Documento dei domenicani olandesi
sul problema del ministero e della celebrazione dell’Eucaristia
CHIESA E MINISTERO
Durante il capitolo provinciale dei monaci
domenicani olandesi, tenutosi a giugno 2005, è stata discussa una mozione
presentata da alcuni gruppi di domenicani olandesi, il cui testo è riportato
qui di seguito:
Chiediamo pertanto al Capitolo di istituire al più
presto un comitato o un gruppo di lavoro di esperti, che abbia come obiettivo
lo studio degli aspetti teologici della questione se la celebrazione
dell’Eucaristia dipenda esclusivamente da un ministro ordinato o se sia
possibile che la comunità ecclesiale o i pastori da essa scelti celebrino
l’Eucaristia per loro conto.
Al
Capitolo questa mozione è stata supportata al punto che ne è derivata una
risoluzione contenuta negli Atti del Capitolo, intitolata “Le parrocchie alla
luce di una nuova visione della Chiesa”
Un centro di fede e spiritualità può essere una
nuova forma di chiesa. In una assemblea così composta ci potrebbe essere anche
l’esigenza di celebrare l’Eucaristia. Questo desiderio è presente anche in
quelle assemblee in cui non è attualmente possibile celebrare a causa della
mancanza di un ministro ordinato. Quindi, richiediamo che venga istituita un
commissione o un gruppo di lavoro al più presto, che avrà il compito di
studiare gli aspetti teologici della questione se la celebrazione
dell’Eucaristia dipenda esclusivamente da un ministro ordinato o se sia
possible che la comunità ecclesiale o i pastori da essa scelti celebrino
l’Eucaristia per loro conto. Questo studio dovrebbe portare alla definizione di
un documento che indichi chiaramente una direttiva, che i domenicani olandesi
metterebbero a disposizione poi di tutta la chiesa olandese, alle parrocchie e
ai centri di fede e spiritualità, con l’obiettivo di creare un dialogo aperto fra
tutti i soggetti coinvolti. Il comitato dovrebbe inoltre definire una strategia
che faciliti tale dialogo.
Questa Commissione ha iniziato il suo lavoro
visitando numerose parrocchie, per vedere come la gente rifletta su questi temi
(eucaristia, ministero ordinato, ndt), quale realtà si trovino davanti
nella loro attività parrocchiale, e come vedano lo sviluppo della situazione
per il futuro. La Commissione non ha trovato in nessuna di queste parrocchie
un’assoluta unanimità. Hanno posto domande e sollevato dubbi ed erano incerti
su come procedere.
Tuttavia,
su alcuni temi sembrava esserci un consenso di fondo, soprattutto
sull’atteggiamento nei confronti delle concrete politiche adottate dalla
gerarchia della Chiesa in varie diocesi olandesi, che sono in generale
considerate di difficile applicazione. Molti dei fedeli provano un sincero
disagio per la presente condizione, spesso percepita come dolorosa e
scoraggiante. Apparentemente c’è il desiderio di chiarificare i veri temi in
discussione. Questo documento
rappresenta un primo tentativo per chiarirle. Il testo è stato redatto dalla
commissione istituita dai membri della provincia: André Lascaris, Jan
Nieuwenhuis, Harrie Salemans e Ad Willems. In termini chiari e comprensibili
essi hanno tentato di fare luce sui vari aspetti del problema: l’immagine della
Chiesa, i sacramenti e specialmente l’Eucaristia, il ministero e coloro che
presiedono le funzioni liturgiche.
Questo documento è stato accettato dagli amministratori della Provincia
olandese dei Domenicani e viene distribuito da loro. Non va inteso come una
presa di posizione dottrinale o come un manuale, ma come un contributo per un
dibattito rinnovato ad un livello più profondo. Vuole aiutare a trovare una via
d’uscita all’impasse attuale e a dare avvio, se possibile, a una consultazione
che possa migliore l’esperienza di fede di molti.
11 gennaio 2007, Il Consiglio Provinciale della Provincia Olandese
Domenicana
1. La situazione
Chiunque
voglia avere un quadro complessivo della situazione attuale di "Chiesa e
ministero", troverà opinioni e pratiche divergenti tra coloro che sono
stati direttamente coinvolti nell’organizzazione o supervisione di assemblee
ecclesiali dentro o fuori le parrocchie. Soprattutto, è chiaro che c’è una
differenza fondamentale tra, da una parte, l’opinione e la pratica di chi ha
un’autorità ufficiale e, dal-l’altra, la pratica quotidiana di coloro che ogni
settimana sono responsabili della celebrazione nella propria comunità
ecclesiale.
I paragrafi seguenti presentano una descrizione,
sebbene non definitiva, dello stato attuale delle cose riguardo l’esercizio
quotidiano e lo svolgimento dei doveri ministeriali.
La gerarchia ecclesiastica persegue una politica
rigida e stabilita specialmente riguardo ai presidenti delle celebrazioni
eucaristiche – a volte anche riguardo l’amministrazione di altri sacramenti -,
che prevede che solo un prete ordinato può presiedere la celebrazione
dell’Eucaristia, l’Unzione degli Infermi, nonché fare omelie. In assenza di un
ministro ordinato la celebrazione eucaristica è fuori discussione.
Non molto tempo fa questa posizione fu riportata
in un articolo sul Trouw del 25 marzo
2006 in questi termini: “Secondo la dottrina della chiesa i cosiddetti ‘Servizi
della Parola e della Comunione’ sono secondari: mentre stai seduto in chiesa
l’Eucaristia ti passa oltre. Un operatore pastorale, naturalmente, non può da
solo ‘trasformare’ pane e vino nel corpo e sangue di Cristo. Lui/lei possono
soltanto distribuire le ostie precedentemente consacrate nella celebrazione da
un prete”. Poco tempo dopo il Vescovo di Hertogenbosh, A Hurkmans, responsabile
dell’ufficio liturgico della Conferenza dei Vescovi, scrisse sulla stessa
testata: “I Servizi della Parola e della Comunione” possono avere una loro
valenza in paesi in cui la celebrazione eucaristica sia realmente impossibile.
