Riflessioni di “Noi Siamo Chiesa” sulle propositiones approvate dal Sinodo dei vescovi sull’Eucaristia, ottobre 2005

 

            Il Sinodo dei vescovi è un'istituzione voluta da Paolo VI, sulla scia del Concilio Vaticano II, come strumento consultivo di aiuto al papa nella missione di gestione e ampliamento della Chiesa. La proposta che il Sinodo fosse deliberativo non fu accolta dal Papa. Queste caratteristiche del Sinodo ne hanno nel tempo molto ridotto l’importanza.  I membri sono scelti dalle diverse conferenze episcopali, sono integrati da numerose nomine papali e si riuniscono a discutere su un canovaccio predisposto dalla curia vaticana (il c.d. Instrumentum laboris), con la possibilità eventuale di aggiungere temi e correggere o respingere i diversi punti. Questa possibilità è stata concessa anche al sinodo sull'Eucaristia tenutosi dal 2 al 23 ottobre 2005, che qui ci interessa. Al termine del sinodo i padri sinodali trasmettono al papa un elenco di propositiones, ognuna votata e approvata distintamente (al riguardo merita segnalare che si ritiene che i testi vadano approvati sostanzialmente all'unanimità, per cui le affermazioni che pur venendo approvate dalla maggioranza contano un alto numero di voti contrari - o astenuti, che significano sostanzialmente la medesima disapprovazione - vengono riprese e riformulate).

            Le propositiones e i voti con cui ognuna di esse  è stata approvata sono sempre state tutelate dal segreto, anche se negli ultimi sinodi si erano verificate diverse fughe di notizie. Probabilmente per anticipare queste ultime, la scelta è stata, quest'anno, di rendere pubbliche le propositiones (non i risultati delle votazioni, anche se l’agenzia di stampa “Adista” è riuscita a pubblicare anche queste).  Il Papa può decidere di stendere un'esortazione finale tenendo conto delle propositiones del sinodo ma restando tuttavia libero dalle medesime: a costituire magistero è l'esortazione, non le propositiones. Se rivolgiamo ad esse tanta attenzione, è per comprendere meglio il modo dei vescovi di guardare all'Eucaristia e alla Chiesa contemporanea.

            Bisogna comunque tenere presente che i vescovi si sono trovati a discutere dopo che le questioni teologiche più importanti erano state precedentemente risolte dall’Enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003) e dalla lettera apostolica Mane nobiscum (7 ottobre 2004) di indizione del Sinodo e quelle liturgiche dalla Redemptionis sacramentum (25 marzo 2004), un’Istruzione con rigide e burocratiche disposizioni  su ogni più piccolo particolare del rito da valere per tutta la cattolicità di rito latino. Di conseguenza  c’è stato il silenzio su alcune questioni di fondo che sono state invece sollevate ripetutamente  dalla ricerca teologica e dai movimenti riformatori. In particolare non si è discusso della transustanziazione che molti mettono  in discussione a favore di una maggiore libertà d’interpretazione del mistero eucaristico in quanto le scritture non dicono qual è il “modo” della presenza di Gesù nell’Eucaristia. Anche l’abbandono dell’affermazione che tutta la  celebrazione eucaristica deve essere  incentrata sul sacrificio ed il problema stesso della presidenza dell’assemblea eucaristica nei suoi fondamenti teologici non sono stati oggetto della discussione sinodale.

Le questioni in gioco

            La stampa, riguardo al sinodo era interessata a segnalare le mancate aperture riguardo ai divorziati risposati, al celibato dei preti e alla possibilità di fare partecipare i protestanti all’Eucaristia (le questioni sembravano poste in quest'ordine di interesse), ma non ci si potevano attendere novità radicali perchè nella Chiesa i cambiamenti non si danno in un solo mese, ma sono preparati da una lunga serie di passi graduali. Risultava quindi interessante vedere in che modo sarebbero stati affrontati i temi meno "di moda" eppure rilevanti e urgenti: i rapporti sacramentali con altri cristiani, la carenza di preti (con comunità impossibilitate a partecipare con regolarità alla messa), gli stili e le forme di celebrazione dell'Eucaristia, tra la fedeltà alla tradizione liturgica e il bisogno di una maggiore aderenza al senso del gesto d'origine e alle indicazioni dei testi neotestamentari. Proprio l'attenzione a come l'Eucaristia viene presentata nel Nuovo Testamento (Vangeli e Paolo) dovrebbe portare a recuperare la "normalità" dell'elemento del pane e del vino e la dimensione familiare e relativamente informale della celebrazione della "frazione del pane": questa dimensione, ci è ormai chiaro, è stata soffocata dalla solennità di riti e paramenti e arredi, che pure vogliono sottolineare l'importanza di ciò che si celebra. Insieme, tale attenzione avrebbe inevitabilmente portato a legare la frazione del pane con l'esodo del popolo d'Israele dall'Egitto, recuperando con piena naturalezza il legame con l'Antico Testamento.

