antiochia non c’è ecclesia se non dove c’è il vescovo, e a lui subordinata – e innescò la deleteria spaccatura tra chierici e laici. Una spaccatura (come più ampiamente abbiamo cercato di spiegare nel nostro documento citato al n. 22) che si fece più esplicita, e più radicale, nel secolo IV, quando con Costantino il cristianesimo diviene religione lecita e, con Teodosio, obbligatoria nell’impero romano. Le Scritture cristiane – nella Lettera agli ebrei – chiamano infatti sacerdos e pontifex soltanto il Cristo (ma Gesù era un «laico», non apparteneva a famiglie di sacerdoti del tempio di Gerusalemme o di leviti!); ma non danno mai una tale qualifica agli apostoli e ai discepoli, denominandoli invece, semplicemente, ministri, diaconi (servitori), presbiteri (anziani) ed episcopi (sorveglianti). Non questa, tuttavia, è stata la scelta del Cristianesimo trionfante. Esso, quasi riadattando alla nuova situazione alcuni aspetti della casta sacerdotale dell’antico tempio ebraico, e anche occhieggiando l’organizzazione greco-romana del sacro, si riempie di sacerdozio e di sacerdoti: una struttura lontana dalle parole e dalla prassi di Gesù, e dimentica dell’Evangelo, secondo il quale, quando il Rabbi di Nazareth spirò, «il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo» (Mt 27, 51). Annotazione, questa, non certo di cronaca, ma affermazione teologica capitale, per indicare che era cancellata per sempre l’intera struttura sacerdotale composta da uomini «mediatori» e «ponti» necessari tra il credente e l’Altissimo.

     27/ Dopo il tentativo, con la Riforma, di Martin Lutero, nella Chiesa romana è stato il Concilio Vaticano II a cercare, in parte, di superare tale situazione, tornando alla sorgente della Bibbia. Ma il lavoro è solo agli inizi, ed enormi ed irrisolti rimangono ancora molti nodi teologici, istituzionali e pastorali legati alla contrapposizione chierici/laici. Una contrapposizione che ha favorito l’annidamento del potere nella Chiesa, divenendo essa troppo spesso come un potere tra poteri mondani (figure come quella di Francesco d’Assisi rimangono eccezioni, e con la loro luce ancor più mettono in evidenza le ombre dell’istituzione ecclesiastica). E sì che Gesù aveva respinto – possibile allusione alle contese della prima comunità per la preminenza nel gruppo dei discepoli di Gesù (Mt 20, 20-21) – la seduzione del potere. In un tale contesto, l’annuncio clamoroso della Risurrezione, una novità che dovrebbe costringere la Chiesa sempre in stato di riforma e di ravvedimento – si è fatto troppo spesso proclama rituale, non si sa quanto creduto da chi lo annuncia, ma certamente reso non-credibile a quanti è annunciato.

     28/ La divisione dei cristiani in due generi – chierici e laici – ha consumato a poco a poco (sia pure con eccezioni) la piena partecipazione di tutti i battezzati alla vita della Chiesa, aprendo poi un’ulteriore dolorosa divisione, tra un genere dominante ed accentratore, quello dei maschi, ed un genere dominato e dipendente, quello delle donne. La questione è tanto più sorprendente ed amara perché proprio ad una donna, Maria Maddalena – secondo il racconto di Giovanni (c. 20) – il Risuscitato affida il compito di annunciare ai «fratelli» e ai «discepoli» la sua risurrezione. Se anche, come dicevamo, la cronaca non andò proprio così, ci si deve domandare quale sia l’insegnamento permanente che soggiace a tale narrazione, che pone una donna – testimone non credibile, secondo la mentalità di allora – all’inizio della lunga catena dei discepoli e discepole che grideranno «Gesù è davvero risorto». E’ interessante notare che, seppure con variazioni, il vangelo più antico, quello di Marco (c. 16), poi quello di Matteo (c. 28), e infine quello di Giovanni, il più recente dei quattro evangeli, pongono l’annuncio di Maria Maddalena (insieme ad altre donne) come il primo anello della proclamazione della risurrezione anche agli altri apostoli. Non è certo casuale, una tale «primogenitura», e se le Scritture cristiane l’hanno affermata e confermata, bisognerà interrogarsi sul suo significato profondo. In altre parole: se le donne sono le prime a credere nella risurrezione, e ad annunciarla a Pietro e agli altri, vi saranno mai, nella comunità cristiana, ministeri per volontà di Dio negati ad esse? Molte sono le ragioni – culturali, cultuali, antropologiche, storiche, teologiche – che hanno portato le Chiese, nei secoli, ad escludere progressivamente la donna dai ministeri, riservando questi al maschio. Ma oggi – risvegliati dal femminismo, dal progredire della società, oltre che da una rinnovata riflessione biblica e da un accurato ripensamento teologico – riteniamo non più possibile continuare a sostenere, e attribuendo questo NO alla volontà permanente di Cristo, che le testimoni della risurrezione di Gesù non possono presiedere la Cena del Signore, che è appunto il memoriale della morte e risurrezione di Lui. Pensiamo sia giunto il tempo in cui, come fece Gesù, la Chiesa romana (e, tra le altre, quelle che mantengono le stesse resistenze al cambiamento) dica alla donna «Maria!», e la inviti ad annunciare anche nell’Eucaristia che il Crocifisso è stato Risuscitato, e che la potenza dello Spirito di Dio sconfigge quella della morte, e rende Gesù il Vivente. Non capiamo più perché solo i testimoni (maschi) della risurrezione possano essere guide autorevoli di una ecclesia che celebra la Cena del Signore, e non anche le testimoni (donne).