Ma qualora questi servizi divenissero una procedura fissa e consolidata come
alternativa valida al posto dell’Eucaristia, sminuiremmo il significato
dell’Eucaristia stessa nella vita della Chiesa. Ne risulterebbe che le chiese
del domani sarebbero costruite senza la necessaria stabilità” (6 aprile 2006).
Questa posizione non sembra condivisa da una larga
fetta di ‘operatori’ sul campo. Molte parrocchie e gruppi di fedeli si stanno
confrontando con l’evidenza che oggi o nel prossimo futuro, non avranno un
ministro ordinato a disposizione e non ci sarà rimedio a questa situazione. Le
autorità della Chiesa cercano di porre rimedio alla mancanza di preti sia
importando preti stranieri, oppure attraverso un processo di
‘regionalizzazione’: accorpando le parrocchie di una stessa area, facendo in
modo che il parroco segua più realtà. Molte comunità sono a dir poco scontente
di questa situazione e cercano ogni soluzione possibile per modificare questa
politica.
Una obiezione importante da parte delle comunità a
questa politica è che in questo modo la gerarchia ecclesiastica cerca di
proteggere l’attuale forma di ministero presbiterale a scapito del diritto dei
fedeli di accedere all’Eucaristia. Secondo il punto di vista ufficiale,
utilizzare le formule eucaristiche approvate dall’istituzione non solo è più
importante della comunità dei fedeli, ma sembra essere un potere appannaggio
esclusivo dei preti ordinati.
Molte parrocchie e comunità ecclesiali contestano
questa struttura, non solo a causa delle attuali necessità, ma anche in
relazione al valore dei cambiamenti apportati dal Concilio Vaticano II in
merito all’amministrazione dell’Eucaristia. La posizione ufficiale riguardo
l’amministrazione dell’Eucaristia e
degli altri sacramenti è oggi ritenuta critica. Questo documento vuole prima di
tutto identificare la natura di questa crisi e, nei capitoli successivi,
identificare nelle Scritture e nella tradizione una base per ipotizzare possibili
soluzioni.
Per poter risolvere il dilemma fin qui descritto
molte parrocchie e comunità ecclesiali fanno esse stesse una distinzione tra
ciò che si intende come ‘celebrazione dell’Eucaristia’ e il ‘Servizio della
Parola e della Comunione’. Nella Celebrazione Eucaristica presiede un prete
ordinato; nel ‘servizio’ presiede qualcuno che non è prete. Questi non
pronuncia le parole di consacrazione ma distribuisce le particole
precedentemente consacrate. La differenza tra queste due forme di liturgia
viene annunciata all’inizio, così da permettere al fedele di scegliere se
partecipare o meno.
Perché le parrocchie scelgono il ‘servizio’?
Perché è l’unica alternativa che hanno. La situazione le costringe ad attuare
questa soluzione, anche se in cuor loro magari ne farebbero volentieri a meno.
Esse ritengono valide e genuine entrambe le forme di celebrazione. Così fanno
molti di quelli che vengono in chiesa, difficilmente consapevoli delle
differenze esistenti tra di esse. Una gran parte dei fedeli considera il
Servizio della Parola e della Comunione alla stregua di una Celebrazione
Eucaristica.
In parte perché la differenza tra ‘Celebrazione
Eucaristica’ e ‘Servizio della Parola e
della Comunione’ è scarsamente rilevante per l’esperienza dei fedeli, ma
principalmente per obiezioni in linea di principio a questa distinzione – che
sarà discussa in seguito – per cui molte comunità non usano più distinguere fra
le due. A volte si utilizzano termini tipo ‘celebrazione dell’agape’ o
‘servizio memoriale’, a volte semplicemente ‘celebrazione domenicale’ o
‘celebrazione settimanale’, lasciando aperto il tema se debba essere un
ministro ordinato a presiedere. Altri gruppi utilizzano termini tipo ‘servizio
di emergenza’ nel caso in cui un ministro ordinato non possa presiedere. Su
questo fronte l’immagine predominante è che si cerca di bilanciare le proprie
scelte al limite di ciò che è ufficialmente previsto dalla dottrina ufficiale,
a volte oltrepassando i confini, principalmente per poter superare il problema.
Nelle intenzioni e nelle esperienze di fede le parrocchie preferirebbero di
gran lunga non essere chiamate a scegliere tra le due distinzioni.
Sono d’accordo sul fatto che si debba urgentemente
richiedere che i laici possano presiedere le celebrazioni comunitarie. In molti
casi seguono corsi specifici per prepararsi ad assolvere a questa funzione. In
altri casi si prevede un periodo di prova, durante il quale venga evidenziata
l’idoneità del soggetto. In nessun caso si ritiene che una persona possa essere
assegnata a questo servizio senza una adeguata selezione. E’ però convinzione
generale che la selezione dei ministri sia responsabilità dell’intera comunità
parrocchiale; in altre parole, la decisione deve essere presa ‘dal basso’ e, se
necessario, seguendo procedure di ampio consenso. E’ opinione comune che la
funzione di presiedere alla celebrazione comunitaria non sia solo supportata e
confermata dalla comunità, ma che la comunità abbia preventivamente definito e
legittimato tale funzione. In molti casi le parrocchie o le comunità ecclesiali
sono convinte che la funzione di presiedere le celebrazioni abbia le sue
origini ‘dal basso’ e che il ministro sia nominato dalla comunità stessa.
Nell’identificare questo ministro laico, non esiste pregiudizio se esso debba
essere maschio o femmina. La visione predominante è che un donna possa
egualmente svolgere a pieno titolo tale funzione.
In tutti i casi i fedeli percepiscono la
situazione attuale come restrittiva. La diocesi punta espressamente su
parrocchie servite dal clero. Le parrocchie opterebbero piuttosto, ove
possibile, alla coesistenza di preti “ordinati” e ministri laici, uomini o
donne, che siano stati ‘chiamati’ a tale ministero. Le parrocchie tendono a
mantenere una politica di trasparenza nei rapporti con la diocesi, ma a volte
hanno dovuto scegliere di non esporsi. L’attuale situazione è, come ritenuto da
molti, bloccata dalla gerarchia: le parrocchie non possono fare ciò che, per
necessità pastorali, ritengono opportuno.