            La riforma liturgica del Vaticano II aveva già compiuto numerosi passi nella direzione di un riavvicinamento dei segni ai credenti e ai dati neotestamentari, sebbene molto sembri ancora da fare. Eppure, nonostante un apprezzamento formale per tale riforma, nella seconda proposizione, l'orientamento che emerge dalle propositiones è proprio nella direzione di un maggiore allontanamento dell'Eucaristia dal quotidiano, a scapito dell'attenzione alle persone e di un orientamento più evangelico.

Un approccio discutibile

            I documenti ecclesiali degli ultimi anni ci hanno abituati ad essere sempre di più riprese globali di un intero tema, non solo dei suoi aspetti discussi. Le propositiones sinodali non sarebbero tenute a tale impostazione, ma di fatto si aprono segnalando la novità del mistero pasquale (pr. 3), il suo porsi come dono divino (pr. 4) e il fatto che fondi e radichi la Chiesa nella sua multiformità ed unità (pr. 5).

            Proprio perché si vuole fondare fin dalle radici il discorso sull'Eucaristia, stupisce che se ne parli partendo dalla croce e dalle dinamiche di dono divine e non dall'ultima cena (in fondo, anche alla pr. 18 si afferma che "senza la Parola di Dio l'Eucaristia perde il suo senso e rischia di essere vissuta come un atto magico": perché non partire allora anche in questa trattazione dalla Parola di Dio e da come questa parla dell'Eucaristia?). È vero che il dono di Dio dell'Eucaristia viene illuminato dalla croce e ad essa rimanda, ma sarebbe stato più equilibrato prendere l'avvio dai testi che ne narrano l'istituzione, durante l'ultima cena.

            Non è questione secondaria: se si tiene presente in primo luogo l'ultima cena è difficile dimenticarsi che è una comunità a vivere l'Eucaristia, e sarebbe naturale proseguire tenendo in debito conto il modo concreto con cui l'Eucaristia oggi viene celebrata. Partendo dalla croce è più facile condurre un discorso più astratto, sacrale, esposto alla tentazione di ragionare indipendentemente dalla realtà della vita di fede della Chiesa.

Sacramento o magia?

            Sembrano queste le ragioni di fondo per cui quando si arriva a parlare di come concretamente la chiesa storica vive il proprio rapporto con l'eucaristia si inizia non dalla celebrazione ma dall'adorazione eucaristica (pr. 6). Ciò facendo ci si espone pericolosamente a dimenticare che l'ostia consacrata rimanda al sacrificio di Gesù attraverso il memoriale che se ne compie nella messa (di nuovo, anche alla pr. 19 si afferma che "la migliore catechesi sull'Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata": perché non partire allora dalla celebrazione dell'Eucaristia per comprenderla?).

            Se vogliamo parlare con equilibrio dell'origine divina dell'Eucaristia bisogna partire dalla vita di Gesù e in particolare dall'ultima cena, se vogliamo parlare con equilibrio dell'esperienza degli uomini con l'Eucaristia bisogna partire dalla celebrazione concreta della liturgia eucaristica.

Non è scontato riuscire a giustificare la conservazione dell'ostia consacrata dopo la celebrazione della messa e l'adorazione eucaristica (per i primi secoli di Chiesa tutto ciò non esisteva), ma ammesso che le si voglia difendere e motivare, ciò fa fatto solo dopo aver fondato il discorso sulla celebrazione eucaristica e sull'ultima cena. Oltre tutto tale forma di venerazione può essere fuorviante per i fedeli contemporanei (perché li astrae dal senso di una fede che vuole rispondere ai bisogni della vita e incarnarsi in una vita concreta) e non aiuta il dialogo con i fratelli cristiani non cattolici. In ogni caso ad "abilitare i fedeli a partecipare consapevolmente, attivamente e fruttuosamente al sacrificio di Cristo" (pr. 6) non può essere l'adorazione eucaristica, ma la celebrazione eucaristica stessa.È una conseguenza l'invito a tenere aperte le chiese per l'adorazione del Santissimo Sacramento, senza che si chieda di prendersi cura di celebrazioni eucaristiche accoglienti e trasparenti del mistero che vi si celebra.

