A MILANO UN RECENTE CONVEGNO
DI STUDIO E DI RIFLESSIONE
Penitenza
malata cronica
Di fronte al diffuso
malcontento e all'abbandono della pratica del sacramento si moltiplicano
convegni e dibattiti. La pratica “tradizionale” ignora la storia e le proposte
conciliari.
Confessione, penitenza, perdono, riconciliazione,
tutti termini con precisi significati, ma che spesso si confondono e si
sovrappongono nell’unico sacramento che è quello della penitenza. Ciò che però
li tiene tutti insieme è il profondo disagio che comunque producono nei fedeli
che al sacramento della penitenza si accostano. Il concilio Vaticano II aveva
dato le linee di riforma, ma, forse più che per ogni altro ambito, queste sono
state disattese, se non del tutto contraddette. Insomma sempre meno i cattolici
si confessano – nonostante tutto sono ancora gli italiani i più assidui – e
sempre più si fatica a ragionare su tale situazione, salvo continuare a
riaffermare norme e modalità che sarebbero da riformare secondo i dettami
conciliari.
Questo è emerso anche nel
recente incontro di studio e riflessione – dal titolo “Peccato e perdono: come
pensare e praticare la riconciliazione?” – promosso a Milano dall’associazione
italiana “Noi siamo chiesa”, unitamente al Gruppo Promozione Donna e al
“Coordinamento 9 marzo”, che raggruppa persone e agglomerati vari che intendono
essere protagonisti dinamici della vita della chiesa.
Ancora di più si è visto
come manchi una consuetudine a dibattere temi tanto caldi e disagevoli, come la
voce laicale sia sempre molto debole e minoritaria e che, più che dare immagine
al diffuso malcontento e vederne le componenti storiche, non si riesce ad
andare oltre.
Una risposta
inadeguata
«Siamo convinti – ha detto
nella presentazione del convegno Vittorio Bellavite, di “Noi siamo chiesa” –
che il rapido declino della funzione e della credibilità stessa della
confessione individuale dei peccati davanti ad un sacerdote, solo ministro del
sacramento, sia conseguenza non della secolarizzazione ma, soprattutto, della sua
inadeguatezza, particolarmente oggi. Non a caso l’abbandono di questo
sacramento non avviene in genere da parte di chi ha un rapporto con la fede e
con la chiesa di tipo tradizionale, consuetudinario, passivo ma da parte di chi
è fortemente motivato alla vita cristiana, di chi è più impegnato in una nuova
comprensione della parola di Dio ed è più attivo nelle associazioni, nelle
parrocchie e magari vive in convento o in qualche comunità di vita religiosa».
È diffusa l’opinione che
negli ultimi trent’anni ci si è limitati a ripetere gli orientamenti prevalsi
al concilio di Trento, dal Codice di
diritto canonico del ’83 al Catechismo
del ’92, allo stesso sinodo dei vescovi del ’83, dove pure i problemi furono
posti (tra chi li pose ci fu il card. Martini) ma furono risolti in modo
autoritario da Giovanni Paolo II con l’esortazione apostolica Reconciliatio et poenitentia che di
fatto sposò le posizioni già esposte al sinodo dal card. Ratzinger. Ai problemi
si risponde con troppi documenti della cui efficacia pastorale si può legittimamente dubitare, ultimo di questi
la lettera apostolica Misericordia Dei
[che “Noi siamo chiesa” ha commentato con un documento dal titolo significativo
“Poca misericordia e molto codice”].
Ma non si tratta di
semplice disagio emotivo o psicologico proprio di uomini e donne del nostro
tempo che faticano a sottostare ad un’autorità giudicante, ma contrasti di
ordine teologico e di autentica comprensione evangelica. Basti pensare a quanto
negli ultimi mesi, e in tutti gli anni del dopo-concilio, p. Falsini ha
continuato a ribadire certi errori, che sono persino grossolani,
nell’interpretazione del significato autentico del sacramento della penitenza.
A partire dalla formula stessa dell’assoluzione – “Io ti assolvo” – quando ad
assolvere può essere solo Dio, per tornare all’incongruo uso devozionale, o
devozionistico, della confessione che invece vorrebbe solo l’accusa di peccati
gravi e la ferma volontà di conversione.
Un concilio
disatteso
Dall’ordo poenitentiae –
promulgato il 2 dicembre 1973 dopo ben sette anni di faticosi lavori –
all’edizione italiana del Rito della
penitenza del 21/4/74, ci sono stati cambiamenti in corsa. Infatti,
l’«unico modo ordinario grazie al quale i fedeli si riconciliano con Dio e con
la chiesa» è diventata la formula della confessione e assoluzione personale,
escludendo quasi del tutto la terza formula, quella della confessione e
assoluzione generale. In tal modo quello che dal concilio era al primo posto,
il rito di confessione e assoluzione generale, è passato al terzo, e il terzo è
diventato il primo. I due riti di tipo comunitario, che avrebbero proprio il
compito di mettere in luce l’aspetto comunitario del sacramento della
penitenza, nell’edizione italiana del rituale sono del tutto scomparsi.
