RIFORMA DEL PAPATO/1
La questione della
sovranità monarchica di
Giancarlo Zizola (da "Rocca",15 marzo 2002, n. 6)
Una domanda è stata suscitata dal teologo Ladislas
Orsy, gesuita che lavora al Georgetown University Law Center di
Washington: "il papa potrebbe governare una Chiesa nella quale
confluissero tutte le comunità cristiane, allo stesso modo in cui
attualmente governa la comunità cattolica romana? Se no, quali cambiamenti
occorrerebbero?" (1). La questione fa comprendere come sarebbe
difficile immaginare che il papato abbia un avvenire se non si dotasse di
una morfologia di comunione, non solo al centro ma ovunque, tale da
coinvolgere tutta la Chiesa. Anche il papa non è soddisfatto della
situazione. Il problema è quali siano i miglioramenti concreti più
urgenti. È evidente che si deve procedere verso un papato ecumenico si
deve cominciare dal rafforzamento della comunione cattolica e della
partecipazione all'interno della Chiesa romana anche alla periferia, in
tutte le sue parti, nella loro unità e nelle loro immense e irriducibili
diversità. Lo esige non solo il principio classico di sussidiarietà, ma
anche la natura universale della missione evangelizzatrice, che deve
aprirsi all' inculturazione del Vangelo nei nuovi universi
culturali ancora non abbastanza permeati o raggiunti dalla fede cristiana,
specialmente in Asia e in Africa, al di là del mondo occidentale. Il
malessere nelle relazioni ecclesiali a causa delle sue debolezze
strutturali non riesce ad essere compensato dai successi di visibilità e
di prestigio internazionale della Chiesa romana. Il "caso Milingo"
scoppiato nell'agosto 2001 ha rivelato alcuni dei problemi causati dal
ritardo con cui si procede all'adempimento delle raccomandazioni del
Sinodo dei vescovi per l'Africa a proposito di un piano di
africanizzazione del cristianesimo. Ricordo quanto diceva al riguardo
Karl Rahner già nel 1984: "Bisogna chiedersi se la morale matrimoniale
africana debba continuare a ricalcare quella europea; bisogna affrontare
il problema della concezione del divenire del matrimonio, insieme
all'altra questione, se cioè tutte le forme di poligamia africana siano
davvero incompatibili con il cristianesimo. È assolutamente urgente una
effettiva, legittima decentralizzazione della Chiesa, con tutte le
conseguenze" (2). Non si tratta unicamente di un migliore equilibrio fra
l'Urbe e l'Orbe, fra il centro e la periferia, ma anzitutto di rispondere
ad una esigenza teologica. È noto che alcuni teologi, fra cui il cardinale
J. Ratzinger, ritengono che la Chiesa universale precede le Chiese
particolari. Anche nella istruzione Dominus Jesus (2000) questa tesi
romanocentrica è stata vigorosamente sostenuta, suscitando le riserve di
coloro che si ostinano a restare fedeli all'eredità del Concilio Vaticano
II. Secondo la Lumen gentium, la Chiesa universale esiste nelle
Chiese particolari e a partire da esse. In altri termini non esiste Chiesa
universale, neppure teoricamente, senza le Chiese particolari. Questa
visione delle differenze che fanno la multiversalità della Chiesa resta la
chiave dell'avvenire del papato, così come il ritorno alla Chiesa dei
poveri, due aspetti organicamente congiunti di una Chiesa che abbia il
coraggio di sottrarsi ai paradigmi del potere e delle sue aquile. Le voci
di alcuni prelati cattolici molto autorevoli come i cardinali Koenig, Eyt
e Danneels, dopo l'intervento di rottura dell'arcivescovo di San Francisco
mons. John Raphael Quinn nel 1996, hanno criticato la politica romana e
invocato le riforme, e si direbbe le spoliazioni necessarie perché il
vescovo di Roma possa recuperare la pienezza del suo significato
spirituale, al centro della comunione delle Chiese cristiane, e
riconoscersi evangelicamente al rovescio delle logiche del potere, su
quelle tracce di Dio che sono le vie della debolezza e della povertà. Si
potrebbe ricordare al riguardo un'impressionante previsione formulata da
Paul Ricoeur quando, alla vista dell'abside michelangiolesca, dai Giardini
sul Colle dei Vaticinii, osava egli stesso vaticinare: " Sublime! Ma un
giorno la Chiesa dovrà rinunciare anche al suo sublime se vuole annunciare
il Cristo povero e crocifisso"
Il seme fraterno da portare alla luce L'enciclica Ut unum
sint non entra nella discussione su quale sia infine la forma del
papato da ritenere, se quella di un trono aggiornato e modernamente
rilanciato o quella di una rinuncia ad ogni sovranità monarchica, per far
risplendere dall'interno della storia di questa istituzione il suo seme
fraterno nascosto. Al fine di realizzare una nuova partenza della
riforma del modello assolutista di papato, si sono moltiplicati, anche nel
Concistoro straordinario del 2001, gli interventi di alti prelati secondo
i quali è indispensabile modificare alcune posizioni divenute critiche
della prassi ecclesiastica. Si può supporre che i teologi negli
anni avvenire, coadiuvati dagli storici e dagli esegeti biblici, avranno
il loro da fare nel mettere a fuoco una forma papale che limiti la
sovranità giurisdizionale ai casi d'eccezione, riconoscendo per la
fisiologia della vita ecclesiale la pratica della sussidiarietà, larghe
autonomie come quelle vigenti per i patriarcati e gli istituti sinodali
nella Chiesa antica, un coraggioso processo di decentramento e sviluppando
il metodo della collegialità episcopale nella formazione delle decisioni
di maggiore importanza, secondo quello che era l'orientamento stabilito
dal Concilio Vaticano II. Sulla collegialità, i Padri conciliari si erano
limitati, dopo un serrato dibattito, a enunciare la dottrina, ma avevano
lasciato al legislatore la formulazione delle norme e delle strutture di
applicazione. Tali norme non sono state ancora emanate (3).
Un Sinodo dei vescovi deliberativo In questa prospettiva, si
impone la riforma del Sinodo dei vescovi, per renderlo uno
strumento effettivo della collegialità. Questa esigenza è stata avanzata
sia nel Concistoro straordinario del maggio 2001 sia nel dibattito
svoltosi nell'ottobre 2001 nell'assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi
sulla figura del vescovo per la Chiesa del terzo millennio. La differenza
tra consultazione e collegialità non può essere minimizzata. Anche
nell'Instrumentum laboris di tale assemblea si scambiava la
collegialità con l'affectio collegialis e le funzioni informative
delle assemblee. Ma collegialità significa propriamente partecipazione
alla formazione e all'atto della decisione, come avviene in un Concilio
Ecumenico. Evidentemente il Sinodo istituito da Paolo VI ha lasciato a
desiderare, essendo rimasto un organo consultivo. I vescovi non possono
prendere alcuna decisione, ma solo proporre delle raccomandazioni al papa.