            Non sembra poi pastoralmente e pedagogicamente saggio l'incoraggiamento all'adorazione eucaristica nell'itinerario di preparazione alla Prima Comunione, a meno di spostare quest'ultima ad un'età più tarda: essendo i bambini più portati all'azione che alla riflessione, il rischio può essere quello di convincerli di trovarsi di fronte ad un Dio lontano e misterioso, tanto da allontanarsene appena possibile.

            È coerente con tale impostazione sacrale, che allontana ciò che si celebra dal vissuto quotidiano dei credenti, l'auspicio di utilizzare in tutta la celebrazione (escluse letture, omelia e preghiera dei fedeli), negli incontri internazionali, il latino, raccomandando che a ciò siano preparati i sacerdoti fin dal seminario, senza "trascurare la possibilità che gli stessi fedeli siano educati in questo senso" (pr. 36). La necessità di una lingua comune in cui esprimere la fede in contesti del genere è condivisibile, e si può capire la scelta di una lingua "sovranazionale". Ma non è questo che può aiutare veramente a comprendere meglio il mistero. Sarebbe più sensato orientare le persone a pregare con un cuor solo e un'anima sola pur senza condividere la lingua (forse più nella linea della Pentecoste di Atti 2, che pure non può diventare una base normativa per questioni del genere). Al limite, sembrerebbe più conveniente sfruttare la lingua meglio compresa dalla maggioranza dei partecipanti, fornendo agli altri sussidi per poter seguire e partecipare.

            Più grave è l'appunto della pr. 37, che invita a una maggiore attenzione per le grandi concelebrazioni, per "evitare la perdita del significato proprio delle parole consacratorie (qui/questo), quando i concelebranti sono situati molto lontano dal presbiterio ed è praticamente impossibile che si realizzi la simultaneità sensibile della loro proclamazione". In altre parole, il problema è che chi si trova molto lontano dall'altare non può correttamente dire "questo sacrificio", siccome si svolge molto più in là, e corre il rischio di pronunciare le parole qualche decimo di secondo più tardi di chi presiede la celebrazione. È evidente come si pensi ad una concezione quasi magica della consacrazione, dipendente dalle parole e dal gesto, che quindi devono essere praticati insieme. Non si capisce il rischio che si correrebbe in tali casi: diverse consacrazioni? una consacrazione invalida? Se si presta un minimo di attenzione al senso di ciò che si celebra non sembra restare spazio per tali dubbi: l'intenzione di tutti è quella di un'unica offerta e un unico sacrificio.

            In sintonia con tale impostazione principalmente sacrale dell'Eucaristia è anche la pr. 38, dove "si raccomanda vivamente ai sacerdoti la celebrazione quotidiana della Santa Messa, anche quando non ci fosse partecipazione di fedeli". Quello che era un memoriale celebrato da una comunità ecclesiale, presieduta da un prete, diventa chiaramente un rito gestito dal presbitero, al quale può anche assistere una comunità di fedeli. Se l’assemblea fosse veramente protagonista della celebrazione (come affermato dal Vaticano II: ad esempio Lumen Gentium 10-11 e Sacrosanctum Concilium 48) non sarebbe possibile pensare ad una celebrazione eucaristica in sua assenza.

            Più in generale il Sinodo avrebbe potuto preoccuparsi di più di come l’Eucaristia debba immergersi nel tempo e nello spazio per raccogliere positivamente le diverse culture e situazioni. Ciò evidentemente presuppone una maggiore  libertà nella gestione dell’assemblea affidata alla diocesi ed alla comunità locale. Questo maggiore protagonismo si dovrebbe manifestare soprattutto nelle preghiere dei fedeli e nella lettura e nella riflessione sulla Parola di Dio. La pr.19 fa raccomandazioni generiche sull’omelia  affidata per definizione al presbitero ma questo monopolio è del tutto insufficiente perché troppo spesso pastoralmente disgiunto dalla ricerca della comunità che collettivamente dovrebbe preparare ed anche gestire, come già avviene in alcune situazioni, questo  momento centrale della celebrazione eucaristica .      