«Possiamo aggiungere –
sostiene p. Falsini – un’altra scelta deprecabile nell’edizione italiana:
l’inserimento del vecchio atto di dolore in luogo della nuova preghiera del
penitente con riferimento diretto a Cristo». Non è l’atto di dolore il punto
centrale, ma la conversone del cuore. Cose dette e ripetute, senza esito. E
che, forse, se ben ristabilite, potrebbero anche trovare positiva accoglienza
tra i fedeli.
Per il fatto che il
concilio Vaticano II non ha posto a tema direttamente il male, ci troviamo oggi
ancora a discutere su cosa sia, e su come debba essere confessato, il peccato,
correndo il rischio di porre sullo stesso piano la “scappatella” con il
disorientamento di vita.
«Dal peccato – ha
riaffermato p. Ortensio da Spinetoli, per una vita docente di sacra Scrittura
all’Antonianum di Roma – se ne esce cambiando vita e le opere di penitenza a
questo devono portarci, a mutare il nostro modo di pensare e di vivere». E tale
conversione non può accontentarsi della vocina, spesso troppo flebile, della coscienza
ma con la presa in mano e la messa in atto dei parametri dati dal vangelo.
Insomma, a parole tutto sembra facile da descrivere: tutti siamo chiamati a
fare penitenza, a convertirci, alla luce della Parola e insieme ai fratelli. Il
difficile è come rinnovare, o riportare al vangelo e al concilio, un sacramento
che spesso nella prassi perde la sua piena verità.
«I sacerdoti della mia
parrocchia – testimonia don Ferdinando Sudati, della diocesi di Lodi –, e a
volte anche qualcuno da fuori, dedicano molte ore del loro tempo ad ascoltare
le confessioni e ad assolvere: non tanto dai peccati, essendo notorio che chi
ne commette di robusti sta alla larga dal confessionale, quanto dai
non-peccati. Naturalmente, qualche volta si assolve anche da peccati veri e
propri, ma che appartengono spesso a gente che viene alla confessione senza
discernimento, né pentimento, né conversione, né gioia (per il perdono).
Giungono per i più svariati motivi: perché si festeggia il 25° di matrimonio o
perché si deve partecipare ad esso in qualità di figli o di parenti stretti;
perché un amico si sposa; perché la bambina fa la prima comunione; perché c’è
un lutto familiare o nella cerchia dei vicini; perché lasciati dalla fidanzata.
Così, un sacramento, che in se stesso è dono e grazia, a motivo di tradizioni
sedimentate e tutt’ora incoraggiate, viene reiterato all’infinito per chi non
ne ha alcuna necessità, penalizzando – è il caso di dirlo – coloro che sono più
ligi alle indicazioni ecclesiastiche, mentre viene improvvisato e persino
banalizzato per coloro che ne avrebbero maggiormente bisogno».
I laici, voce
inascoltata
Nulla di nuovo rispetto a
quanto si va dicendo, almeno da alcune parti, da tempo, ma sempre mancano la
voce e il coinvolgimento dei fedeli che di questo sacramento sono comunque
protagonisti. Eppure, «di fronte allo scollamento attuale tra la pratica di
questo sacramento e la gente, e l’assunzione della parola di Dio come chiave
indispensabile per un rinnovamento adeguato, tutta la comunità cristiana,
composta di uomini e di donne, ha qualcosa da dire.
È proprio in questa cornice
che vogliamo in particolare segnalare – si legge nel documento presentato al
convegno dal Gruppo Promozione donna
– il pesante condizionamento esercitato sulle donne dalla prassi penitenziale
impostata sui criteri del concilio di Trento, che è ancora residuale come
mentalità diffusa e spesso impostata, che ha veicolato e veicola ancora modelli
femminili passivi, basati sulla rassegnazione e sul nascondimento. Soprattutto
l’accentuazione individualistica delle confessioni e un moralismo incentrato
sulla repressione della sessualità, assieme alla pressione sulle coscienze,
hanno ostacolato per lungo tempo la maturazione di una propria dignità di
persone, l’esigenza di rispetto, la giustizia, favorendo due pesi e due misure
di giudizio dei comportamenti degli uomini e delle donne».
Non conta che il singolo
confessore sia più o meno indulgente, più o meno capace di comprensione e di
condivisione delle difficoltà, e nemmeno che vi siano eccezioni tra i ministri
della penitenza, oppure che a livello di studiosi e di centri di riflessione
più aperti e dinamici – e contrari all’andamento più diffuso – si ammetta la
necessità di una riforma globale del sacramento della penitenza, si tratta di
dare voce e di accogliere il grido – come una testimone al convegno ha
esplicitato –, di donne e uomini che soffrono e denunciano una gestione di
potere sulle persone attraverso l’amministrazione stessa del sacramento, che
certo non è forma di riconciliazione. Anche di questo bisognerà un giorno
riuscire a parlare.
Rosangela Vegetti