Questa istituzione non manca di utilità, ma ridotta ad una accademia di
studio ha deluso, a parere di molti, l'obiettivo di rappresentare un
organo di con-governo tra il papa e i vescovi, tale da contenere il potere
degli organi amministrativi centrali. La curia romana resta diffidente
verso la prospettiva di un con-governo del papa e dei vescovi, a
detrimento del con-governo di fatto del papa e della curia. Pertanto
l'affermazione della collegialità episcopale è stata circondata da
numerose precauzioni intese a toglierle ogni carattere giuridico. Ciò
spiega che il Concilio Vaticano II non è riuscito, anche a causa delle sue
proprie ambiguità, a produrre il cambiamento della figura concreta del
governo della Chiesa, rimasto ancorato al centralismo e ad una mentalità
ancora molto massimalista del primato. Dal 1985 poi i concistori
straordinari hanno sostituito i sinodi straordinari previsti da Paolo VI
nel motu proprio Apostolica sollicitudo del 1965 per
l'istituzione del Sinodo, cioè degli incontri annuali dei presidenti delle
Conferenze episcopali con il papa. Ora i concistori sono ben diversi dai
sinodi. I primi riuniscono i cardinali, nominati dal papa, i sinodi invece
i presidenti eletti delle Conferenze nazionali e continentali. Il sinodo
straordinario è l'espressione della collegialità dei vescovi e delle loro
Chiese particolari. Il concistoro non ha tale rappresentatività, viene
dall'alto, prolunga il primato pontificio. Come ha scritto mons. Gabriel
Matagrin, vescovo emerito di Grenoble, "è incontestabile che l'equilibrio
tra il primato e la collegialità è stato rotto a beneficio del primato.
Non c'è bisogno di essere un grande ecclesiastico per vedere, in questo
arretramento del ruolo delle conferenze episcopali, una volontà affermata
senza posa e perseguita da un certo numero di membri eminenti della curia
romana. Da questo punto di vista, riconosciamolo, è lo scacco del
Concilio. È nella linea della Nota esplicativa previa, nella quale
il papa è chiamato "vicario di Cristo", mentre egli è il vicario di
Pietro. Siamo tornati su questo punto a prima del Concilio" (4).
La scelta dei vescovi Un secondo problema da risolvere per
l'avvenire del papato è un nuovo intervento di riforma sulle norme e le
procedure per la selezione dei vescovi. Contrariamente alle regole dei
primi secoli, quando la voce del popolo cristiano era ascoltata, e alle
norme introdotte nel XII secolo, basate sulla partecipazione dei vescovi
limitrofi, il regime attuale riproduce l'esclusiva della Santa Sede nella
nomina dei vescovi di tutto il mondo, un regime instauratosi nel XIX
secolo. Il sistema è divenuto pletorico, con quasi 5.000 vescovi in
funzione, e un migliaio in congedo. A influenzare in modo spesso decisivo
la selezione è l'intervento del legato pontificio, che forma e trasmette
le terne a Roma. Le dinamiche della comunione del Popolo di Dio sono
normalmente emarginate da questo processo decisivo per la scelta dei
pastori. Uno dei risultati di questa disfunzione è che quasi la metà dei
membri dell'episcopato cattolico è costituita da vescovi che non sono
pastori di una Chiesa locale, perché sono emeriti o titolari. Di qui uno
scenario di un collegio episcopale destinato al governo della Chiesa
universale, con e sotto Pietro, senza che la voce delle Chiese locali vi
abbia un ruolo. Già uno dei maestri della teologia del Novecento, Karl
Rahner, indicava nel 1984 la necessità di avere "un modo diverso di
selezionare i candidati all'episcopato e modi alternativi di ordinare i
vescovi, modi diversi da quello italiano" (5). Per eliminare queste
aporie, sembra indispensabile che si sviluppino nuovi criteri di
consultazione e di partecipazione a tutti i livelli del sistema
ecclesiastico, in modo che la Chiesa possa guarire dalla dottrina
virale del solus pontifex, che assorbirebbe nella sua figura di
supervescovo la Chiesa intera, secondo un modello che echeggia quello
della "monarchia esterna" di Gregorio VII. Per questo è stata manifestata
la preoccupazione per il ritorno ad un nuovo centralismo papale
itinerante, rafforzato dalla mobilitazione delle masse, dal ricorso
sistematico ai media e dall'accentuazione del suo ruolo etico-politico
globale. Ad esigere comunione e partecipazione è anzitutto la
prospettiva ecumenica, poiché non è pensabile che in una futura Chiesa
riunita le Chiese cristiane ortodosse, come quelle luterane e anglicane,
possano rinunciare alle proprie prerogative e tradizioni nella elezione
sinodale dei propri patriarchi e pastori, per i quali si potrà
successivamente richiedere la "comunione" del vescovo di Roma. Lo
richiede anche l'identità della Chiesa stessa. La sua storia più antica fa
emergere che la comunità cristiana non era un gregge passivo sotto la
guida di ministri che si cooptano per riprodurre una casta di governanti.
Essa invece aveva una parte attiva, in unione con i vescovi, nella
determinazione e nell'esercizio della propria vita, nella designazione dei
ministri, nella pratica associativa, nella costituzione dell'assemblea
liturgica e nella formazione delle decisioni. "Ciò che riguarda tutti e
ciascuno deve essere approvato da tutti" era il principio seguito nei
primi dieci secoli, quando i processi di consultazione e di formazione
delle decisioni e la stessa scelta dei presbiteri e dei vescovi avvenivano
col voto del clero e del popolo. E non a caso Yves Congar concludeva
l'analisi della prassi vigente nei primi secoli della Chiesa affermando
che la questione della democrazia nella Chiesa non implica un adattamento
all'ordine mondano, una estraniazione, ma pone una questione di
ecclesiologia, cioè l'adozione di un modello più conforme allo spirito e
alle motivazioni teologiche profonde vissute dalla più antica tradizione
ecclesiale.
La partecipazione del popolo di Dio Il Concilio Vaticano II
aveva definito la Chiesa "Popolo di Dio", sollecitando delle riforme nel
senso della partecipazione dei laici ai processi di formazione delle
decisioni. Queste direttive sono state eluse, e anzi rovesciate. Si è
deplorato che un nuovo clericalismo ha preso forma nella Chiesa romana,
con schiere di laici sonnambulari, ridotti ad uno spiritualismo gregario e
a cloni del clero. Le code dei cardinali sono state tagliate, ma i
caudatari sono rimasti, anzi sono proliferati, dopo l'emanazione di
documenti interdicasteriali per ribadire l'antica subalternità dei laici
al clero, anche nei consigli pastorali. Eppure la maggior parte degli
addetti pastorali nella Chiesa cattolica sono ormai diaconi catechisti,
suore, cioè laici, uomini e donne, soprattutto in Africa. Crescono le
ministerialità laicali, con una rilevanza numerica soprattutto per i
catechisti, stimati in 2 milioni e 500 mila (660 per mille del complesso
delle forze pastorali della Chiesa cattolica), mentre sono 60 mila i
missionari laici, 37 mila i diaconi permanenti, 815 mila le religiose
professe (6). E evidente che queste dimensioni della realtà rendono
inevitabile il riconoscimento istituzionale del laicato come soggetto
ecclesiale, anche nella sua funzione ministeriale propria.
Autonomia delle conferenze episcopali Un altro intervento
necessario riguarda la necessità di riconoscere una giusta libertà e
autonomia delle Conferenze episcopali, invertendo così la tendenza
riduttiva affermatasi nel 1998 con il motu proprio Apostolos suos
sulla natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali. Le norme
canoniche relative alle conferenze episcopali lasciano attualmente ai
vescovi poca libertà, se pure la lasciano, per "portare il fuoco nella
terra". La severità del criterio dell'unanimità numerica richiesto perché
una dichiarazione dottrinale costituisca magistero autentico ha effetti
paralizzanti e nessuna azione può essere avviata da una Conferenza senza
essere prima autorizzata da Roma. Tutto ciò ha concentrato sulla figura
papale il potere magisteriale universale e ha prodotto delle tendenze
omologatorie e conformiste nell'episcopato mondiale, impedendo ai corpi
gerarchici locali di assumere le proprie responsabilità
nell'inculturazione differenziale del messaggio evangelico in un mondo
globalizzato.