In molte parrocchie esistono ‘piani di
emergenza’, a vari livelli di
elaborazione, per i casi in cui dovessero affrontare un intervento
dell’autorità che proibisse alcune iniziative. Non sempre intendono accettare
qualunque prete scelto dall’autorità. E ci sono altri ancora che non sono
interessati al confronto con la diocesi. In ogni caso queste parrocchie
desiderano restare nel corpo della Chiesa Cattolica. Spesso il contatto con la
diocesi viene avvertito come un ‘camminare sulle uova’: da una parte si ritiene
che non sempre sia fruttuoso un aperto contrasto, ma dall’altra esiste la
convinzione, e talvolta la precisa esperienza, di scontrarsi contro un muro di
gomma senza riuscire a portare avanti i propri programmi o ciò che si pensa sia
giusto. Una rimostranza diffusa è che la gerarchia cerca di tenere insieme la
Chiesa rafforzando strutture tradizionali. Qualunque sia il sogno che una
parrocchia vuole realizzare, esso viene spesso rigettato perché non in linea
con la pratica o la dottrina in vigore. “Qualunque cosa accada, noi andremo
avanti”, dicono alcuni. Ma, nonostante la determinazione, alcuni temono che il
loro sogno non si avvererà. Le parti non hanno alcuna fiducia reciproca.
Abbiamo già detto che un numero sempre crescente
di parrocchie o di comunità ecclesiali cercano soluzioni proprie. Mantenere la
distinzione tra ‘Celebrazione Eucaristica’ e ‘Servizio della Parola e della
Comunione’ è una di queste. In pratica però spesso diventa necessario
ignorarla. Se, ad esempio, le particole consacrate non fossero sufficienti si
cerca di trovarne altrove, anche se questo può essere considerato irrispettoso
verso l’Eucaristia stessa. A volte le particole consacrate disponibili sono
accompagnate da particole non consacrate, con la scusa che ‘tanto nessuno lo
sa’. Si ha l’impressione, quindi, che la distinzione fatta fino ad ora venga
usata più per evitare un conflitto con l’autorità che per una vera e propria
convinzione. Le soluzioni adottate sono poco convincenti – o ritenute tali – e
sembrano essere soluzioni di pseudo-emergenza.
Lo stesso accade per altre implicazioni di tale
distinzione. L’utilizzo della formula di consacrazione approvata dalle autorità
della Chiesa, ad esempio, è spesso disattesa nella pratica senza grossi
scrupoli. Alcune comunità ritengono queste linee guida insignificanti e
agiscono di conseguenza. Spesso le formule utilizzate dal celebrante o dalla
comunità trovano maggior riscontro di quelle ufficiali poiché sono sulla stessa
lunghezza d’onda della gente e riguardano aspetti della loro vita quotidiana.
Inoltre viene spesso proposto – e messo in pratica – di lasciare da parte le
formule stabilite dall’istituzione, sostituendole con espressioni di più facile
comprensione e più in sintonia con le moderne espressioni della fede. Ancora
una volta le parole e i gesti imposti dalle autorità ecclesiastiche sono
percepite come un ostacolo, col risultato che di fatto la gente, più o meno di
nascosto, scelgono diversamente. La visione d’insieme su questi temi è
caratterizzata da una serie di equivoci, spesso privi della dovuta trasparenza,
per cui esiste una attività sotterranea portata avanti nella segretezza. Sembra
che su questo punto la chiesa sia tornata alle catacombe, mentre in superficie
nessuno sembra voler sapere cosa accada al di sotto.
Un simile livello di ambiguità lo riscontriamo
durante la selezione e nomina dei laici, maschi o femmine, che presiedano il
‘Servizio della Parola e della Comunione’. Devono rispondere a chiari
requisiti. Talvolta sembra esserci l’intenzione di equipararli al prete
diocesano per poi formare, ad esempio, un ‘team pastorale’ che superi il ruolo
esclusivo del prete.
Un fattore importante in questa situazione
conflittuale tra diocesi e parrocchie riguarda i fondi della chiesa. Anche in
questo settore ci sono grandi difficoltà. Alcuni parrocchiani hanno interrotto
le loro donazioni alla parrocchia poiché destinate in seguito alla diocesi. Per
questa ragione in alcune comunità sono state istituite fondazioni indipendenti,
i cui fondi sono esclusivamente destinati alle proprie esigenze pastorali e
diaconali. Coloro che non vogliono finanziare la diocesi possono destinare i
fondi a queste associazioni. Esse hanno una propria amministrazione non
collegata a quella diocesana di cui rispondono i ministri laici, maschi o
femmine, scelti dalla comunità. Questa posizione rappresenta una pista
alternativa all’amministrazione della chiesa, e porta a sottrarsi al controllo
esclusivo delle alte gerarchie.
D’altra parte, gli edifici della chiesa sono
spesso di proprietà della diocesi e, in teoria, le autorità ecclesiastiche
hanno il potere di impedire o autorizzare le attività al loro interno, o per lo
meno di esercitare il controllo su di essi. Molte comunità avvertono questa
situazione come una forma di restrizione. Le parrocchie hanno mani e piedi
legati e non possono fare ciò che vogliono; percepiscono di andare contro un
muro, che rende impossibile ciò che invece dovrebbe essere possibile. La
questione dei fondi della chiesa costringe e allinea i fedeli a seguire le
regole. Non si sentono liberi. Ne deriva che essi ricerchino strade alternative
per divincolarsi da una situazione che sentono come costrittiva. La chiesa
quindi tende a somigliare a un recipiente sigillato piuttosto che ad una
comunità di fedeli aperta all’ispirazione dall’alto.
Se si domanda loro quali siano le loro
speranze per il futuro, le parrocchie spesso rispondono: "Avere la
possibilità di fare a modo nostro". Ciò non significa un arbitrio illimitato,
ma la possibilità di fare, secondo la loro autentica responsabilità e in
accordo con le loro autentiche convinzioni di fede, ciò che al livello più
profondo ritengono vada fatto.