Punti discussi

            È inevitabile che ad attrarre la maggiore attenzione fossero le questioni più discusse e problematiche nella chiesa d'oggi: i divorziati risposati devono tenersi per sempre lontani dai sacramenti? Nel caso di preghiere ecumeniche, tra cristiani di diverse confessioni, si può pensare ad una celebrazione eucaristica in comune e partecipare all'eucaristia celebrata da altri cristiani? Soprattutto dove non ci sono preti in numero sufficiente per garantire una messa alla domenica per tutte le comunità cristiane, quale soluzione prospettare? I padri sinodali hanno deciso di trattare anche la questione, collegata all'eucaristia, del sacramento della riconciliazione, indubbiamente in grave crisi già da tempo.

La penitenza

            Non sembra però che al riguardo siano riusciti a condurre un discorso coerente: da una parte raccomandano ai singoli vescovi di non permettere il ricorso alle assoluzioni collettive, ma nello stesso tempo ritengono che "bisognerebbe anche approfondire le dimensioni della riconciliazione già presenti nella celebrazione eucaristica, in particolare il rito penitenziale, affinché si possano vivere veri momenti di riconciliazione in essa" (pr. 7). Questo auspicio si muove però proprio nella direzione di assoluzioni collettive, che sono concesse, in casi particolari, dall'attuale rito della riconciliazione, ma praticate in casi estremamente rari.

Le indulgenze

            È in questo contesto che si afferma che "un altro modo di rinnovare la spiritualità eucaristica è la ripresa dell'insegnamento e della pratica delle indulgenze" (pr. 7). È vero che si auspica anche una catechesi rinnovata sulle indulgenze, ma prima ancora sarebbe opportuna una rinnovata comprensione teologica delle stesse. Oggi, giustamente, non si calca l'attenzione sul "purgatorio", e si esclude comunque che tale condizione sia un tempo o (peggio ancora) un luogo previo alla gloria eterna: in tal modo però l'impostazione classica delle indulgenze resta senza fondamenta. La tradizione ha sempre sostenuto il legame spirituale che si dà tra i credenti che già godono della piena visione e compagnia con Dio (Chiesa gloriosa) e quelli che ancora sono in cammino in questo mondo (Chiesa itinerante), con la possibilità di un sostegno a favore di noi Chiesa in cammino, ma le indulgenze sono legate ad un tempo in cui si concepiva tale rapporto in modo molto normativo e regolato, quasi legale. Limitarsi a riproporle non significa ripresentare anche quell'idea di rapporto con Dio e con i santi? È possibile iniziare a costruire un edificio dal terrazzo, dando per scontato che poi si risaneranno le fondamenta? Siccome al momento tale pratica e insegnamento sono molto marginali e molto discussi, perché non rimetterle in discussione o, perlomeno, rinnovare prima il modo di pensarle.  Inoltre il riprendere a parlare di indulgenze crea forti difficoltà nel percorso ecumenico.

I divorziati risposati

            Un'altra questione problematica oggi fortemente sentita è quella dell'atteggiamento pastorale nei confronti dei divorziati risposati (pr. 8 e 40). Per affrontare il problema si parte però dal punto sbagliato: "Nell'Eucaristia si esprime l'amore di Gesù Cristo che ama la Chiesa come sua sposa, fino a dare la Sua vita per essa. L'Eucaristia è la fonte inesauribile dell'unità e dell'amore indissolubile di ogni matrimonio cristiano" (pr. 8). S. Paolo parla dell'unione tra uomo e donna come immagine dell'unione tra Cristo e la Chiesa (Ef 5,24-32), ma si tratta di un'analogia, che aiuta a comprendere la realtà del mistero divino e di conseguenza illumina anche la vita di coppia, ma non può essere applicata meccanicamente in ogni sua parte, poichè non vuole chiarire le dinamiche di coppia, ma il rapporto tra Cristo e la Chiesa. L'Eucaristia è fonte di vita per ogni cristiano, celibe, coniugato, vedovo o momentaneamente solo che sia. Non si può fondare l'indissolubilità del matrimonio sulla fedeltà tra Cristo e la Chiesa, perché si parla di due realtà diverse.