 

 

III. A «quale Italia», e «come», la Chiesa è chiamata a testimoniare

 

     29/ Cerchiamo ora, assai brevemente e per flash, di chiederci: com’è questa nostra Italia oggi, cioè il paese al quale e per il quale primariamente la Chiesa cattolica italiana qui e ora intende essere «testimone» della risurrezione? Come sono le donne e gli uomini concreti ai quali ci si intende rivolgere, e in che condizioni, attese, sofferenze, gioie, speranze vivono? E’ infatti necessario cercare di capire a chi si parla, per poter annunciargli in modo adeguato la buona notizia di Gesù, e cioè l’Evangelo. Nella Traccia di riflessione – il documento ufficiale in preparazione all’evento di Verona – viene ricordato che il quarto Convegno ecclesiale: a) «si colloca a metà del primo decennio del terzo millennio»; b) «si propone di dare nuovo impulso allo slancio missionario scaturito dal Grande Giubileo del 2000»; c) «si propone di compiere una prima verifica del cammino pastorale svolto in questo decennio».

     30/ Sul «chi siamo», come italiani, autorevoli istituti di indagine e di studio sulla vita individuale e collettiva del nostro paese segnalano, oggi, una crescita delle disuguaglianze e delle disparità: convivono dolorosamente arricchimenti ingiustificati e impoverimenti inattesi. Qualcosa di profondo si è verificato nel nostro paese: adesso, oltre che tra Sud e Nord, l’Italia – documentano le analisi del Censis – si trova, per così dire, divisa verticalmente: tra chi, malato, può curarsi convenientemente, e chi fatica ad avere un intervento chirurgico pur necessario; tra i ricchi che si arricchiscono sempre più e i molti che hanno difficoltà ad arrivare a fine mese, e debbono magari indebitarsi; tra chi è onesto e paga le tasse, e chi evade «normalmente» il fisco. Se nel 2001 l’evasione fiscale era stimata in 140 miliardi di euro, nel 2005 essa è indicata in 248 miliardi. Il messaggio – arrivato proprio da individui o gruppi più abbienti, presenti anche a livello elevatissimo nel governo che ha guidato l’Italia dal 2001 all’aprile 2006 – è stato questo: essendo il carico fiscale eccessivo, non vi è un obbligo civile e morale di contribuire, secondo le leggi vigenti e in proporzione ai propri redditi, alle esigenze collettive della società.

     31/ Sulla precarietà delle vite delle lavoratrici e dei lavoratori, soprattutto le giovani e i giovani, rende testimonianza un’ampia letteratura; titoli come Tu quando scadi, Un anno di corsa, Tutt’al più muoio, Vita precaria e amore eterno, La generazione low cost, Non ci sono santi scandiscono le ore e i giorni delle famiglie e dei loro ragazzi e ragazze. Le giovani generazioni vivono la sensazione «che gli adulti si siano defilati dalla storia scivolando in un rassegnato disimpegno; che la cultura, la scuola, la ricerca scientifica siano parole rituali, pronunziate dai genitori e dai ministri senza convinzione e senza speranza; che la semi-occupazione rappresenti l’unico approdo in cui vegetare, come su bagnasciuga senza tempo» (Domenico De Masi, sociologo). «La protesta contro la precarietà è vicina alla soglia di esplosione anche in Italia; il primo Maggio è ribattezzato da molti giovani in “festa di San Precario”» (così si esprime l’economista Michele Salvati). A fronte di tanta povertà e precarietà, stanno una sfacciata esibizione di lusso e provocatorie speculazioni finanziarie.

     32/ Con fatica e in un certo isolamento – sommersi come sono dalle numerose televisioni – studiosi laici, spesso non credenti, indagano quotidianamente nelle pieghe delle nostre società e ci segnalano una preoccupante mutazione antropologica. Scrivono e dicono che il paese è esploso. Rilevano come negli ultimi dieci o quindici anni una forza irresistibile si è sprigionata dentro la nostra società; come un impulso che ha fatto scoppiare le psicologie e i comportamenti, proiettandoli in frantumi sulla scena e sulle platee della post-Italia. Perciò, di fronte allo show nazionale, si potrebbe cadere nel moralismo più cupo. Si ha l’impressione di un paese senza: senza istituzioni, senza etica, senz’anima. Imperano i reality shows, dai quali vengono proposti «progetti di vita».

33/ Contemporaneamente siamo consapevoli delle presenza di molte potenzialità positive, di grandi forze vive e sane in tanti settori della società, di energie generose capaci di spendersi per il paese, per la legalità, per la giustizia sociale, per la solidarietà, per la pace nel mondo. Tra queste molte realtà – speranza per il futuro - vogliamo in particolare sottolineare la presenza di una vasta e davvero preziosa rete del volontariato sociale, religioso e non, che impegna centinaia di migliaia di uomini e donne, ragazzi e ragazze. Una tale realtà non si può né dimenticare né sottovalutare. E, tuttavia, essa non oscura il segno che grava sulla società del nostro paese: quello di un paese smarrito. Una tale mutazione del paese è anche responsabilità dei gruppi dirigenti politici e istituzionali: una responsabilità raramente denunciata e contrastata con forza dai vertici della Chiesa cattolica italiana, forse paghi delle «facilitazioni» fiscali e normative ottenute dai governanti. Noi pensiamo comunque che sia dovere comunitario dell’intera Chiesa italiana, nella varietà delle sue componenti e nella distinzione dei compiti e delle responsabilità, scrutare questi «segni dei tempi», per rispondervi con franchezza, umiltà e prontezza di conversione. Senza la pretesa di avere, essa sola, ricette pronte, risolutive e definitive.