Riforma della curia Un quinto intervento necessario per il
papato del futuro riguarda la correzione dell'infallibilismo
abusivo. Non si tratta soltanto di un costume malsano di esagerazione
e di servilismo, ma anzitutto di una rete di norme che attribuiscono
sistematicamente agli organi centrali la possibilità di sigillare i propri
interventi con la qualifica delle dichiarazioni definitive, sulle quali
l'assenso dei fedeli è dovuto per fede. Questa attribuzione è scattata ad
esempio a proposito dell'Istruzione dedicata a riservare l'ordinazione
sacerdotale esclusivamente agli uomini, e a proposito del "Giuramento di
fedeltà" imposto dalla Congregazione per la Dottrina nel 1989 a tutti i
candidati all'ordinazione e ad un ufficio ecclesiastico. Secondo il
commento del gesuita Ladislas Orsy, "probabilmente per la prima volta
nella storia una Professione di fede ufficiale comprende articoli che non
sono di fede. Pare che il Giuramento di fedeltà sospenda la coscienza:
esso include l'impegno ad accettare dichiarazioni e decisioni future, e
quindi sconosciute di un superiore ecclesiastico, una imposizione senza
precedenti, a mia conoscenza" (7). Un'altra misura preconizzata
riguarda un più incisivo intervento di riforma della curia romana.
A questa esigenza ha dato voce in modo eloquente monsignor Quinn nel suo
discorso di Oxford, e poi nel libro The Reform of the Papacy, the
costly call to Christian Unity (Herder and Herder, New York 1999).
Nessun dubbio che, durante questa lunga stagione polacca, è stata
l'unificazione centralista della cattolicità a trovarsi privilegiata di
fatto come la risposta più adeguata di Roma alle sfide del mondo
globalizzato. Non è stato solo l'ex arcivescovo di San Francisco a
lanciare l'allarme sui rischi a lungo termine del rafforzamento del potere
della curia romana, delle sue supplenze vicariali indebite specialmente
nelle penose circostanze dell'indebolimento fisico del pontefice,
dell'espansione senza precedenti del sistema politico-diplomatico della
Santa Sede e della sostanziale reinterpretazione in senso riduttivo delle
autonomie delle Conferenze episcopali nazionali. Le proposte finora
avanzate sono varie. La preoccupazione condivisa è che lo staff che
dovrebbe aiutare il papa nel suo servizio alle Chiese non dovrebbe mai
invadere la legittima libertà dei vescovi locali e delle persone. Alcuni
hanno proposto l'istituzione di un preciso limite di durata nelle cariche
centrali e la formazione di un "consiglio della corona" formato da
rappresentanti eletti dal Sinodo stesso e dai Patriarchi orientali. Il
progetto potrebbe essere integrato da Sinodi continentali come quelli
celebrati in vista del Grande Giubileo del Duemila, ma trasformati in
organismi permanenti, ai quali il papa potrebbe far defluire almeno una
quota del suo potere universale di giurisdizione. Un altro aspetto
della riforma del papato riguarda l'apparato politico diplomatico
di cui è dotato. Molti si chiedono se anche questa forma di sovranità,
sovrapposta al primato spirituale, possa essere ricondotta alle tradizioni
di un governo ecclesiale accettabile da tutte le Chiese cristiane, non per
abrogare la sua funzione di scudo dei deboli della terra dalle arroganze
dei più forti, ma al contrario per rafforzarne la natura critica e
alternativa, purificandola dai compromessi con le forme politiche mondane
che si pretende di sottoporre a giudizio con voce profetica.
(segue).
(1) "Il Regno-attualità",10, 2001, p. 302. (2) "Se
vedessi Reagan gli direi che non sono d'accordo", intervista di Giancarlo
Zizola a Karl Rahner s.j., "Panorama Mese" 25 settembre 1984, p.
55. (3) Su questi aspetti, mi permetterei di indirizzare il lettore al
mio libro "La riforma del papato", Editori Riuniti, Roma 1998. (4)
Gabriel Matagrin, Un pape pour toute l'Église, La Croix, 13 giugno 2001,
p. 17. (5) Intervista citata. (6) Annuario Statistico della Chiesa
1998, Tipografia Poliglotta Vaticana, 2000. (7) Ladislas Orsy, sj,
L'età ecumenica del papato, "Il Regno-attualità" 10, 2001, p.
301.
RIFORMA DEL
PAPATO/2 Le ambiguità
della transizione di
Giancarlo Zizola (da "Rocca",1 aprile 2002, n. 7)
Al tramonto della religio
societatis, molte cose fanno ritenere che la questione della funzione
critica della Chiesa di fronte ai poteri dominanti nella società globali
le costituisca una delle opzioni strategiche più difficili del papato
sulla soglia dell'avvenire. Dopo le tensioni fra Giovanni Paolo II e i
dirigenti degli Stati Uniti d'America sulle guerre del Golfo e del
Kossovo, sul "capitalismo selvaggio", sul modello demografico, sulla
concezione della famiglia, sulla difesa della vita, sull'aborto e sulla
pena di morte, non si può considerare esagerato parlare di una nuova lotta
tra Papa e Imperatore, analoga a quelle delle Investiture. Con la
differenza che allora il conflitto riguardava i diritti della Chiesa,
mentre oggi riguarda direttamente i diritti dell'uomo, anzi la sua stessa
libertà dalle manipolazioni. Dunque, già con Wojtyla, il papato ha
adottato una fase di trasformazione, di cui la rottura delle vecchie Sante
Alleanze, già autorizzata dal Concilio Vaticano II nella Costituzione
Gaudium et Spes, costituisce l'aspetto più sensibile dal punto di
vista delle sue relazioni con la società. Per chiunque osservi in modo
spassionato la scena mondiale della globalizzazione, il papato appare come
un'istituzione universale, dotata di autorità morale al servizio della
edificazione di un ethos della società globale e dell'evoluzione
spirituale dell'umanità intera. Questo ruolo dispone in tutto il mondo di
comunità di fede, di una rete capillare di istituzioni educative,
scolastiche, sanitarie e caritative, di associazioni di ogni genere. Il
Concilio ha escluso confusioni della Chiesa con il potere politico, ma non
ha accettato per questo di comprimere in una sfera solo spirituale la
missione della Chiesa, incitandola piuttosto a predicare con vera libertà
la fede, insegnare la sua dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la
sua missione tra gli uomini "e dare il suo giudizio morale anche
su cose che riguardano l'ordine politico, quando ciò sia richiesto dai
diritti fondamentali della persona o dalla salvezza delle anime" (n.
76). Una volta riconosciuta la legittimità del pluralismo delle scelte
politiche dei cattolici, rimangono tuttavia delle frontiere etiche-sociali
sulle quali la Chiesa può spingere la propria funzione critica pubblica
fino al martirio, o può venire a patti col nuovo Impero globale,
rassegnandosi a limitare la propria funzione dentro una nicchia privata,
nel quadro di un concordato fra Dio e Mammona. Non v'è dubbio che
l'eredità di papa Wojtyla riproponga la questione del ruolo pubblico e
critico della fede nella società secolarizzata, con una nuova dinamica di
evangelizzazione e mediante una ferma testimonianza dei
militanti. Tuttavia resta da definire il problema dell'orientamento di
queste energie alla difesa del primato della coscienza di fronte al campo
degli interessi del dominio globale e alla nuova stratificazione di classe
prodotta dal processo di globalizzazione.