            Con ciò non si nega la forza con cui il messaggio di Gesù ribadisce l'indissolubilità del matrimonio. Ma, appunto, questa trova lì la propria radice. Trovarla altrove non aiuta a condurre un discorso equilibrato e sensato, né, di conseguenza, a trarre adeguate conseguenze pratiche. Correttamente alcuni padri sinodali hanno ricordato la prassi dei primi secoli che è rimasta nella Chiesa ortodossa, quella di riaccogliere nella piena comunione ecclesiale il divorziato risposato dopo un percorso di verifica ed anche di penitenza. Il Sinodo ha concluso con una posizione schizofrenica : da una parte ripete con parole enfatiche che il divorziato risposato fa parte della comunità dei credenti, dall’altra gli proibisce di partecipare alla mensa eucaristica.

Celibato e presidenza dell’Eucaristia

            Come terzo punto discusso si tratta della scarsità di preti e di ipotesi di soluzione a tale penuria (pr. 11-12). Si ignora del tutto la catastrofe della pedofilia e la crisi di fiducia che si è abbattuta sul sacerdozio celibatario, e il ragionamento sulla crisi delle vocazioni sembra poco meditato nelle soluzioni prospettate, e anche occasione per prese di posizione che andrebbero motivate e ponderate in tutt'altro modo. Si prende infatti in considerazione a questo punto la possibilità di ordinare uomini sposati o donne, ma qualunque siano le riflessioni e le scelte in merito, il discorso non può essere orientato dalla scarsità di presbiteri. Se vi devono essere preti sposati e donne prete, devono esservi al termine di una riflessione teologica e pastorale completa sul presbiterato e sul ministero, non per colmare dei vuoti.

            Per quanto riguarda le indicazioni per incentivare la pastorale vocazionale (alla pr. 12), in primo luogo si chiede di "costituire gruppi di chierichetti e procurare loro l'accompagnamento spirituale". Sembra ancora un'impostazione coerente con una sacralizzazione del ruolo presbiterale che allontana il prete dalla vita comune: per questo non si pensa innanzi tutto alla formazione di tutta la comunità ecclesiale e alla concezione della vita cristiana come vocazione, che si tratti di scegliere la professione e gli orientamenti di vita o il proprio ruolo nella chiesa, bensì alla formazione di gruppi selezionati che siano formati con un orientamento chiaro.

L’intercomunione

            Per quanto riguarda i rapporti con gli altri cristiani, soprattutto rispetto alla possibilità di partecipare alla comunione insieme agli altri fratelli cristiani nelle poche occasioni particolari in cui si prega insieme, probabilmente molto si sarebbe potuto concedere senza sconvolgimenti. La posizione classica cattolica è sempre stata che la compartecipazione all'Eucaristia implica e simboleggia una comunione piena che con i fratelli riformati e ortodossi non c'è. Quando però si parla di celebrazioni eucaristiche in situazioni di scontro politico, si afferma che "l'Eucaristia è sacramento di comunione tra i fratelli che accettano di riconciliarsi in Cristo", e "varie testimonianze hanno riferito che popoli in conflitto hanno potuto radunarsi attorno alla Parola di Dio, ascoltare il suo annuncio profetico della riconciliazione tramite il perdono gratuito, ricevere la grazia della conversione che permette la Comunione allo stesso pane e allo stesso calice" (pr. 49): perché ciò che ha conseguenze proficue in campo politico non potrebbe averlo in campo ecclesiale, radunando intorno ad uno stesso altare fratelli non in piena comunione, per renderli più fratelli e più sorelle e più in comunione?

Note pastorali varie

            L'Eucaristia è il sacramento centrale della vita cristiana, e intorno ad essa si strutturano anche gli altri. È quindi scontato che il sinodo si sia occupato in primo luogo dei sacramenti dell'iniziazione cristiana (battesimo e confermazione), che mirano a costituire quella chiesa che si raduna intorno all'Eucaristia. La pr. 13 nota a ragione che il legame tra questi tre sacramenti spesso non è adeguatamente colto. Di conseguenza si invita a ripensare l'età giusta per la confermazione e se l'ordine logico (appunto, battesimo, confermazione ed eucaristia) non vada mantenuto anche per i bambini.