     34/ La domanda è: come è potuta avvenire questa mutazione? Mentre nel contempo la Chiesa italiana celebrava trionfante il Grande Giubileo del 2000? Mentre la popolarità di Giovanni Paolo II, quotidianamente, occupava i notiziari televisivi? Mentre l’episcopato italiano veniva ogni giorno fatto oggetto di venerata attenzione e mentre politici con incarichi istituzionali di prim’ordine si genuflettevano dinanzi ai valori identitari della religione cattolica che si voleva e si vuole a fondamento anche delle Costituzioni degli Stati, quando poi dai loro comportamenti emerge chiaramente il carattere strumentale dei loro inchini? Sono domande che ci interpellano tutti e tutte, dalla base ai vertici. Sono interrogativi che ci bruciano dentro, mentre sentiamo risuonare l’avvertimento del Maestro: «Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti!» (Lc 6, 26).

     35/ Negli Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio 2000 (29 giugno 2001) si afferma: «Guardiamo con interesse alla ricerca di senso che sta, almeno un poco, riavvicinando molti uomini e donne del nostro paese all’esperienza religiosa e in particolare a Gesù Cristo». Quindi, si formula il proposito di un «progetto culturale orientato in senso cristiano»; e si esplicita questa missione: «Tutte le Chiese particolari e ciascuna delle nostre piccole o grandi comunità devono prestare attenzione a questa conversione culturale, in modo che il vangelo sia incarnato nel nostro tempo, per ispirare la cultura e aprirla all’accoglienza integrale di  tutto ciò che è autenticamente umano». Il percorso di preparazione verso Verona prevede che il Servizio nazionale per il Progetto culturale (una nuova istituzione ecclesiale?, ci domandiamo) attivi una serie di iniziative ad hoc.

     36/  Ma – siamo convinti – la Chiesa non ha un suo progetto culturale. Cristo Risorto non è un progetto culturale. Egli non ci ha chiamati ad una conversione culturale. Pensiamo infatti che la Chiesa non annuncia se stessa, non comunica un suo sistema valoriale né una sua propria saggezza. Se – in quanto comunità di credenti (uomini e donne, con diversi carismi e differenti ministeri) – essa, per quanto faticosamente ed imperfettamente, vive la sua appartenenza a Cristo, allora diviene luogo e punto di incontro della storia con il Risorto: e sta tutta qui la sua «pastoralità». L’atto di fede e di umiltà, permanente, che è richiesto alla Chiesa – sempre, attraverso i secoli, in tutte le diverse civiltà e culture (culture, al plurale!) – è far parlare Lui, resistendo alla tentazione di frapporsi. La Chiesa, insomma, dovrebbe sempre imitare Giovanni Battista che, rispetto a Gesù, diceva: «Egli deve crescere, e io invece diminuire» (Gv 3, 30). Un concetto che l’indimenticato p. Ernesto Balducci traduceva così: «Qual è il peccato della Chiesa? E’ di credersi necessaria. E’ di identificare se stessa con il mistero di Dio, di considerarsi l’arca della salvezza: chi non entra è perduto. Dio è troppo più grande delle arche di salvezza» (da Gli ultimi tempi, vol. II, Anno B, Borla, Roma 2003, p. 39).

      37/ Comunque, intanto che veniva progettato e comunicato questo progetto culturale, cos’è avvenuto nel cattolicesimo italiano? Un’indagine molto approfondita sui cattolici nel nostro paese (Programma di ricerca, diretto da Ilvo Diamanti, Università di Urbino, La Polis, Laboratorio di Studi Politici e Sociali; www.agcom.it, sito dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; cf. «Cattolici in un paese smarrito», Il Mulino, 5/2005) segnala una realtà composita e contraddittoria. Una situazione dove la «forza della religione» si combina con una grande «debolezza della fede»; dove «cattolici si nasce, ma dove credenti si diventa, semmai con più difficoltà»; dove «il riferimento diffuso ai valori del cattolicesimo denota i tratti di una prassi culturale più che spirituale». In questa situazione è in corso – affermano i ricercatori – una «ridefinizione degli equilibri tra cattolicesimo e società».