In primo luogo, ciò vuol dire che, in
principio, uomini e donne possono essere scelti dalla comunità stessa per
presiedere l’Eucaristia, cioè ‘dal basso’. Ciò non significa che non vogliano
che la loro scelta sia seguita da una confermazione o benedizione o ordinazione
da parte della gerarchia della Chiesa, ovvero dal vescovo locale. Anzi, dal
loro punto di vista questa confermazione o ordinazione è importantissima per
questo ministero. Conseguentemente, vorrebbero un rito in cui la comunità
locale possa proporre al vescovo per l’ordinazione le persone – sia uomini che
donne – scelte come leader della propria comunità, e in cui il vescovo le
ordini. In questa procedura auspicata ci sarebbe, quindi, un’azione combinata
dall’‘alto’ e dal ‘basso’: la comunità presenta i candidati e il vescovo li
benedice e conferma sulla base della tradizione apostolica. Certamente non si
può dire che queste comunità non vedano l’importanza dell’autorità della Chiesa
e della tradizione apostolica. Anzi, vogliono rimettere l’autorità al posto che
ha nella tradizione e, conseguentemente, tributarle un rispetto maggiore di
quanto ne abbia oggi.
In questo modo, sperano in una liturgia in
cui le parole dell’istituzione possano essere pronunciate sia da coloro che
presiedono l’Eucaristia che dalla comunità (da cui provengono coloro che
presiedono). Il pronunciare queste parole non è ritenuto una prerogativa
esclusiva dei preti; se fosse così, come sarebbe possibile evitare una forma di
potere e di diritto quasi magico? Le parole costituiscono una consapevole
dichiarazione di fede da parte dell’intera comunità, che offre la sua voce alla
persona che presiede la celebrazione.
In questa speranza per il futuro, il compito
e il ministero del leader della comunità sono fondamentalmente
(‘democraticamente’) decisi dalla comunità ecclesiale. Come leader, lui o lei è
parte della comunità, un credente che viene dalla comunità. D’altra parte, il
suo ministero è allo stesso tempo e in sé una funzione ‘di fronte’ alla
comunità: il ministero, ricoperto da lui o da lei, di proclamare e dichiarare
qualcosa alla comunità sulla base della tradizione del Libro. Si tratta,
quindi, letteralmente di una doppia funzione: chiamati dalla comunità e tratti
da essa, è la comunità stessa che li incarica di proclamare ciò che dovrebbe
essere proclamato. Poiché vengono dalla comunità e in essa rimangono, questi
leader ricevono ‘autorità’ (che in olandese ha la stessa radice di zeggen,
dire, ndt) da parte della comunità in senso letterale: lui o lei ‘ha
qualcosa da dire’ e lo deve dire perché il suo compito abbia un senso.
Il duplice
senso del ministero si ritrova anche nella funzione di presiedere la preghiera
eucaristica. La comunità chiede che coloro che presiedono compiano i gesti
liturgici e li affida a loro. Non si può affermare che il ministro, con
l’ordinazione, riceva il potere di fare qualcosa che gli altri non sono in
grado di fare. È una forma di responsabilità., piuttosto che di potere, quella
che la comunità affida loro, perché agiscano per conto di tutti e in nome di
tutti. I leader nella comunità quindi sono come sollevati per un momento al di
sopra di se stessi dalla comunità. Per un momento si allontanano in modo da
diventare la personificazione, la mano e la voce della comunità. Il gesto
liturgico quindi è esclusivo, ma non in misura tale da conferire potere o
diventare eccezionale. Non è fatto ‘a esclusione di voi’, ma ‘includendo voi,
grazie a voi e per conto vostro’.
Alcune cifre per chiudere questo capitolo. Nei
Paesi Bassi il numero di Celebrazioni Eucaristiche nel fine settimana è sceso
da 2.200 nel 2002 a 1.900 nel 2004; il numero di ‘Servizi della Parola e della
Comunione’ è cresciuto nello stesso periodo da 550 a 630. Nella maggior parte
delle diocesi olandesi il numero di questi servizi raggiunge il 50% del totale
delle Celebrazioni Eucaristiche. Nelle diocesi di Utrecht (165 celebrazioni nei
fine settimana del 2004) e Breda (70) il numero è notevolmente più elevato.
Nella diocesi di Den Bosch il livello è il più alto di tutti nel 2004: ogni
fine settimana ci sono state 95 Celebrazioni Eucaristiche in meno rispetto al
2003 e 50 servizi alternativi in più. La diocesi di Groningen/Leeuwrden batte
tutte le altre: il numero delle Eucaristie in questa regione equivale a quello
degli altri servizi, 50 ogni fine settimana. Nella diocesi di Roermond non c’è
solo il più alto numero di Celebrazioni Eucaristiche, circa 530 alla settimana
nel 2004, ma anche il più basso numero di riti e servizi alternativi. Secondo
il portavoce della diocesi Bemelmans questo sarebbe in parte dovuto al fatto
che nella diocesi ci sono pochissimi operatori pastorali attivi, ma, aggiunge,
è anche dovuto ‘alla nostra politica di dissuasione. Noi chiamiamo questi
servizi “Eucaristia con un buco al centro”’. La situazione nella diocesi di
Roermond è relativamente favorevole, dato che ha un numero sufficiente di preti
per celebrare l’Eucaristia ogni domenica in ogni parrocchia. Bemelmans: ‘Ma
anche noi dobbiamo chiudere delle parrocchie, ne abbiamo chiuse circa 20 negli
ultimi dieci anni. Per anni abbiamo anche avuto la necessità di ridurre il
numero di celebrazioni: è meglio avere una sola vera Messa ogni fine settimana.
E reclutiamo preti stranieri, ad esempio dall’India o dall’Argentina’. Solo la
diocesi di Haarlem e Utrecht sono riuscite a ridurre il numero di servizi alternativi
nel 2004 e ad aumentare sensibilmente le celebrazioni Eucaristiche. ‘Siamo
fermamente determinati a ridurre il numero dei Servizi della Parola e della
Comunione’, ha detto Wim Peeters, portavoce della diocesi di Haarlem.
L’enorme discrepanza tra la chiesa di base e le
politiche della gerarchia ecclesiastica non potrebbe essere meglio illustrata
che da questi numeri. C’è una differenza abissale tra le vedute ristrette su
chiesa, celebrazioni liturgiche e ministero e la pratica reale in molti luoghi
di interesse pastorale. I regolari aggiornamenti su stampa, periodici, tv e
nelle interviste che questo comitato ha condotto, non lasciano alcun dubbio su
questo punto.