Uno statuto
carismatico Un ruolo principale nei lavori in corso nel
cantiere del nuovo modello di servizio petrino è riconosciuto a Giovanni
Paolo Il. E non solo perché egli ne ha autorizzato formalmente la ricerca,
con la Ut unum sint, ma anche perché la sua interpretazione
personale della funzione papale ha già avviato di fatto una modificazione
istituzionale della figura papale precedente, che si suppone possa avere
dei riflessi sulle pratiche dei successori. Anzitutto, possiamo
osservare nello stile di Wojtyla una prevalente personalizzazione dello
statuto papale in senso carismatico, con la conseguenza (per quanto non
sempre verificabile nell'immediato) di riaprire un margine più o meno
ampio di tensione nei confronti delle logiche del sistema burocratico e di
liberare virtualmente delle tendenze personali del soggetto papale, fino
al rischio del corto circuito al vertice del sistema. I viaggi pontifici
intesi come funzioni costitutive del primato petrino agiscono
evidentemente in questa direzione: non è il trono a viaggiare, ma la
persona, anche se nella funzione di "confermare i fratelli nella fede"
organica al suo ministero. Sono state notate, talora esagerando, alcune
contraddizioni tra gli enunciati talora profetici del papa e la condotta
degli organi della curia. Il papa faceva dei gesti ai quali in alcuni
campi la teologia cattolica non era ancora arrivata. Essa doveva arrancare
per riuscire a legittimarli. In questo senso era fondato riconoscerli come
"gesti profetici", in tutta la pertinenza della parola: gesti che
precedono lo stato della cultura prevalente in un corpo sociale e le
imprimono una dinamica liberatoria, parlando "al posto" di una coscienza
ancora inedita e sepolta. L'Incontro interreligioso di Assisi era uno di
questi gesti, segnati dall'appartenenza al genere profetico. Oppure, la
celebrazione dei "mea culpa" in San Pietro e la sosta del papa al Muro del
Pianto. O la sua visita a piedi scalzi nella Moschea di Damasco. La
teologia, come organo subalterno del sistema, se ne trovava spiazzata,
come è apparso sulla questione della salvezza universale dei non
cristiani. Secondo elemento strutturale del primato pontificio,
introdotto da Giovanni Paolo II: il ricorso sistematico ai media non solo
per assicurare visibilità pubblica al messaggio nell'agorà globale, ma
anzitutto come strumento per consolidare l'indipendenza della Chiesa
rispetto ai poteri politici ed economici dominanti, anche sulle frontiere
critiche della crisi di umanità caratteristica della civiltà ad alto tasso
di occidentalizzazione. I media entravano perciò per la prima volta fra
gli strumenti del primato pontificio, essi assicuravano il nuovo "editto
di Costantino" della libertà della Chiesa e dei suoi rapporti con la
modernità (1).
Le masse popolari Infine, l'appello
alle masse popolari, il riferimento alle convocazioni di grandi folle non
solo in piazza san Pietro, ma anche negli stadi e nelle piazze delle città
visitate in tutti i continenti: mentre i richiami delle ideologie
messianiche dell'Ottocento sfumavano i loro incanti e si frantumavano come
appelli politicamente suggestivi per gli strati sociali meno favoriti, si
constatava che la Chiesa di Giovanni Paolo II dava prova di una crescente
capacità di attrazione, al di là di ogni frontiera nazionale, religiosa o
di classe sociale, mobilitando intorno alla figura del papa, tanto più se
pellegrino, un vasto interesse popolare, anche dei giovani. Si ripeteva
cioè, su scala incomparabilmente più massiva, il fenomeno che si era
prodotto all'indomani dello sfacelo del potere temporale del papato del
1870: la falla spalancata da Porta Pia sul Trono geopolitico di Pio IX,
privato del dominio sugli Stati della Chiesa, veniva riempita da una
mobilitazione impetuosa e larghissima dei cattolici europei, che
inondavano di offerte anche di piccola entità il Vaticano per permettergli
di fronteggiare, tra l'altro, la crisi finanziaria immediata. Forte di
questo precedente storico, Giovanni Paolo 11 moltiplicava le occasioni, -
i viaggi, le canonizzazioni intensive, le Giornate mondiali della
Gioventù, eccetera - per ricostituire quelle basi popolari della funzione
petrina le quali potevano garantirle, come egli augurava, non solo di
sopravvivere all'assedio della secolarizzazione moderna, ma anche di
ritrovare un compenso, sul piano del consenso morale universale,
all'ulteriore salasso della sua sovranità politica. Se l'operazione gli
fosse riuscita, egli avrebbe potuto usare le nuove falle del Trono per
spingere la funzione ecclesiale dell'autorità papale definitivamente fuori
dal sistema della sovranità politico-religiosa, assortita dal potere
giurisdizionale assoluto e universale e dall'apparato della diplomazia
vaticana. E avrebbe potuto sperare che questo passaggio fosse, se non
indolore per il sistema, certo foriero di vantaggi decisivi a lungo
termine per far splendere di nuova luce il servizio petrino nel mondo e
fra le Chiese cristiane.
La fase transitoria La
combinazione di questi tre elementi come qualificanti la nuova struttura
della funzione petrina nel regno ultraventennale di Giovanni Paolo II
fornisce una chiave analitica per valutare l'incidenza del suo pontificato
nella storia del papato romano in età moderna. Nello stesso tempo essa
contribuisce ad una comprensione meno inadeguata dei contraccolpi
istituzionali di questa opzione, che implica una lenta ma difficile
smottatura della figura del papa dalla forma storicamente prevalente del
Trono. In altri termini, la sua autorità viene sollecitata ad uscire
dall'involucro delle prerogative della sovranità giuridico-politica
depositate storicamente sul primato pontificio, per essere riconoscibile
come punto spirituale universalmente accettato. E il monolitismo romano,
come forma ideologica dell'unità della fede cattolica, dovrebbe essere
forzato dalla violenza delle cose ad abbandonare il campo, per far posto a
forme più accoglienti della diversità, a una pluralità di centri
ecclesiali, come quelli che operavano nei primi secoli apostolici, ad
esempio con la "pentarchia". Ad una lettura complessiva, non può
sfuggire che questo processo presenta, nella vicissitudine della
transizione, degli elementi di incoerenza, di contraddizione, di
resistenza, di involuzione, tali da suggerire e giustificare conclusioni
ambivalenti e perplessità. Il carisma personale ha potuto bene
convivere con una nuova fase di assolutismo religioso, con rischi di
idolatria e "culto della personalità" tipici delle fasi degenerative della
monarchia pontificia. In effetti, la crisi della collegialità episcopale,
l'ipervalorizzazione del primato, l'affermazione di tendenze centraliste
rispetto al ruolo delle Chiese locali e delle Conferenze episcopali
nazionali, ecco alcuni fenomeni che non sembrano deporre a favore di un
"esodo" verso nuovi sviluppi sinodali e partecipativi del Trono
papale. Quanto alla mediatizzazione intensa organizzata in modo
organico per assicurargli una visibilità nell'ordine mondano, essa non può
non implicare il rischio neocostantiniano di vincolare il papato alla
struttura preminente del nuovo potere globale di massa, secondo una
pericolosa autoconferma del proprio potere culturale nella società
secolare. E quanto al coinvolgimento delle masse popolari, anche col
ricorso ai miti della santità popolare, non si potrebbe escludere in
assoluto l'emergenza di un populismo trionfalista scarsamente
riconducibile alla natura personale della salvezza cristiana e alle
logiche della liberazione degli spiriti, anzi funzionale, meglio degli
strumenti convenzionali della politica vaticana, al recupero del potere
clericale nella Chiesa e nella società. Si avvertiva infatti un disagio,
più o meno confessato, nella Chiesa per una strategia neo-barocca che
puntava sul riempimento movimentistico di ogni spazio raggiungibile, sia
in cielo (con le numerosissime canonizzazioni), sia in terra, con la
tendenza ad occupare le autonomie del profano e a usurpare le prerogative
della ragione. Si temeva che l'appello alle masse organizzate fosse usato
per coprire di vernici trionfali, ma illusorie, la crisi della
Chiesa. Tuttavia, per quanto forte sia l'ambiguità oggettiva delle
innovazioni wojtyliane nell'esercizio della funzione papale, si può
registrare, nella oggettività della vicenda storica, il fatto della
sperimentazione di una forma papale non sovrapponibile in modo esaustivo a
quella contrassegnata dalle prerogative convenzionali della potenza.