     38/ Oggi forte incombe una tentazione sulla gerarchia cattolica italiana: quella di una sorta di volontà di «rivincita». Sconfitta nei referendum sulle leggi sul divorzio nel ‘74 e sull’aborto nell’81 (quando essa, salvo  eccezioni, si spese per far prevalere il SI’ all’abolizione delle rispettive leggi), ma galvanizzata dalla «vittoria» del referendum sulla procreazione medicalmente assistita, nel giugno 2005 (quando essa esortò cattolici e non cattolici a disertare le urne, per far mancare il quorum e quindi rendere nulla la consultazione) cerca in ogni modo di dimostrare quanto la Chiesa cattolica conti nella formazione della coscienza, anche civile, del paese. Si sostiene, nei fatti, una specie di religione civile degli italiani, che sarebbe appunto il riferimento al Cristianesimo così come interpretato dai vertici ecclesiastici, e come applaudito dai teocon nostrani che, privi di altri ancoraggi culturali, si aggrappano – pur professandosi arditamente non credenti – alle mitrie papali ed episcopali. Un Cristianesimo visto come l’unica religione che abbia un’etica degna di questo nome, e perciò considerato dirimente per orientare le decisioni di coscienza della gente, cristiana e non, cattolica e non, partendo dal principio che le indicazioni etiche proposte dalla Conferenza episcopale italiana non sono postulati legati alla professione di fede cattolica, ma esplicitazioni dell’etica umana universalmente valida, un’etica la cui chiave di interpretazione Dio avrebbe affidato solo al magistero ecclesiastico cattolico. questa presunzione è scossa dal fatto che altre Chiese cristiane – pur esse gelosissime della Parola del Signore – ritengono eticamente fondate delle scelte che per la Cei sono, invece, inammissibili. Quasi che l’etica proposta da tali Chiese, come del resto dalle varie Religioni, fosse inesistente o irrilevante. Eppure il dialogo su problemi così complessi, e nuovi, come quelli della bioetica, dovrebbe invece essere aperto in tutte le direzioni; ma, soprattutto, in modo stabile e ufficiale, con le Chiese non cattoliche che, come la Chiesa romana, intendono annunciare il Cristo Risorto con coerente fedeltà all’Evangelo.

     39/ Noi ci sentiamo a disagio in una proclamazione del Cristianesimo civile, e ci lascia molto perplessi un tipo di magistero che sembra sostenerlo (il che, del resto, emerge soprattutto nel nostro Paese, considerato forse dal Vaticano un sorvegliato speciale nel contesto europeo). Riteniamo poi del tutto improponibile che l’episcopato –  parliamo di esso come corpo, a prescindere dalle poche, coraggiose eccezioni di singoli vescovi – si appelli, nell’esercizio del suo ministero, alla Costituzione italiana. La magna charta, infatti, rappresenta, potremmo dire, la bibbia civile sulla base della quale uomini e donne di diverso orientamento politico e culturale e di diverse religioni e fedi organizzano la comune convivenza. In nome di essa è possibile l’affermazione e la pratica di posizioni anche di parte ma non prevaricanti; mai, neppure in nome del vangelo. Con questo fondamentale approccio e con questo prioritario metodo, i cristiani – qualunque sia la funzione profetica e ministeriale che esse ed essi sono chiamati a svolgere nella Chiesa di Gesù risorto – devono affrontare, di fronte e insieme agli altri e alle altre, uomini e donne, le complesse  questioni dell’etica individuale e pubblica, della convivenza delle diverse culture, della compresenza delle diverse religioni e dello stare insieme nello stesso spazio pubblico, di tutti e di tutte. D’altronde, di fronte al grande numero di pronunciamenti episcopali riguardanti la morale sessuale, familiare, ed embrionale, vi è stata, soprattutto negli ultimi cinque anni, l’assenza dell’incidenza cattolica sulle grandi questioni dell’ethos pubblico, tra cui – sempre più drammaticamente – la perdita di una cultura dei diritti e della legalità.

     40/ In particolare, poi, dobbiamo rilevare la drammatica latitanza di un pronunciamento inequivocabile sulla questione delle guerre in Afghanistan e in Iraq. In proposito, nessuno può dimenticare che la presidenza della Cei nel 2003 diede l’avallo morale alla cosiddetta «missione di pace» militare italiana a Nassiriya, una «missione» che moltissimi italiani, e cattolici italiani, hanno considerato e considerano un appoggio alla guerra, illegale e immorale, intrapresa dagli anglo-americani contro Baghdad.

      41/ In tale contesto è motivo di speranza la presenza, anche in Italia, di molti gruppi cattolici, associazioni e singoli – vescovi, preti, laici, uomini e donne – che in questi anni hanno gridato forte la profezia della pace, e si sono impegnati opportune et importune per ricordare a tutti, alle Chiese come alla società civile, le esigenze imprescindibili della pace nella giustizia in Iraq, nel conflitto israelo-palestinese, nelle guerre in Africa nelle regioni dei Grandi Laghi e del Darfur, in Centro-America. E, per quanto riguarda i problemi più propriamente italiani, come dimenticare quei laici e preti di frontiera che si sono opposti (anche a prezzo della vita) contro le varie mafie? Come non esprimere solidarietà, carica di affetto, a vescovi come quello attuale [mons. Giancarlo Bregantini]  di Locri, dove da anni è impegnato in prima persona, malgrado aspre difficoltà e tante insidie, a sollecitare le genti calabresi a mantenere salda la legalità, e a contrastare con tenacia la dilagante ‘Ndrangheta?