Per poter valutare questa situazione e
conseguentemente tirare delle conclusioni, sembra necessario tener presente la
connessione tra i vari problemi precedentemente indicati. Per facilitare tale
processo dobbiamo prima porre attenzione su cosa è ‘chiesa’.
2. Cos’è la Chiesa?
Il gap con quale ci confrontiamo così
dolorosamente, risale al Concilio Vaticano II (1962-1965), sebbene le parti
fossero avversarie da molto prima. Al Concilio, comunque, l’opposizione che era
stata in letargo per tanto tempo si è manifestata con forza; un serafico
esperto fiammingo, che ha seguito il Concilio dall’inizio alla fine, osservava
queste cose già nel 1967. Secondo lui esistevano due diverse correnti ‘di cui
una sperava di perpetuare le vie tradizionali del XIX secolo, mentre l’altra
manifestava una ampia apertura verso i nuovi sviluppi teologici’. (Msgr. G. Philips, De Dogmatiche constitutie over de kerk, Antwerp, 1967, p. 12).
Una prima grande differenza sulla visione di
chiesa venne alla luce già durante il Concilio. Dopo una intensa consultazione
i vescovi presenti decisero di cambiare l’ordine dei capitoli sul documento
inerente la chiesa. L’obiettivo di questo cambiamento era rendere possibile
l’inserimento di un nuovo paragrafo, dal titolo ‘Il popolo di Dio’. Soltanto
dopo questo paragrafo si sarebbe introdotto l’argomento gerarchia (papa e
vescovi).
Con sommo rammarico dei partecipanti
‘tradizionalisti’ questa modifica fu accettata sulla base di argomentazioni
brevi, ma efficaci. Fu stabilito che ‘il popolo e la salvezza del popolo’ erano
l’obiettivo della comunità ecclesiale. Quindi si decise (come riportato nel
rapporto ufficiale della commissione) che ‘la gerarchia deve tendere a questo
obiettivo quale strumento’. Con questo la gerarchia era letteralmente ritenuta
secondaria.
La discussione su questo punto fu molto dura e non
meraviglia che una tale prospettiva potesse avere conseguenze lungimiranti. E
proprio a causa di queste conseguenze, un tale movimento del Concilio fu
relegato, negli anni successivi, in secondo piano. Dopo il Concilio, infatti,
gli organi centrali dell’organizzazione ecclesiastica non ritennero opportuna
una nuova immagine di chiesa. Il cambiamento costituzionale della chiesa
divenne ‘una manovra dimenticata’.
Ancora oggi la speranza sollevata all’epoca non si
è completamente sopita. E’ stato chiarito che la chiesa non è innanzitutto una
organizzazione gerarchica costituita dall’alto verso il basso, partendo dal
papa, seguendo con i vescovi, ecc. Piuttosto la chiesa è l’intero popolo di Dio
in pellegrinaggio attraverso i tempi. Nella vastità del popolo sono attivi i
doni dello Spirito. Riconoscendo ed apprezzando questi doni sorse nel corso dei
secoli una organica comunità di fedeli. In origine, la sostanza e il nome di
questi doni dello Spirito variavano a seconda delle aree geografiche di
diffusione del Vangelo. Tenendo conto delle esigenze delle comunità locali,
variava altresì il panorama delle funzioni ministeriali.
Uno dei doni che necessariamente si manifestava
era la leadership. Generalmente era il fondatore della comunità che assolveva a
questa funzione, come da prassi. Ma durante il periodo successivo alla morte
del fondatore, la comunità era solita pronunciarsi di comune accordo riguardo
una decisione finale. In definitiva è la comunità che conosce le sue esigenze e
che porta avanti le attività. (1Cor 12,7.10; 14,3-5,12. 32, cf. J. Tigcheler,
‘Bouwen op het fundment van apostolen en profeten’, in Speling 57 (2005), nr.
4, p. 18).
Nel corso del tempo il servizio di guida è stato
frazionato in varie funzioni, con diversi nomi. A parte gli apostoli e i
profeti evangelizzatori, comparvero nella comunità anche i pastori e gli
insegnanti. Nelle ultime comunità paoline esistevano anche funzioni come
diaconi, supervisori (episkopoi) e il ‘comitato degli anziani’ (presbyteroi) (1
Tim 3.1.8; 4,14). La gestione della funzione guida divenne ben più di una
faccenda istituzionale: il leader prescelto riceveva la grazia attraverso ‘le
formule’ pronunciate dal concilio dei presbiteri con ‘l’imposizione delle
mani’.
Nell’antichità la gestione rituale della
leadership e della presidenza della liturgia era chiamata ‘sacramento’.
Originariamente questo termine veniva utilizzato per indicare svariati
procedimenti all’interno della comunità ecclesiale. S. Agostino ne fu un precursore
convinto. Se il fedele poi confermava la preghiera con un ‘amen’, anche questo
era ritenuto un ‘sacramento’. Questa convinzione derivava dal fatto che si
riteneva che ogni attività svolta all’interno della comunità fosse in qualche
modo ‘sacramentale’, dato che rappresentava una realtà sacra mediante segni ed
azioni visibili. Solo alcuni secoli dopo si decise di riservare i termine
‘sacramento’ ai sette sacramenti ad oggi riconosciuti.
Nel corso della storia della chiesa la prospettiva
di leadership è completamente cambiata. Il punto di vista predominante è che il
presbiterato sia parte di una piramide. La sommità, cioè il livello più alto
della gerarchia, si trova più vicina al cielo, quindi partecipa ai massimi
livelli alla vita divina. Da questa sommità il soprannaturale scivola verso il
basso, attraverso la mediazione sacramentale del presbitero, fino alla parte
inferiore della chiesa per arrivare poi alla base della piramide, cioè ‘i
laici’. I sacramenti sono essenzialmente ‘strumenti di grazia’ e divengono
effettivi quando espletati da ministri ordinati. Nel corso dei secoli la chiesa
si è data un ordinamento giuridico elaborato, poi racchiuso nel codice di
diritto canonico.