Accanto all'altro fatto, che questa purgazione, che è anche una forma di
contestazione, trasmette una tale tensione alle pareti del sistema da non
essere facilmente contenuta entro un linguaggio ecclesiale condivisibile
universalmente. Si sono aperte delle crepe, delle lacerazioni, delle
dissociazioni, un processo di differenziazione e di crisi si è avviato nel
sistema pontificio, solitamente rappresentato come immobile e monolitico,
e questa volta non è un Lutero a dichiararla né i movimenti paraereticali
degli Spirituali, vecchi e nuovi, ma lo stesso pontefice romano.
(segue)
(1) Rinvio all'analisi da me sviluppata nel mio libro
La Chiesa nei media, Sei Torino, 1996.
RIFORMA DEL PAPATO/3 Il primato e il divenire della
storia di Giancarlo Zizola
(da "Rocca",15 aprile 2002, n. 8)
L'avvenire del papato è legato alla riforma del sistema
pontificio messa in cantiere, con decisione profetica, da Giovanni Paolo
II nell'enciclica Ut unum sint del 1995. Il papa assicurava di
voler "ascoltare la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di
esercizio del primato che, non rinunciando in nessun modo all'essenziale
della sua missione, si apra a una situazione nuova". In questo
passaggio, un'evidenza si impone: istituzione simbolica della stabilità,
il papato può assumere delle forme storiche nuove, dei mutamenti e degli
adattamenti, non meno rilevanti di quelli già registrati nei venti secoli
della sua storia. Si può dunque parlare in modo pertinente di un
"avvenire" del papato, più precisamente di un suo divenire. Il primato non
ha seguito sempre lo stesso paradigma e si è forgiato in modo mutevole
secondo le variabili storiche. Nel primo millennio l'esercizio del
ministero petrino è stato del tutto differente da come è stato concepito e
vissuto nel secondo millennio. Non è da escludere che nel terzo millennio
si trovi di nuovo una forma di esercizio diverso. È il papa a incoraggiare
il progetto. È importante accogliere l'osservazione del teologo Hermann
Pottmeyer circa l'influenza dello sviluppo storico e politico nella
concezione e nella pratica del primato pontificio. Esso ha vissuto secondo
due paradigmi molto differenti, corrispondenti a ciascuno dei due
millenni: anzitutto, la Chiesa si comprendeva come la testimone della
tradizione apostolica, poi, è prevalsa una teologia politica che
considerava il primato come un primato monarchico, che includeva la
plenitudo potestatis del papa nel senso giuridico di una sovranità
universale. Nel secondo millennio le tappe dell'espansione del potere
pontificio hanno portato ai dogmi del Vaticano I, sotto la pressione di
una corrente ultramontana che tendeva a imporre una concezione assolutista
del primato di giurisdizione, ad imitazione di una sovranità temporale. Le
forme istituzionali che si sono incollate al trono pontificio restano
debitrici, almeno in parte, dell'assolutismo delle ideologie della
Restaurazione europea dell'Ottocento. Successivamente la Chiesa ha vissuto
a lungo su una interpretazione massimalista di questi dogmi, fino a
giustificare un centralismo insieme giuridico e dottrinale e
un'interpretazione infallibilista dell'infallibilità. Questa mentalità
massimalista ha influenzato anche il Concilio Vaticano II, le cui aperture
alla collegialità episcopale sono state evirate da precauzioni di ogni
genere, impedendo una riconciliazione tra l'esercizio del primato e
l'ecclesiologia di comunione, e dunque un cambiamento operativo della
figura concreta del governo della Chiesa, rimasto ancora troppo radicato
nel centralismo, per servire l'unità cattolica. Considerando questi
sviluppi, è comprensibile che non si possa immaginare un avvenire del
papato che prescinda da alcune condizioni necessarie. In questa ricerca
noi ne prenderemo in considerazione alcune di quelle che ci sembrano più
sensibili (ma ce ne sono anche altre).
Un papato
ecumenico La prima condizione perché il papato si rinnovi è
quella ecumenica. Dal momento che è il primato pontificio a costituire,
per i modi con cui è stato vissuto storicamente negli ultimi secoli, un
inciampo drammatico all'unità dei cristiani, la decisione del papa di
autorizzare l'esame di nuove forme del suo primato ha rappresentato uno
degli impulsi innovatori più coraggiosi al processo ecumenico. Per i 342
milioni di cristiani di denominazione protestante e per i 79 milioni 650
mila anglicani, non meno che per le Chiese ortodosse, la difficoltà
principale riguarda precisamente un'intesa sulla funzione primaziale del
papa per tutte le Chiese che si rifanno al messaggio e alla tradizione
cristiana. Grazie agli sforzi dispiegati dalle grandi personalità
ecumeniche di papi come Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, il
movimento di convergenza spirituale verso un centro di unità e di
comunione ha assunto un'accelerazione notevole negli ultimi decenni del XX
secolo. Questo movimento non si lascia però confondere, né per le Chiese
ortodosse né per quelle protestanti, con il modello del ritorno all'ovile
di Roma. È stato chiarito abbondantemente che una subordinazione delle
Chiese ortodosse e un ritorno delle Chiese evangeliche sotto il primato
papale del vescovo romano non se li può aspettare nessuno e che la
prospettiva dell'unificazione per assorbimento non è nemmeno
auspicabile. E del resto, l'enciclica Ut unum sint riconosce che
non esiste unità ecumenica al prezzo della rinuncia a se stessi e
dell'abbandono delle proprie tradizioni. Roma non pone più tale condizione
e anzi dichiara oggi che l'unità fra i cristiani non è concepibile che nel
rispetto delle differenze delle loro tradizioni e delle loro
autonomie.
Il "servizio" di unità Nello stesso
tempo si può constatare che nel movimento ecumenico e nella cristianità
mondiale aumenta la richiesta di una comunione che superi le divisioni.