     42/ Un altro problema – distinto da quello della religione civile, ma per molti aspetti ad esso collegato – bussa alle porte anche della Chiesa cattolica: una sorta di «rivincita» della dimensione religiosa. Siamo naturalmente consapevoli che il secolo appena concluso ci consegna profonde trasformazioni sociali: crisi della forma tradizionale della famiglia; una diversa consapevolezza, individuale e sociale, della sessualità; il femminismo; la nascita della società di massa; la globalizzazione (prima incipiente con la internazionalizzazione della economia, poi pervasiva con  la rivoluzione informatica e delle comunicazioni); l’espropriazione e la privatizzazione dei beni comuni globali come l’acqua e l’outer space (lo spazio esterno alla terra)… che hanno generato e consolidato una psicologia di massa dell’incertezza, con una perdita di senso nella vita collettiva e individuale. Siamo altresì consapevoli che una superficiale e sbrigativa concezione della modernità porta a sottovalutare che questa incertezza genera un forte bisogno di significato, cui una delle risposte sta proprio nella proliferazione dei nuovi movimenti religiosi, registrata dalla fine degli anni Sessanta in poi. A questa incertezza e alla richiesta di significato che le è sottesa, la Chiesa italiana ha cercato finora di rispondere con una serie di interventi precettivi intenti a garantire la soluzione precostituita di ogni specifico problema di ordine bioetico. E’ mancato viceversa un appello alla maturazione delle coscienze capace ad un tempo di fare fronte all’illusione deterministica che il progresso tecnico-scientifico potesse risolvere di per sé i problemi via via sollevati e di incoraggiare una più consapevole assunzione di responsabilità da parte di ciascuno, nel contesto di un’autentica e necessariamente pluralistica ricerca di soluzioni ispirate alla fede comune ma anche alla diversità delle situazioni e delle esperienze. Inoltre – come bene ha evidenziato Gustavo Zagrebelski su La Repubblica del 13 maggio 2006 – anche l’episcopato italiano (come il magistero papale), soprattutto sui problemi in qualche modo legati alla sessualità, appare più incline a proclamare verità astratte che a mostrare amore, carità e comprensione per le persone in carne ed ossa spesso schiacciate da «proclamazioni di princìpi» che ignorano totalmente la complessità e la sofferenza delle intricate situazioni concrete.

     43/ Insomma, in un mondo caratterizzato da una mutazione frenetica e rapidissima – antropologica, sociale, economica, tecnologica e culturale – che origina anche confusioni, smarrimenti, ribellioni e deliri, ci sembra che la Conferenza episcopale italiana se ne stia ferma in un dogmatismo astorico, perché immobile nella storia e nel suo divenire. Questa è la grande contraddizione della Chiesa che, pur vivendo nel terzo millennio, sembra non voler davvero inserirsi in esso: per non «adattarsi a questo mondo» essa dice; ma, piuttosto, ci sembra, per non lasciarsi porre da esso in crisi salutare. Forse dimentica di quanto affermava il Concilio Vaticano II nella costituzione pastorale Gaudium et spes (n. 44), e cioè che se la Chiesa molto dà al mondo, molto anche riceve da esso. Una tale chiusura impedisce che la confusione della torre di Babele diventi verace effusione della Pentecoste. Ma, più la Chiesa si arrocca ai simboli, ai segni, ai riti funzionali al «vedere e toccare» del materialismo religioso, più la Parola, il Logos da annunciare diventa indecifrabile. Perché Dio non è nella tenda, nel sacro recinto, ma è sulla strada del viandante che cammina. 

     44/ In tale contesto, tra le molte sfide che oggi si pongono alla Chiesa italiana, una delle più grandi, ci sembra, è la crescente presenza nel nostro Paese di genti provenienti da altri paesi, anche extraeuropei, e portatrici quindi di patrimoni culturali e religiosi diversi dai nostri. Cessata, si spera, ogni velleità di riduzione a uno di ciò che è diverso, mediante indottrinamento più o meno forzato, dovremmo invece riandare alle origini della nostra fede, tornare ad essere lievito e sale, senza pretendere di essere il tutto. Dovremmo dunque saper offrire una testimonianza credibile e coerente della nostra fede ai fratelli e sorelle che l’evolvere della storia ci pone accanto come compagni di viaggio. Del tutto negativa ci pare perciò la tentazione di arroccarsi in una difesa ostinata di una verità che noi cristiani per primi dovremmo sapere di non possedere mai totalmente, visto che essa è una meta verso la quale ci accompagna e sospinge lo Spirito Consolatore (Gv 14, 26), forse anche attraverso questi incontri con genti diverse. Incontri che, a livello di convivenza civile, richiedono l’accettazione di regole comuni, da adattarsi naturalmente alla nuova situazione mediante gli organi democratici a ciò preposti; e, a livello di fede, richiedono rispetto e attenzione reciproca ma non uniformità; anzi, dal confronto le varie fedi dovrebbero trarre stimolo per una riflessione su se stesse e per una vera e propria conversione che non è più quella da una fede all’altra ma da una fede sterile a quella operante mediante l’amore, perché le fedi non sono al servizio di se stesse, ma delle persone (non esiste la fede, da sola; esistono i/le credenti!). Per fare alcuni esempi: non bastano certo un velo o un saio per rendere chi li indossa timorato/a di Dio secondo la rispettiva fede; non basta un crocifisso imposto per legge sulla parete per santificare un consiglio di amministrazione dove si gioca sulla pelle dei poveri; o un tribunale dove non si dà giustizia ai deboli; o una sala d’ospedale dove la sofferenza è lasciata a se stessa. In quei casi la memoria del Risorto è profanata. Quindi, prima di fare lotte per non perdere posizioni sui muri, ci si impegni per iscrivere quel segno, con tutto ciò che rappresenta, nei nostri cuori. La circoncisione della carne non conta nulla, diceva inascoltato Paolo di Tarso, se la nostra fede cristiana non è visibile; e se è visibile come deve essere, cioè come servizio e non come potere, nessuno ne sarà scandalizzato, anzi si troveranno sorprendenti affinità tra le fedi e le culture, che oggi sono sbandierate come spauracchi e temute assai più del peccato.