Secondo questo modello un prete viene ‘ordinato’
al momento della sua nomina. Questo significa che la sua natura viene
modificata e la sua stessa essenza santificata. Mediante l’ordinazione egli
viene ammesso ad uno speciale dominio del sacro e del soprannaturale, che lo
porta oltre il dominio del terreno e del profano. Quindi egli è l’unico che ha
il potere di compiere atti sacramentali ‘validi’ (cioè canonicamente
riconosciuti). In tal modo si viene a creare una distinzione essenziale tra
laici e ministri ordinati, distinzione considerata indelebile. Ovviamente,
secondo questo stato di cose non potrebbe esistere il concetto di presbitero
part-time. Un indivuo diventa prete ‘nella propria intera essenza’, cioè da
capo a piedi, dal mattino alla sera, ‘in aeternum’.
Inserendo un nuovo capitolo nella
Costituzione del Vaticano II sulla Chiesa, si affermò meglio un diverso modello
di Chiesa: meno rigidamente gerarchico, più organico e orientato verso la
comunità nel suo complesso. Questo modello richiama l’immagine paolina della
Chiesa come corpo. Questo cambiamento aprì anche uno spazio per una diversa
concezione della funzione di guida nella comunità. Nei primi tempi della
Chiesa, la nomina di un tale ministro, in molte comunità, non richiedeva
un’ordinazione nel senso di una ‘consacrazione’, ma nel senso di dare un posto,
o ‘ordine’, tra le varie funzioni di un corpo. Il leader di una comunità non
veniva trasferito in un altro ordine di ‘essere’, ma nominato e accettato dalla
comunità per una specifica funzione. Un tale ministro, come Paolo, poteva
esercitare una professione al di fuori della Chiesa (cfr. 1Cor 4,12; At 18,3-4;
20,34). Secondo questa concezione, non era scontato che un certo gruppo di
persone dovesse venire escluso preventivamente da questa funzione perché il
loro ‘essere’ era ritenuto impuro o troppo mondano. All’apostolo Pietro era
stata affidata una funzione cruciale anche se era sposato e nella Chiesa
primitiva c’erano anche varie ‘diaconesse’.
Secondo la
concezione gerarchica della Chiesa e del suo ministero che è ancora attuale, il
prete ordinato funge da ‘cardine’ nella mediazione della grazia, una funzione
che non può essere contestata e non è aperta alla concorrenza dall’interno: il
ministro ordinato definisce la Chiesa, che in sua assenza non può più
funzionare. Nel modello ‘organico’ di Chiesa la situazione è diversa: la
comunità di fede decide quali tipi di ministeri sono necessari qui e ora. Fin
quando la minaccia della concorrenza determinerà il pensiero sulla Chiesa e sul
ministero, non ci sarà spazio per una connessione organica in cui i vari
ministri possano cooperare.
In realtà,
è chiaro che, fino a quando rimarrà predominante il modello gerarchico della
Chiesa, non ci sarà spazio per coloro che oggi chiamiamo ‘operatori pastorali’.
Nella ‘Chiesa come piramide’ possono essere guardati soltanto con sospetto, per
paura che, accanto ai ‘preti validamente ordinati’, possa sorgere un ‘clero
parallelo’.
Ciò che l’attuale gerarchia ecclesiastica ancora
percepisce come una minaccia è il vantaggio di avere laici attivi in molte
comunità ecclesiali locali. Questo però rappresenta anche una sfida. Mentre
divengono sempre più consapevoli di rappresentare la antica tradizione della
chiesa, riportata alla sua reale essenza dal Concilio Vaticano II, saranno in
grado di agire in modo più disinibito. La loro creatività di fede sarà ispirata
se realmente incoraggiata. Un riconoscimento incondizionato da parte degli
altri membri della comunità mitigherà le difficoltà nella costruzione di una
mutua relazione tra gli individui, che sono riscontrabili anche ai giorni
nostri.
3. L’Eucaristia
Il senso della celebrazione dell’Eucaristia è di
grande ricchezza. La stessa parola significa “ringraziamento”: nell’Eucaristia
esprimiamo la nostra gratitudine per la creazione, per la nostra vita, per la
liberante narrazione della storia di Israele e di Gesù. Allo stesso tempo
chiediamo che la forza creatrice e liberante di Dio continui a sostenerci e ad
ispirarci, per darci le ali e concedere che il mondo ne tragga profitto.
L’Eucaristia consiste in un insieme di preghiere e azioni proprie della
condivisione del pane e del vino. Le preghiere possono avere diverse forme;
nell’antichità esistevano versioni differenti nel frasario istituzionale. Queste
infatti non sono parole magiche e potrebbero perfino essere omesse, come ci
insegnano gli antichi testi.
L’Eucaristia è chiamata ‘sacramento’, un termine
latino che significa ‘qualcosa che determina una certezza’. Nell’esercito
romano il giuramento militare di fedeltà era chiamato ‘sacramentum’. Il termine
fu adottato poi dalla chiesa di rito latino in occidente e utilizzato per
indicare svariati atti fra cui la Celebrazione Eucaristica. Al fine di indicare
ciò che questa azione indica, è preferibile considerare il termine greco di
rito orientale ‘mysterion’, cioè ‘qualcosa che prima era nascosto e che ora
diviene manifesto’.
Se
vogliamo comprendere l’Eucaristia dovremmo iniziare ad esaminare cosa facciamo
quando la celebriamo; questa forma di ringraziamento prende la forma di un
banchetto rituale comunitario e le relative preghiere indicato la specialità ed
unicità di questo banchetto. Non tanto perché si tratti di un pasto elaborato,
ma perché concentra la sua specificità in un gesto che ‘simboleggia’ (sarebbe
‘mettere insieme’, in greco ‘symballein’) o riassume quello che c’è in gioco in
questo pasto speciale. Nelle lingue moderne il significato dei termini
‘sacramento’ e ‘simbolo’ è diventato troppo divergente.
L’Eucaristia non è qualcosa che ‘possediamo’.