L'esigenza di un "servizio di unità" che costituisca un punto di
convergenza comune e agisca da propulsore della fede e della carità verso
il mondo è apparsa improrogabile da quando i cristiani sono divenuti
coscienti del fatto di essere una minoranza nella popolazione mondiale e
di diventarlo sempre di più. Essi cominciano a rendersi conto che non
possono permettersi di continuare le vecchie liti di famiglia e che solo
ritrovando e rivelando apertamente una reale comunione sull'essenziale la
loro fede potrà tornare ad essere credibile e convincente agli occhi dei
non cristiani e degli atei. Per rispondere a questa esigenza l'apertura
di una fase per così dire rifondativa dell'ufficio papale in dialogo con
le altre Chiese cristiane è un passo importante, che forse impegnerà
l'intero secolo appena cominciato. Ciò ha avviato un processo di lungo
periodo nel quale sono poste in stato di riforma alcune strutture e forme
dell'istituzione papale particolarmente impervie dal punto di vista della
compatibilità con il modello petrino praticato nei primi secoli e con
l'accettabilità ecumenica. Bisogna ammettere che il richiamo di
Giovanni Paolo II non ha ottenuto una ricezione corale e indiscussa. Il
dialogo sul primato del papa si è rivelato più balbettante proprio tra
Chiese che si definiscono legittimamente "Chiese sorelle", quelle
d'Oriente. La sola iniziativa comune che echeggiasse l'enciclica rimase a
lungo il rapporto della commissione internazionale anglicano-cattolica
(Arcic II), pubblicato il 3 settembre 1998. Intitolato "Il dono
dell'autorità" questo documento, per quanto incoativo, è stato considerato
un passo importante tra le due Chiese per esaminare il concetto e
l'esercizio di un'autorità che includa un certo "primato universale" del
vescovo di Roma. Si tratta di discernere più attentamente la relatività
delle formulazioni dottrinali del primato e dell'infallibilità pontifici
rispetto ai condizionamenti politici e culturali di una data epoca e di un
certo ambiente, in modo da far risplendere in tutto il suo valore il
fondamento biblico e spirituale, più che politico e giuridico,
dell'autorità del papa in un contesto di Chiese riconciliate. È
interessante notare, nel processo di disgelo, i segni di una scomposizione
dei blocchi antagonisti, di uno smottamento, di un principio di
valutazione positiva delle ragioni degli altri: "Roma non dovrebbe
rinunciare alla sua pretesa primaziale per favorire l'unità della Chiesa"
scriveva un teologo protestante, Jean-Jacques von Allmen: "Il papato non
dovrebbe suicidarsi. Se esso prende sul serio la sua pretesa primaziale e
se questa questione è di per sé necessaria, Roma deve difendersi come si
difende una vocazione" (2). Tuttavia lo stesso Giovanni Paolo II era
convinto che la migliore difesa del primato era quella di procedere alla
sua riforma. Essa era tanto più urgente, non solo per la comunione delle
Chiese cristiane, ma anche perché il primato si collocava nella situazione
concreta del mondo come un servizio reso all'unità della famiglia umana e
alla salvaguardia dei più poveri, al punto che il papa nella vita
internazionale era considerato un portavoce della coscienza umana allo
stato puro. "Ciò che io auspico con gli Ortodossi è la comunione, non è
la giurisdizione" disse Giovanni Paolo II al teologo laico ortodosso
Olivier Clément, spiegandogli il suo progetto di una autorità primaziale
"a molte velocità" che rispetterebbe la piena libertà interiore delle
Chiese orientali, quale esisteva nel primo millennio.
Una
evoluzione dogmatica L'avvenire del papato domanda una seconda
condizione: uno sforzo nuovo per la ricomprensione della dogmatica
formulata dal Concilio Vaticano I nel 1870. Una discussione si è
avviata grazie alla iniziativa del papa sia all'interno della Chiesa
cattolica romana che fra le Chiese cristiane sul modello del ministero
petrino compatibile con le esigenze dogmatiche, da un lato, e con le
convergenze ecumeniche dall'altro. È riconosciuto infatti che la proposta
del papa suggerisce una distinzione fondamentale tra "l'essenziale" del
servizio del successore di Pietro e le modalità storiche del
primato. L'essenza del primato, che si fonda sui dati del Nuovo
Testamento, rappresenta la parte teologica, che non si può toccare, ma che
può tuttavia conoscere nuovi sviluppi interpretativi. Fra i teologi che si
sono consacrati a questa ricerca, è considerevole Hermann J. Pottmeyer. La
sua opera Le rôle de la papauté au troisième millénaire (Cerf,
2001) intende dimostrare che i dogmi del primato e dell'infallibilità
pontificia non costituiscono degli ostacoli dottrinali a un esercizio del
papato che rinunci deliberatamente al centralismo romano e si iscriva nel
solco della ecclesiologia di comunione adottata dal Vaticano II. Una
evoluzione del dogma anche in questo campo potrebbe essere applicata con
maggiore vantaggio di quanto potrebbe la semplice distinzione tra il
fondamento dogmatico, che rinvia ad una istituzione divina, e le modalità
dell'esercizio del primato, modalità che sarebbero le sole suscettibili di
errori, di disfunzioni e di deviazioni. Sarebbe invece più feconda,
secondo altri studiosi, la via che mira ad una ridefinizione contemporanea
sia dei fondamenti dogmatici che delle funzioni di un primato della Chiesa
di Roma. Alcuni teologi e storici intervenuti in questa discussione hanno
dichiarato di essere convinti che un giorno una presa di coscienza
teologica della relatività delle formulazioni dottrinali di una certa
epoca e di un ambiente culturale dato potrebbe svilupparsi, poi elevarsi
al livello di una coscienza dogmatica, elaborata da processi
interecclesiali di ricezione e di riconoscimento. Non si può dimenticare
che il primato è concretamente inserito nella storia umana, che è sempre
storia di potere, e ne partecipa le dinamiche, sia pure in modo unico e
originale. Si deve ammettere, ha sottolineato il gesuita padre Klaus
Schatz, che la formazione di questo "centro di potere" intra-ecclesiale è
avvenuta spesso, in un modo teologicamente molto discutibile, in analogia
con il governo statale, anzi come vera e propria copia dello stato. Anche
nell'antichità, la categoria della Roma caput mundi, che dà al
mondo le leggi, ripropone l'idea romana di Pietro tramandata dalla
tradizione. La legislazione e il governo sostituiscono il concetto di
testimonianza. Questa figura del primato, concreta, centralizzata e
sovraccarica di pretese giuridiche e di ambizioni politiche è veramente la
forma inevitabile, anzi il prezzo necessario da pagare per salvaguardare e
riprodurre la missione spirituale della Chiesa? E che dire quando
l'imitatio imperii finisce per rivestire il ministero petrino con
la corazza assolutista del Vaticano I, presa a prestito dalle ideologie
politiche della Restaurazione europea? (3). Il primato papale, ha
osservato il Cardinale Roger Etchegaray, è stato definito dal Vaticano I
come un picco un po' solitario, con un potere supremo e plenario in tutta
la Chiesa. Tuttavia la sua opinione è che "non si può comprendere quel
Concilio senza il Vaticano II che, pur non togliendogli nulla, lo pone in
un massiccio armonioso in cui primato e collegialità si accordano e si
spalleggiano il meglio possibile. Ben più, il Vaticano I, presentato
troppo spesso come la caricatura di un papa monarca assoluto della Chiesa,
chiede espressamente di interpretare il primato di giurisdizione secondo i
concili ecumenici, soprattutto quelli in cui l'Oriente si incontra con
l'Occidente nell'unione della fede e della carità". Lo stesso cardinale ha
inserito nella discussione una avvertenza che attende di essere ancora
meglio approfondita nel dibattito teologico e storiografico: "A dire il
vero, l'accettazione del primato del vescovo di Roma sembra non essere
stata perfetta persino ai tempi della Chiesa indivisa. Il primato romano
non era legittimato allo stesso modo in Oriente e in Occidente, senza
tuttavia che ciò abbia comportato alcuna frattura della comunione nel
corso del primo millennio: l'unità della Chiesa era vissuta più che
pensata" (4). (segue)
(1) Di Giancarlo Zizola è uscito
recentemente, per i tipi del Sole 24 Ore, il volume L'ultimo trono,
analisi del pontificato di Giovanni Paolo II e l'avvenire della
Chiesa. La pubblicazione coincide con il quarantennale dell'attività
professionale del giornalista, accreditato presso la Sala Stampa della
Santa Sede dal 1961, e attualmente vaticanista de "Il Sole 24 Ore". (2)
J.J. von Allmen, Il primato della Chiesa di Pietro e di Paolo,
Cerf, Paris 1977, p. 98. (3) Cfr. Klaus Schatzj, Il primato del
papa. La sua storia dalle origini ai nostri giorni, Queriniana,
Brescia 1996, e Primato, ministero di comunione, "Il
Regno-attualità" 8, 1997, pp. 238-245. Si veda anche Pierre Vallin sj,
Le Saint Siège dans les relations internationales, Etudes 3853,
settembre 1996, p. 222. (4) Roger card. Etchegaray, Unità dei
cristiani e primato nel servizio della carità, Conferenza tenuta a
Genova il 12 novembre 1999, per l'Incontro delle Religioni per la pace
promosso dalla Comunità di S. Egidio.