     45/ In questo panorama – che abbiamo appena sfiorato – come testimoniare la fede nel Cristo risorto con l’umiltà e la sincerità di chi si mette alla sequela di Gesù senza pretendere di avere la soluzione a tutte le attese dell’umanità e, anzi, accrescendo il rispetto e la simpatia verso ogni forma di ricerca di senso, e riconoscendo con gioia che anche persone che si proclamano «atee», o «agnostiche», sanno impegnare la loro vita per la giustizia, la solidarietà, la pace, a ciò spinte semplicemente dall’amore per chi soffre e per chi è oppresso? Come resistere alla tentazione – secondo le parole indimenticabili di Dietrich Bonhoeffer (in Resistenza e resa, Bompiani, Milano 1969, pp. 241 e 259) – di «far comparire Dio come tappabuchi dei nostri vuoti di conoscenza», e considerando come peccato quella metodologia di comunicazione del nostro essere cristiani che, nota ancora il teologo luterano tedesco, «fiuta la pista dei peccati umani, per poter prendere in castagna» la debolezza e le sconfitte dell’umanità di cui siamo parte? Noi cristiani e cristiane di base esprimiamo la duplice consapevolezza che: camminare quotidianamente con tutte le persone di buona volontà nell’impegno per la progressiva e incessante umanizzazione della società, sia anche una testimonianza di fede nel Risorto; e che – citiamo il teologo domenicano francese Claude Geffré, il cui pensiero bene dipinge quale dovrebbe essere oggi il mutamento di prospettiva anche della Chiesa cattolica in una Italia ove in pochissimi anni l’Islam è divenuto numericamente la seconda religione del Paese – «(assistiamo) a grandi mutazioni all’interno del pensiero cristiano, dove occorre riconoscere che stiamo vivendo una svolta teologica che si pone sotto il segno di un nuovo paradigma, quello del pluralismo religioso. E’ la risposta a una situazione storica nuova caratterizzata non più, come nel secolo scorso, dall’indifferenza religiosa e da una secolarizzazione sempre trionfante, ma dalla pluralità delle fedi religiose» (Concilium, 3/2005). E’ in tale contesto che dobbiamo interrogarci se sia possibile annunciare in modo credibile «Cristo è davvero risorto» se poi, insieme, non c’è l’uomo nuovo, la nuova creatura che sorge in e da questo annuncio.

 

 

 

     IV. Verso un Concilio della Chiesa cattolica italiana?

 

     46/  Per la Chiesa, per ogni Chiesa, e per ogni comunità ecclesiale, la fede in Cristo veramente risorto è motivo di immensa gioia. Esse, infatti, dovrebbero essere inebriate di felicità, credendo che, nel Suo amore inesauribile, Dio non ci abbandona nelle mani ossute della morte, ma con Cristo ci trascina nella beatitudine eterna. Quanti e quante, nei due millenni, con sincerità di cuore hanno proclamato Cristo è davvero risorto, e con limpida coerenza hanno tradotto questa pregnante affermazione nella vita, a costo anche di dare la vita per le sorelle e i fratelli più sofferenti o più oppressi, dimostrano la potenza della risurrezione di Cristo. Perché questa sarebbe «inefficace», e svuotata, se non fosse inverata in questo mondo, qui e ora. Come Paolo ricorda (I Cor 11, 20-34) ai cristiani di Corinto che la Cena del Signore sarebbe la «condanna» di chi, in essa, non condividesse anche il suo proprio pane materiale con i più poveri;  così, analogamente, ci sembra di poter dire che la risurrezione di Cristo diventa «presente» su questa terra solo quando donne e uomini, credendola, la incarnano in una vita spesa nella solidarietà e nell’amore.

     47/ Quest’ampia schiera delle e dei testimoni, ci consola; ma, in controluce, essa obbliga a porsi una domanda inquietante: come mai per molti cristiani, ieri e oggi, la fede nella risurrezione di Cristo non ha significato e non significa praticamente nulla? Come mai è cresciuta in tanti cristiani la religione (ciò che si pensa di dover dare a Dio, per acquistare meriti; essa dà sicurezza ma toglie libertà), ma non invece la fede (il riconoscimento di ciò che Dio ci dona gratuitamente; essa toglie sicurezza ma dà libertà)? Come mai le Chiese, come istituzioni, troppo spesso non si sono lasciate scuotere nell’intimo dalla proclamazione della risurrezione, ragione ultima del loro esistere? Per dare una risposta adeguata bisognerebbe fare la storia della Chiesa e delle Chiese. Senza osare quest’impresa impervia, a noi pare di poter intravedere una prima spiegazione del fatto che, troppo spesso, la Chiesa – come corpo complessivo, e senza voler e poter sapere che cosa accade nella coscienza dei singoli e come essa accolga la grazia divina – si comporta etsi resurrectio non daretur, come se la risurrezione non ci fosse.