            Queste due affermazioni non sono precisate e chiarite. Potrebbero implicare l'idea di rimandare l'eucaristia ad un'età di maggiore consapevolezza e scelta autonoma, ma alla pr. 15 si dice che "non si deve restringere senza ragione l'accesso dei bambini alla tavola eucaristica". Si deve quindi pensare che i padri sinodali ritengano utile vagliare la possibilità di anticipare la confermazione al battesimo o non molto tempo dopo (nella chiesa ortodossa battesimo, confermazione ed eucaristia sono riuniti solitamente in una sola celebrazione, anche quando interessano neonati), con i gravi rischi pastorali che ciò comporterebbe: già ora, infatti, la formazione cristiana è normalmente formazione di bambini e ragazzi, e le ragioni addotte alla fede sono, coerentemente, tarate sulla mentalità dei bambini e dei ragazzi. La conseguenza tratta da molti è che la fede è per bambini e ragazzi.

            In merito, un piccolo appunto su un'osservazione che ritorna in più passi (pr. 13 e 15 e di passaggio altrove), della famiglia come luogo d'accesso privilegiato alla fede e al culto eucaristico. Non si può non condividere l'annotazione, a patto di rendersi conto che in questo tempo la famiglia è sempre più assediata da diverse parti e si mostra particolarmente fragile. Riconoscerne il ruolo nella formazione alla fede può rischiare di suonare come una deresponsabilizzazione della Chiesa, se non si precisano con cura le possibilità e i compiti della famiglia e gli aiuti cui può ambire.

            Merita invece un sentito plauso la pr. 44, che propone di favorire una piena partecipazione all'Eucaristia per i disabili mentali, in quanto "l'impossibilità di conoscere quale è la sensibilità effettiva propria di certa tipologia di infermi non è una ragione sufficiente per non dare loro tutti i sostegni sacramentali di cui la Chiesa dispone", e per l'abbattimento delle barriere architettoniche nelle chiese. Si tratta di attenzioni spesso non presenti se non in documenti specificamente dedicati alla malattia e alla disabilità, e sono attenzioni profondamente in sintonia col Vangelo.

Maria

            La pr. 50, che chiude il documento, afferma che "la Chiesa vede in Maria, 'Donna Eucaristica', soprattutto ai piedi della croce, la propria figura e la contempla come modello insostituibile di vita eucaristica". È tradizionale concludere trattazioni autorevoli con il riferimento a Maria, ma bisogna riconoscere che negli scritti neotestamentari, gli unici che possano dirci qualcosa di concreto su di lei, Maria resta nascosta in secondo piano, e non può costituire un esempio concreto di vita, se non per alcuni particolari.

            La fondazione completa dell'Eucaristia, peraltro, si dà con la risurrezione, quando il Padre conferma la "pretesa" di Gesù di essere Parola definitiva di Dio, e garantisce anche ai suoi fedeli che quella sarà la sorte di chi nell'Eucaristia si unisce alla sua morte per condividerne anche la risurrezione. Ai piedi della croce non può ancora esistere un approccio pienamente eucaristico, non esistendo l'Eucaristia. Quanto affermato dai padri sinodali può essere scritto solo lasciandosi prendere la mano dalla retorica dei simboli, che non è, in campo cristiano, una buona guida. Poteva bastare la gratitudine per la Vergine, l'unica persona umana che ha in qualche modo condizionato il farsi presente di Dio (concedendogli pieno spazio nel proprio corpo, ed è ruolo e valore unico che fonda giustamente la dignità unica di Maria), senza voler cercare in lei ciò che i cristiani non possono trovarvi.

            Si nota anche in quest'ultimo passo, come diverse volte nel testo, una riflessione teologica deficitaria dei padri sinodali, che dovrebbe essere  corretta da Benedetto XVI nella stesura del documento conclusivo del Sinodo che a lui compete. Non si può negare che il testo in questione denuncia la cattiva salute della Chiesa per un paio di aspetti almeno.