LA RIFORMA DEL PAPATO/4 L'ultimo trono di
Giancarlo Zizola (da "Rocca", 1 maggio 2002, n. 9)
La riforma del papato, messa in cantiere da
Giovanni Paolo II , richiede non solo uno sforzo di convergenza ecumenica
sull'essenziale del ministero papale, e non solo una reinterpretazione dei
dogmi definiti nel 1870 dal Concilio Vaticano I (di queste condizioni
abbiamo già trattato sulla seconda puntata). Forse la principale
condizione perché questa riforma sia efficace è il rinnovamento della
Chiesa in senso spirituale, dunque il più profondo possibile. Lo stesso
papa Wojtyla ha indicato, specialmente nella lettera Novo millennio
ineunte, pubblicata all'inizio del 2001, che la condizione decisiva
per l'avvenire del papato è che la tensione escatologica della Chiesa
intera riaccenda al suo interno il senso della promessa (che la
costituisce) del Regno di Dio e dunque la consapevolezza della propria
inadeguatezza storica, dello scarto delle sue operazioni istituzionali.
Non è un caso che la proposta di aprire il cantiere della riforma del
papato sia stata lanciata alla fine del Novecento, un secolo
caratterizzato dal processo di crisi della religione politica e più
specificamente del potere temporale della Chiesa romana nelle sue varie
forme. La riforma delle strutture della monarchia pontificia, per essere
incisiva, non può operare in modo superficiale con interventi di sola
modernizzazione istituzionale, ma implica un colpo di sonda negli strati
più profondi della tradizione della Chiesa, nel senso di un
ressourcement escatologico.
Una coscienza critica del
tempo Tornano singolarmente attuali le intuizioni elaborate da
Gioachino da Fiore(1130-1202) riguardo alla solidarietà organica tra la
riforma spirituale della Chiesa e la riforma istituzionale del papato.
Colui che Dante chiamava «il calabrese di spirito profetico dotato»
prevedeva, nel nuovo ordine dell'età dello Spirito, una nuova esistenza
spirituale, prodotta da una coscienza critica del tempo. Egli prefigurava
la trasformazione di Pietro - simbolo della Chiesa dell'età del Figlio -
nella Chiesa di Giovanni, più libera da costrizioni materiali, e meglio
idonea alla confessione della Chiesa spirituale. Nell'opera De vita
Sancti Benedicti, Gioachino da Fiore paragonava il papato al vecchio
Simeone, in atto di accogliere al Tempio di Gerusalemme il Bambino Gesù.
Egli non auspicava un'altra Chiesa, ma la trasformazione di questa Chiesa,
mediante il suo pentimento, la sua riforma, non solo nel cuore delle
persone, ma anche nelle istituzioni. Questa riforma istituzionale doveva
fondarsi sulla spoliazione della regalità politica e temporalista e sulla
riscoperta del «servo sofferente di Yahvé», sulla regalità escatologica di
un regno «che non è di questo mondo», e anzi si costituisce nella propria
inutilità temporale. Uno sguardo alla storia della Chiesa conferma che
le fasi di riforma del papato sono coincise con processi di
fragilizzazione politica della Chiesa e di simultanei rafforzamenti
spirituali. Ciò porterebbe a confermare che solo nel confronto con
l'evento originario del cristianesimo e cioè con l'amore del Cristo in
croce, una riforma può essere concretamente giustificata nella Chiesa. Non
a caso la critica al centralismo giuridico della Chiesa e alle vertiginose
pretese temporaliste del papato è stata opera soprattutto di donne e di
uomini del chiostro, da Bernardo di Chiaravalle a Caterina da Siena a Pier
Damiani. Spinti dal desiderio di rendere più vitale e visibile la
missione spirituale della Chiesa nella loro epoca, essi non esitavano a
invitarla ad aderire alla verità tutta intera del Cristo, di cui la Chiesa
è mera funzione, e perciò a denunciare la cupidigia di potere e
l'immobilismo della curia romana. Essi raccomandavano ai papi di «mettere
la scure alla radice» con profonde riforme strutturali. Quei santi
arrivavano a contestare ai conservatori, per quanto proclamassero di
essere dei veri spirituali, di nuocere con la loro opposizione alle
riforme istituzionali alla spiritualità della Chiesa, un rimprovero che
non ha perduto col tempo il suo valore. Alla svolta del nuovo
Millennio, è stato il papa stesso a far proprie le esigenze di riforma
spirituale della Chiesa. Egli ha indicato nella spiritualità di comunione
la sorgente delle riforme che si impongono nel sistema ecclesiastico. Il
documento ha proposto una interpretazione di stile profetico della crisi
delle sicurezze della cristianità costituita, cogliendo nella riduzione
della Chiesa a «piccolo resto» una condizione favorevole per riscoprire il
senso della sua vocazione di «lievito nella pasta», come minoranza di
convinzione, presente nella società per il valore della propria
testimonianza alla fede e alla carità del Cristo del Vangelo.
Le
lacrime di Pietro Durante il Giubileo del Duemila, una tappa
decisiva del processo di riforma del papato è stata la celebrazione
penitenziale del 12 marzo nella basilica vaticana, sotto la presidenza del
papa e con l'intervento dei principali cardinali della curia. Nei mea
culpa per gli errori storici della Chiesa, il principio di
autoumiliazione ecclesiale si sollevava dalle viscere del tempio per
rettificare e convertire il peccato dell'integralismo della Chiesa.
Mediante questi atti, e maturata nella Chiesa visibile la convinzione che
la penitenza e l'umiliazione costituiscono una decisiva condizione per il
papato dell'avvenire. In questo processo di conversione il papa stesso
cercava di radicare la trasformazione del sistema papale, venendo incontro
all'attesa del mondo ortodosso per le «lacrime di Pietro». Il paradigma
della riforma della Chiesa era indicato in quell'icona del Cristo in croce
che il papa osava abbracciare e guardare negli occhi, sull'altare della
Confessione, nell'ora decisiva, anzi effettivamente cruciale nella storia
secolare della Chiesa romana della sua propria confessione di colpa. E di
quel gesto così semplice, come è semplice ogni cosa geniale, un gesto che
era allo stesso tempo una prova di mitezza disposta al perdono e un colpo,
un urto, uno scuotimento di fondo, i pilastri di quella basilica
sembravano ancora vibrare, il piedistallo umano del trono tremare. Non
era solo per questo che il Trono subiva una sorta di raggrinzimento
fisico, un movimento eguale e contrario di irrigidimento e chiusura a
difesa, come se l'antico ordine del mondo avesse subìto una definitiva
contestazione. Lo spirito dello stato d'assedio rendeva nervosa la casta
degli Intransigenti, man mano che il Trono sembrava loro lentamente
abbandonato dal Re, dalla sua autodeposizione. Pietro rimaneva Pietro, ma
il suo Trono subiva la detronizzazione, per deliberazione dello stesso
sovrano. La corte subiva lo scacco e reagiva. Vi era il Pietro delle
povere ossa dimenticate, mischiate alle ossa dei comuni mortali nel
cimitero fuori mano del Vaticano al tempo in cui dalle sue caverne
partivano i Vaticinii. E vi era il Pietro vertiginoso e traditore del
baldacchino trionfale sull'altare più contraddittorio del mondo. Quale
Pietro sarebbe rimasto al sistema quando Pietro se ne fosse partito in
lacrime, dopo aver rinnegato la terza volta il suo Signore? Quale Pietro,
non prima, ma dopo il nuovo Canto del Gallo? L’onda d'urto si
allungava, si propagava. E non era la sola. Il sistema si sporgeva
allibito dalle finestre dei Sacri Palazzi, oltre i tendaggi ocra delle
sublimi vetrate delle Logge a scrutare un mondo che diventava complesso,
più mondi che si avvicinavano venendo da lontano e coabitavano, più
culture che si incrociavano, più lingue che si sovrapponevano, più forme
del Divino che per la prima volta si guardavano negli occhi e capivano che
le foglie sono mille, i rami cento, ma l'albero è come la verità, cioè
uno. Dalle Logge ove per secoli la Verità era quella che là aveva il
suo domicilio, e solo quella, questo mondo dava le vertigini. E dava
fastidio. E incuteva terrore. Un'ansia di semplificazione tendeva a tutto
appiattire sull'istanza suprema dell'autorità, concentrando sulla figura
papale la rappresentazione universale e fuori discussione del potere
spirituale. Ma la figura papale si sottraeva a questa cattura. Il papa
emigrava verso Pietro.