      48/ L’esame di coscienza non esime nessuno; ma qui ci limitiamo a parlare di noi stessi, e della Chiesa cattolica italiana. Per quanto riguarda noi stessi – in quanto Comunità cristiana di base – abbiamo spesso constatato non solo l’asperità teorica a credere in Cristo veramente risorto, ma anche la resistenza pratica a tradurre nella vita quotidiana l’annunciata proclamazione. Ci è infatti difficile mantenere viva e squillante la fede nel Risuscitato (una fede, beninteso, che non esclude dubbi e  inquietudini, soprattutto di fronte a morti dolorose o improvvise) e, nel contempo, trarre da essa, con serena costanza, le conseguenze che ne dovrebbero derivare. Per ognuno e ognuna di noi, e per noi come Comunità, spontanea allora ci sgorga dal cuore la preghiera a Gesù del padre del ragazzo epilettico: «Credo [che tu possa guarire mio figlio], aiutami nella mia incredulità» (Mc 9, 24).

     49/ Grandi domande, poi, ci sentiamo di dover porre alla Chiesa istituzionale e all’episcopato italiano. E’ possibile, a quarant’anni dal Vaticano II, continuare ad ignorare, in concreto, le conseguenze che dovrebbero derivare dall’affermazione della Gaudium et spes, e cioè che «la Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza» (n. 76)? E’ possibile proclamarsi messaggeri al mondo di una verità indicibile e bellissima – la morte, per grazia di Dio, non è l’ultima parola nella e sulla nostra vita – e poi essere i primi a puntellare tale grandioso annuncio con sostegni mondani? E’ possibile strutturare la Chiesa come uno Stato, mantenendo in sottofondo  un impianto costantiniano di sovranità temporale con le conseguenze anti-evangeliche che obiettivamente ne derivano, o come una Chiesa (quasi) di Stato, e poi, potere tra poteri, pretendere di essere presi sul serio quando si proclama solennemente urbi et orbi, tanto meglio se attraverso una selva di canali televisivi, che Cristo è risorto?

      50/ E’ troppo evidente che non esiste annuncio credibile della risurrezione – annuncio testimoniale che deve essere dato dalla Chiesa nel suo insieme e, in essa, anche dall’episcopato come corpo – se non accompagnato dalla decisione di mantenere la Chiesa in stato di perpetua riforma. Che, in altre parole, significa la decisione di «adorare solo il Signore» (Mt 4, 10), respingendo gli idoli e le loro suggestioni. A proposito, noi riteniamo che la questione seria sollevata dalla Riforma del secolo XVI sul primato della Parola e del Regno di Dio non sia stata debitamente ascoltata dalla Chiesa romana. Ma, senza affrontare qui tema tanto ponderoso, indichiamo almeno qualcuna delle riforme che, a nostro parere, urgono. Perché l’appello alla Ecclesia semper reformanda vale per tutti, e sempre.

     51/ A quarant’anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II manca ancora, nella Chiesa italiana, un organo pubblico e canonicamente garantito ove sia istituzionalmente possibile il dialogo tra le varie componenti della comunità ecclesiale. Sarebbe già un passo attivare davvero a livello nazionale – applicando il principio della sussidiarietà – un Consiglio presbiterale (solo preti) e un Consiglio pastorale (preti e laici) della Chiesa italiana. Questi organismi dovrebbero di norma essere interpellati dall’episcopato su tutti i problemi – istituzionali, pastorali, teologici, canonici – che interessano l’intera Chiesa italiana; e le discussioni in tali organismi dovrebbero essere pubbliche. Infatti, se i vescovi ritengono loro compito esclusivo, infine, decidere, non si vede perché, prima, non possano e non debbano ascoltare formalmente preti e laici, come era pur buona norma nei primi secoli della Chiesa.

     52/ A quarant’anni dalla conclusione del Vaticano II i dibattiti interni alla Conferenza episcopale italiana – Assemblee generali comprese – continuano ad essere riservati. Al «popolo di Dio», in Italia, non viene riconosciuto il diritto-dovere  di sapere se, e perché, un vescovo, ha approvato, o respinto, una certa proposta. «Non si vogliono pressioni, o strumentalizzazioni», si ripete. Ma, allora, che cosa significa quella «partecipazione» di tutti alla vita della Chiesa così caldamente raccomandata dal Concilio?

      53/ A quarant’anni dal Vaticano II le voci critiche, i teologi e teologhe, e i cenacoli, gruppi e comunità che pongono problemi fastidiosi all’establishment ecclesiastico sono sempre tenuti alla larga. La Cei proclama la necessità del dialogo al popolo italiano polarizzato tra Centrodestra e Centrosinistra, ma si guarda bene dal favorire realmente un dialogo aperto, franco e coraggioso all’interno della Chiesa italiana. Del resto, i mass-media controllati direttamente o indirettamente dalla gerarchia ecclesiastica ben raramente fanno filtrare voci «disomogenee». La parola che piace è solo Amen; l’atteggiamento desiderato è l’applauso verso i Vertici; e apologetico il commento richiesto. Altrimenti scatta la censura.