Poligamia da discutere

            Una prima annotazione è strettamente legata alla prima e prende spunto dalla pr. 9, che invita a contrapporsi con forza e determinazione alla poligamia di cristiani, e che ha ottenuto ben 28 voti contrari e 16 astensioni, contro 195 sì (in un parlamento sarebbe una maggioranza schiacciante, ma nei documenti ecclesiali si dà per scontata la quasi unanimità; in effetti è quasi la propositio che ha raccolto il minor numero di voti favorevoli). Per noi europei è un'affermazione talmente scontata che non sarebbe neppure necessario inserirla in un documento. Ma per i cristiani africani evidentemente no. E deve essere africana la maggior parte di quei voti contrari, nonostante i vescovi africani tendano spesso ad evitare di prendere posizioni diverse da quella della curia vaticana. È chiaro che per la chiesa africana il problema esiste e andrebbe meditato. Se non si fa, è perché in tutta la chiesa cattolica, negli ultimi lustri, si è inceppato il meccanismo virtuoso per cui i teologi, ascoltando le esigenze e le sensibilità di tutti i fedeli, le fanno dialogare con la Scrittura e la tradizione, e avanzano ipotesi di rilettura teologica e di applicazioni pastorali sulle quali i vescovi pronunciano l'ultima parola, discernendo che cosa può far progredire il popolo cristiano sulla via di Dio. Nel caso in questione, dovrebbero essere i teologi africani, che meglio sanno che cosa significa in quel contesto culturale, nel bene e nel male, la poligamia, ad ascoltare esigenze e sensibilità dei cristiani d'Africa e avanzare riletture teologiche della questione, sulle quali dovrebbero pronunciarsi i vescovi.

Pastorale, teologia e vescovi

            Negli ultimi tempi si è poi avvertito sempre più fastidio per il lavoro di ricerca dei teologi, molti dei quali sono stati messi a tacere e allontanati dall'insegnamento (più di cento negli ultimi quindici anni, per limitarci a chi insegnava in grandi centri o pubblicava le proprie ricerche, tanto da far intervenire la Congregazione per la Dottrina della Fede; a livello di singole diocesi sappiamo di altri provvedimenti simili ma con meno clamore e senza possibilità di un censimento accurato). Mancando il lavoro serio dei teologi, dovrebbero essere i vescovi a recuperare l'ascolto del popolo di Dio, la ricerca teologica e il discernimento. A loro manca però spesso il tempo (e qualche volta la preparazione) per svolgere tale duplice compito, come le propositiones confermano. La domanda che sorge è però se in questo modo si lascia allo Spirito pieno spazio e modo di farsi ascoltare.

            In primo luogo i vescovi sono coloro che, a livello locale, e tenendo particolarmente d'occhio la pastorale, devono discernere quali orientamenti e cammini si possano percorrere secondo lo Spirito Santo e il Vangelo. Senza conoscere con cura e gestire con finezza la teologia è inevitabile lasciarsi guidare, nelle scelte, dal buon senso (che non fa mai male ma, in sé, non è Vangelo) o da quanto era stato già detto dai vescovi e papi precedenti (in effetti la grande maggioranza delle citazioni delle propositiones rimanda a documenti ecclesiali... non alla Scrittura): Ma una Chiesa che si trova in un mondo sempre più in trasformazione e che pone domande e sfide nuove, potrà limitarsi a ripetere ciò che si diceva nelle generazioni precedenti? Il Vangelo non cambia, ma i contesti culturali nuovi non possono che imporre modi nuovi di tradurlo nel mondo.

L’Eucaristia si fonda sulla giustizia e sulla pace

            Solo alla fine, alla pr. 48, il Sinodo si occupa dell’intreccio tra Eucaristia e la testimonianza della giustizia e della pace come pratica essenziale sia nei rapporti tra i partecipanti alla celebrazione eucaristica  sia nell’impegno nella società e nel mondo. Ne parla con parole forti ma che appaiono rituali per lo scarsissimo rilievo che queste tematiche hanno avuto  nelle discussioni fatte al Sinodo.

            Eppure il sinodo era stato stimolato a riflettere a fondo in questa direzione dalle parole impegnative  della Mane nobiscum Domine  che, al cap.28, elenca le tante povertà del nostro mondo che le “comunità diocesane e parrocchiali” dovrebbero cercare di lenire :   

 “Il dramma della fame che tormenta centinaia di milioni di esseri umani, le malattie che  flagellano i paesi in via di sviluppo, la solitudine degli anziani, i disagi dei disoccupati, le  traversie degli  immigrati. Sono mali che segnano – seppure in misura diversa – anche le regioni più opulente. Non possiamo illuderci: dall’amore vicendevole e, in particolare, dalla sollecitudine per chi è nel bisogno saremo riconosciuti come veri discepoli di Cristo (Gv 13,35; Mt 25,31-46). E’ questo il criterio in base al quale sarà comprovata l’autenticità delle nostre celebrazioni eucaristiche”.

 

                                                                                 “Noi Siamo Chiesa

                                               (aderente all’International Movement We Are Church-IMWAC)

 

Roma, novembre 2005