La dinamiche del passaggio Il
passaggio da una forma all'altra del ministero del vescovo di Roma si è
rinnovato ripetutamente nel corso dei secoli. È attraverso queste
trasformazioni che lo Spirito non ha cessato di aprirsi un varco nel
sistema pontificio. Probabilmente, più che in altre epoche, la Chiesa
cattolica è alle soglie di un'èra nuova nella quale essa non potrà più
identificarsi con un potere politico né con una cultura per quanto
prestigiosa come quella europea. Non è assurdo immaginare che la sua
attrazione verso il Sud del mondo sarà accelerata dal fatto che il 74% dei
suoi fedeli abitano nell'America Latina, in Africa e in Asia. Se si
osservano le evoluzioni pratiche della forma papale lungo il Novecento, si
potrebbe concludere che i cambiamenti rispetto allo statuto fissato dai
dogmi del Concilio Vaticano I sono stati più incisivi e rilevanti di
quanto siano state le differenze tra la Lumen Gentium del Concilio
Vaticano II (1965) e la costituzione Pastor Aeternus del
Vaticano I (1870). È stupefacente che questi cambiamenti nel sistema
istituzionale più antico e più stabile della storia non ne abbiano
intaccato l'identità, ma anzi lo abbiano aiutato a manifestare le sue
risorse più autentiche. Soprattutto con i papi del Concilio Vaticano II ,
Giovanni XXIII e Paolo VI, si è potuta seguire questa crescente
concomitanza dell'identità e della riforma, dell'approfondimento
spirituale, ecumenico e carismatico della funzione e simultaneamente della
sua permanenza. Questa dinamica è venuta intensificandosi
nell'interpretazione data all'ufficio papale da Giovanni Paolo II . E la
sorte di fragilità che gli è toccata nella vecchiaia si è offerta ad uno
sguardo di prospettiva come la metafora dolorosa e drammatica dell'avvento
dell'ora in cui la crisalide assolutista che ha dato forma all'istituzione
papale è pronta a cadere, per liberare una forma ancora inedita di
autorità cristiana, nella quale si risvegli e sia meglio leggibile
l'impronta evangelica delle origini, ma anche il risultato delle
riflessioni ecclesiologiche sulla dimensione comunionale e collegiale
della Chiesa.
I rischi del papa solo L’esperienza è stata
fatta che un papa solo al vertice del sistema finisce prigioniero del
sistema stesso e che il suo carisma per quanto singolare rischia di
esporsi alle manipolazioni di gruppi interessati, nuocendo non di rado al
suo stesso disegno. Questi dati possono apparire brutali, ma non essendo
confutabili hanno suggerito a eminenti personalità della Chiesa di
raccomandare un rinnovamento istituzionale che possa realizzare un
migliore adattamento della struttura giuridica del papato alle dinamiche
della vita profonda della Chiesa e della sua comunione. È del tutto
evidente che i processi di partecipazione e di collegialità, attivi nella
Chiesa, insieme allo sviluppo del dialogo ecumenico sono destinati a
liquidare le ultime scorie della sovranità assoluta di tipo giuridico e
politico del trono pontificio. Pietro rimane Pietro, ma il suo trono
cambia, e forse scompare: monarchia non più assoluta ma costituzionale,
assistita da un «consiglio della corona» e coadiuvata dal collegio
episcopale e dai suoi Sinodi continentali e generali, il papato non si
farà forse nemmeno placare dalle proposte di riadattamento assimilabile ai
modelli politici correnti. Il richiamo del modello apostolico potrebbe
incidere comunque a favore di un ruolo più modesto, più fraterno, più
congiunto al ministero pastorale presso la comunità cristiana di Roma, che
è la Chiesa di Pietro,dunque anche sua. Sembra inverosimile, sul piano
della natura, e improponibile sul piano della verità istituzionale che una
Chiesa di oltre un miliardo di fedeli, in maggioranza fuori dell'Europa,
quasi 5.000 vescovi in funzione, e un migliaio in pensione, migliaia di
preti, religiosi, suore, diaconi, catechisti, teologi e 175 ambasciatori
accreditati, un sistema educativo, scolastico, sanitario, missionario, una
rete di nunzi e un'organizzazione caritativa distesa sull'intero pianeta,
possa essere guidata unicamente da un sovrano con poteri personali e
assoluti indelegabili secondo lo statuto pontificio consacrato nel 1870,
allorché la Chiesa romana contava 250 milioni di fedeli, per la stragrande
maggioranza dislocati in Europa, poco più di 700 vescovi, 4 ambasciatori
degli Stati «cattolici» europei, e formava un sistema connotato
dall'alleanza con i regimi assolutisti europei. La complessità e
l'espansione universale della Chiesa sembrano esigere ai nostri giorni che
il carisma personale del ministero di Pietro possa fare appello non solo
all'assistenza della Grazia, ma anche agli adattamenti sistemici che i
tempi esigono, le necessità delle comunità cristiane impongono, le
deliberazioni del Concilio Vaticano II autorizzano. In questa
prospettiva il pontificato di Giovanni Paolo II si lascia interpretare
come la fase terminale dell'epopea della monarchia assoluta pontificia,
nella quale è possibile discernere le luci aurorali del passaggio ad un
assetto assimilabile al modello di una monarchia costituzionale, più
vicino all'esercizio del ministero petrino in età apostolica, e pertanto
più rispondente anche alle aspettative delle altre Chiese cristiane. La
riconciliazione tra primato e comunione è il compito che attende il papato
nel Terzo Millennio. In questo senso si può dire che l'Ultimo Trono non
è solo quello del papato di Giovanni Paolo II , ma in certo senso del
papato stesso, nella forma in cui è stato plasmato e conosciuto nel XX
secolo. Dopo, sarà altra cosa. La fine di quella forma regale potrà
allora rivelare il principio generativo di una nuova forma che già esiste
nascosta, e inedita, sotto gli strati dell'esistente e che un nuovo papa,
libero della libertà dello Spirito da ogni idolatria, e facendo appello al
coraggio della sua fede, cercherà forse di chiamare alla
Luce.
(Fine. Le precedenti puntate sono apparse nei numeri del
15 marzo, 1 aprile, 15 aprile 2002). Giancarlo
Zizola
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