      54/ Si dirà: queste critiche sono ingenerose, visto che è imminente la convocazione del IV Convegno ecclesiale. Ma ci si perdoni se – guardando la storia dei tre precedenti Convegni, e osservando i documenti ufficiali preparatori dell’appuntamento veronese – noi riteniamo di non poter fare a meno di evidenziare i limiti costitutivi di tale organismo. Un vero dibattito e un vero confronto, infatti, non si possono fare su affermazioni generalissime e vaghe, ma solo su problemi concreti e precisi. Ricordiamo, certo, che al convegno di Roma, trent’anni fa, erano emerse voci critiche, sia dal palco dei relatori ufficialmente invitati, che dalla base; ed erano spuntate, qua e là, proposte operative per favorire davvero la collegialità e la partecipazione. Ma poi tali voci e proposte furono inghiottite dal nulla. Ricordiamo, ancora, che al convegno di Loreto, ventuno anni fa, l’allora presidente della Cei, card. Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino, fece intravedere la fine del collateralismo della Chiesa italiana con la Democrazia cristiana. Ma l’intervento di Giovanni Paolo II «raddrizzò» l’orientamento, spiacente a Roma, del porporato; il quale pochi mesi dopo non fu più rinominato dal papa presidente della Cei, e Wojtyla affidò il vertice della Conferenza – presidente e segretario – a mani più «sicure». E ricordiamo, infine, le proposte di riforma suggerite da persone sagge come padre Michele Pellegrino, arc. di Torino, e mai raccolte.

     55/ Per tali ragioni, mentre di cuore auspichiamo che anche a Verona emergano voci e testimonianze che innervino la piattaforma ufficiale davvero povera di proposte innovative, abbiamo l’impressione che la stagione dei Convegni ecclesiali, come finora celebrati, sia esaurita. Bisognerebbe (questo il nostro desiderio, che abbiamo motivo di pensare condiviso da molti e molte nella Chiesa italiana) voltare pagina, finalmente, e volare alto. Dopo Verona non sarebbe dunque il caso di cominciare ad ipotizzare un percorso conciliare che sbocchi poi effettivamente in un Concilio della Chiesa cattolica italiana? Questo cammino, e poi questo evento – se aperti all’ascolto di tutte le voci, e capaci di accogliere rappresentanze delle varie componenti della Chiesa italiana, senza settarie preclusioni – sarebbero il luogo e lo strumento opportuno ove affrontare problemi nodali e incombenti: la laicità dello Stato; il Concordato e le Intese applicative; il rapporto tra normative ecclesiastiche e leggi civili; la connessione tra il ministero del vescovo di Roma, «primate d’Italia», e la Chiesa italiana; lo statuto della donna nella Chiesa (senza eludere il problema dei ministeri ordinati); lo statuto del presbitero e la sua formazione alla sessualità; il rapporto clero/laicato; la questione dei divorziati risposati e delle coppie di fatto, etero e gay; il pluralismo teologico; l’ecumenismo; il dialogo interreligioso; la profezia della pace, con un appello solenne contro gli armamenti nucleari e la minaccia del loro uso come  first strike «dissuasivo»; la povertà della e nella Chiesa. Ciascuno di tali (e altri!) problemi dovrebbe essere affrontato – invitando i battezzati, uomini e donne, a parteciparvi responsabilmente – a livello parrocchiale, di «unità pastorale», e poi a livello diocesano; e, quindi, con delegate e delegati eletti, o comunque scelti con ampia rappresentatività, dal Concilio vero e proprio.

     56/ La Chiesa cattolica italiana avviata a Concilio, convocata a Concilio, e in stato di Concilio, sarebbe una stagione straordinariamente bella: tempo di grazia, un vero kairòs (momento propizio) per ascoltare ciò che lo Spirito dice oggi a questa Chiesa; un tempo forte analogo a quello che fu per l’intera Chiesa cattolica la convocazione del Vaticano II da parte di papa Giovanni, e poi la sua celebrazione. E, del resto, l’auspicato Concilio italiano non potrebbe che rapportarsi – come a stella polare – al Vaticano II, per interrogarsi su quell’evento e su quello che, sulla sua scia, e naturalmente e necessariamente alla luce dei quarant’anni trascorsi, delle esperienze maturate, e nelle mutate condizioni, oggi è tenuta a compiere la Chiesa italiana per riformare se stessa in vista di un unico scopo: essere umile, lieta, consapevole pellegrina e coerente messaggera della risurrezione di Cristo.

     57/ A conclusione delle nostre riflessioni vogliamo riportare alcuni brani del Mio prefazio a Pasqua (da Il sesto Angelo, Mondadori, Milano 1976, pp. 387-388), una poesia di un grande testimone cristiano del nostro tempo, padre David Maria Turoldo, con l’auspicio che essa sia inserita nella cartella delle delegate e dei delegati al IV Convegno ecclesiale. Infatti, ci sembra che queste parole, cariche di irruenza profetica, bene delineino quello che non dovrebbe essere, e fare, e quello che invece dovrebbe essere e fare, una Chiesa che creda: «Cristo è veramente risorto».

 

Io voglio sapere

se Cristo è veramente risorto

se la Chiesa ha mai creduto

che sia veramente risorto.

Perché allora è una potenza,

schiava come ogni potenza?

Perché non batter le strade

come una follia di sole,

a dire: Cristo è risorto, è risorto?

Perché non si libera dalla ragione

e non rinuncia alle ricchezze

per questa sola ricchezza di gioia?

[…]

Mia Chiesa amata e infedele,

mia amarezza di ogni domenica,

Chiesa che vorrei impazzita di gioia

perché è veramente risorto.

 

E noi grondare luce

perché vive di noi:

noi questa sola umanità

bianca a ogni festa

in questo mondo del nulla e della morte.

Amen.

 

* * * * * * * * * * * * * *

Roma, 19 maggio 2006,

memoria liturgica di papa san Celestino V

 

                                                                     La Comunità cristiana di base di san Paolo in Roma