Nella condivisione del pane e del vino la comunità riconosce il senso della
Thora – la tradizione giudaica – e come questa ha preso forma in Gesù. La
condivisione rappresenta il fulcro di questo pasto comunitario. Nella
celebrazione dell’Eucaristia esprimiamo la nostra fiducia, rappresentiamo e
celebriamo la consapevolezza che la vita è soprattutto convisione. Esprimiamo
la nostra convinzione a noi stessi e a mondo intero che Dio vuole condividere
se stesso e comunicarsi a noi, che Egli ci accetta incondizionatamente e che, a
imitazione di Dio, vogliamo dividere noi stessi e comunicarci agli altri.
Questa realtà è stata espressa e realizzata prima
di tutto da Gesù di Nazareth nella sua vita e nel suo agire; egli ha condiviso
la sua stessa vita fino a morire in croce. Questa forma di condivisione
sconfinata è liberante: ci libera dai lacci che ci costringono, dal male, dagli
errori che abbiamo commesso, dai ‘peccati’, da un passato oppressivo. Ci
promette che in futuro, anche se incerto, possiamo sempre contare su Dio, che è
amore.
Nel condividere il pane e il vino, facendo ciò che
Gesù ha fatto, riconosciamo la su presenza in mezzo a noi. Il pane spezzato si
riferisce propriamente alla vita e alla morte di Gesù, il vino indica la sua
forza vitale, la sua mente ed il suo
spirito, il suo sangue; nella Bibbia il ‘sangue’ rappresenta la forza vitale.
Alla mensa eucaristica è presente tutto il mondo.
Il lavoro della gente, la violenza tra uomo e donna, individuale o di gruppo,
la mancanza di cibo, generalmente frutto di ingiustizie economiche e sociali,
l’inquinamento ambientale, il desiderio di ogni persona di essere vista e
riconosciuta – tutto questo è presente sulla mensa, anche se non esplicitamente
menzionato.
La storia del popolo ebreo, col suo esodo dalla
‘schiavitù’, il lungo percorso attraverso il deserto, la siccità e la carestia,
l’esilio e il ritorno alla terra promessa, ma anche l’olocausto, sono sulla
mensa e così l’intera storia della vita di Gesù, la sua morte e la sua
resurrezione, e l’intera storia di coloro che lo hanno seguito, nella buona e
nella cattiva sorte. Il fatto che la gente continui a celebrare l’Eucaristia è
segno della speranza che ci sarà un tempo in cui sarà fatta giustizia per ognuno.
L’Eucaristia riunisce le persone intorno a Gesù,
la vittima che ha rifiutato di fare altre vittime. L’Eucaristia è il pasto del
viaggio della nostra vita. Non è la conclusione unificatrice dei popoli o dei
cristiani, dal momento che Dio sarà tutto in tutto. Siamo ancora in viaggio.
Tutte le situazioni e le condizioni del genere umano saranno riunite
nell’Eucaristia se e quando ci sarà una comunione di intenzioni nel riproporre
il rito. E’ un mensa aperta anche a gente di altre tradizioni religiose. In e
attraverso la celebrazione diventiamo comunità. Questa celebrazione comunitaria
anticipa ciò che la Bibbia chiama ‘il Regno di Dio’ e ‘cieli e terra nuova, in
cui Dio sarà tutto in tutto’.
Ci rendiamo conto che l’interpretazione e la valutazione relative
all’Eucaristia da parte di molti cattolici nei Paesi Bassi differiscono
sostanzialmente da quelle delle autorità ecclesiastiche di Roma. Il nostro
sottolineare che si tratta di un banchetto rituale comunitario è un problema
per la leadership della chiesa. Un tipico esempio di questa prospettiva è
l’Istruzione Redemptionis Sacramentum
che il cardinale Francis Arinze, capo della Congregazione per la Dottrina
Liturgica, ha pubblicato il 25 marzo 2004, in stretta collaborazione con la
Congregazione per la Dottrina della Fede, capeggiata dal cardinale Joseph
Ratzinger, eletto papa Benedetto XVI il 19 aprile del 2005.
Il paragrafo 38 dell’Istruzione recita così nella versione inglese:
“L’insegnamento costante del Chiesa sulla natura dell’Eucaristia, non solo come
pasto, ma anche e prevalentemente come Sacrificio, è chiaramente da intendersi
come chiave principale alla piena partecipazione di tutti i fedeli a questo
grande Sacramento. Dato che privandolo del suo significato sacrificale, il
mistero è ridotto al mero significato di banchetto fraterno”.
I dettami contenuti nell’istruzione relativamente al sacrificio vogliono
escludere più possibile qualunque elemento che possa portare a pensare che
l’Eucaristia come segno di un pasto comunitario. Il preciso significato di
“sacrificio” nell’Eucaristia resta non chiarito. La nostra prospettiva è che il
dono di sé che Gesù ci fa attraverso la sua vita e morte può essere definito
‘sacrificio’. Questo sacrificio si fa presente nell’Eucaristia sotto forma di
banchetto comunitario in cui i fedeli che lo condividono partecipano all’atto
sacrificale di Gesù. E’ ciò che noi abbiamo descritto come ‘condivisione’ e
donazione di sé.
La preferenza dell’Istruzione vaticana per l’interpretazione sacrificale è
collegata all’enfasi unilaterale data al carattere ‘verticale’ dell’Eucaristia.
Ciò presuppone un’immagine tratta dalla filosofia antica: tutto ciò che è
‘buono’ discende, per diversi gradi, dall’alto verso il basso, in questo caso
attraverso il prete che è un rappresentante di Gesù, fino ad arrivare ai
fedeli. Questi rispondono a questo movimento discendente con un movimento
ascendente che procede anch’esso per gradi – attraverso il prete – che è
chiamato ‘sacrificio’.
La scelta di questa immagine
semplifica la difesa di una concezione del ministero in cui la leadership
della comunità è sì chiamata ‘servizio’, ma coloro che svolgono questo servizio
sono, nei fatti, posti sempre su un gradino più alto degli altri fedeli e in
questo modo esercitano un controllo su di essi. Anche se in teoria l’Eucaristia
è al centro della liturgia, la sua celebrazione è di fatto resa dipendente da
una persona che la presiede, il che rende l’ordinazione il più importante dei
sacramenti.
Per come noi la vediamo, l’Eucaristia è una
condivisione di pane e vino tra fratelli e sorelle, al cui centro c’è Gesù.
4.
I ministri nella chiesa
La funzione di leadership è di grande importanza
per ciascuna comunità, perché è uno dei canali attraverso il quale si mantiene
viva la narrativa di Gesù al suo interno. Quindi la comunità di fedeli ha il
diritto di essere assistita da funzionari che la aiutino ad andare avanti e ne
assicurino l’ispirazione, e che, come testimoni del Vangelo, possano
identificarvisi. Allo stesso tempo essi hanno il diritto di celebrare
l’Eucaristia come sacramento di solidarietà e unione con Gesù e con gli altri.
Dalla prospettiva della Bibbia e della teologia
non si può parlare di una sola forma di ministero nella chiesa, quale unica
forma possibile e legittima. Riflettendo sulla storia della chiesa, non
troviamo risposte confezionate ai problemi relativi al ministero dei giorni
nostri, ma troviamo valide alternative che vale la pena considerare.
Particolarmente nel primo millennio il ministero
all’interno della chiesa ha subito considerevoli cambiamenti, parallelamente ai
molteplici modelli e sviluppi avvenuti in Palestina, Asia Minore, Grecia, Roma
ed Egitto.
Nella chiesa primitiva tutti i membri della
comunità erano uguale in conseguenza del battesimo: “poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di
Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più
uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,27). Ogni
battezzato con i suoi propri talenti e
doni (carismi) è a servizio della comunità da eguale.
Nella vita delle prime comunità ricche e
variegate, c’erano ovviamente alcuni membri che iniziavano e conducevano le
attività missionarie, catechetiche, profetiche e liturgiche, attraverso le
quale i cristiani sviluppavano la propria esperienza di fede in comunità. La
funzione del leader è necessaria per la costruzione della chiesa in continuità
con la tradizione apostolica e per salvaguardarne il retaggio, cioè il Vangelo.
Le stesse comunità sceglievano o ‘chiamavano’ i propri leader sulla base delle
loro caratteristiche personali. Papa Leone il Grande (440-461) dichiarò: “Colui
che deve guidare tutti, deve essere da questi scelto”. Nella chiesa primitiva
ai leader spettava un posto speciale (venivano ‘ordinati’) nella vasta gamma di
ministeri ed attività comunitarie. Ne derivava che fosse naturale che
presiedessero anche la Celebrazione Eucaristica.
Dopo la prima generazione di seguaci di Gesù, i
servizi comunitari tesero ad essere regolati secondo modalità più uniformi.
Allo stesso tempo fu ritenuto che l’insediamento di un capo della comunità
dovesse essere accompagnato da una celebrazione liturgica. Pertanto
l’imposizione delle mani da parte dei leader di comunità vicine esprimeva una
creativa collegialità tra le stesse comunità locali.
Nei primi dieci secoli né la chiesa orientale né
quella occidentale hanno pensato mai di rendere il celibato, cioè l’essere
non-sposato, condizione necessaria per diventare leader di una comunità. Sia
gli sposati che i non-sposati potevano diventarlo. Alla fine del IV sec. una
legge canonica – in linea con le tradizioni culturali dell’epoca – stabilì la
regola della continenza sessuale come legge liturgica: la proibizione di avere
rapporti sessuali la notte prima della celebrazione eucaristica, qualcosa che
veniva già di fatto praticato da un po’ di tempo. Quando, alla fine del IV sec,
è divenuta prassi celebrare l’Eucaristia quotidianamente, questo ha significato
per i preti sposati una sorta di continenza perpetua. Fu in quel momento che la
chiesa occidentale prescrisse la continenza per legge, la legge sulla
continenza, appunto.
Dopo che il cristianesimo divenne la religione
ufficiale nel IV secolo e smise di essere perseguitata, il suo clero ricevette
lo status di ‘autorità’ ed iniziò ad agire di conseguenza. La funzione che in
passato veniva espressa come forma di servizio, cominciò ad esprimere una forma
di potere ed autorità: il potere dell’ordinazione, della giurisdizione. Il
servizio di guida divene il potere di un’autorità a tutti gli effetti. La
domanda ‘chi può essere guida nella chiesa?’ è cambiata con ‘a chi è permesso
essere guida nella chiesa?’. Inizia un processo di clericalizzazione. I fedeli,
d’ora in poi chiamati ‘laici’, da soggetti di fede ispirati dallo Spirito
diventano oggetti della cura pastorale del prete. Il presbitero viene ridotto a
Presidente dell’Eucaristia e la comunità a congregazione che celebra la
liturgia.
Nel Concilio Laterano II del 1139, la legge sulla
continenza, in vigore dal IV sec. fu sostituita dall legge del celibato
presbiterale. Questa legge è stato uno strumento drastico utile ad assicurare
il rispetto della legge sulla continenza, dato che fino ad allora la sua
osservanza non era stata proprio stretta a dispetto delle penitenze e delle
sanzioni pecuniarie previste. Da allora il presbiterato è un ostacolo
invalidante al matrimonio; il Codice di Diritto Canonico definisce
l’ordinazione un impedimento invalidante (can. 1087), infatti solo i
non-sposati possono diventare preti e solo uomini celibi possono presiedere
l’Eucaristia. Nel 1215 il Concilio Laterano IV sancisce che solo i ministri
validamente ordinati possono validamente pronunciare la ‘formula di consacrazione’.
Dal XVII secolo il sacerdozio di Gesù non fu più
basato sulla sua umanità, ma sulla sua divinità. Questo significa che i preti
nella chiesa, d’ora in poi, partecipano al potere divino. Ai preti non è più
assegnata una funzione (ordinazione) dalla comunità per mantenere e perpetuare
la sequela di Gesù, ma sono ‘consacrati’ dal vescovo per poter celebrare
l’Eucaristia. La chiesa diventa un società gerarchica, una chiesa dall’alto,
come una piramide, la punta verso il cielo, dalla quale la grazia di Dio,
attraverso la gerarchia, arriva in basso – come spiegato in dettaglio nel
paragrafo precedente ‘cosa è la chiesa?’.
Il Concilio Vaticano II ha cambiato fondmentlmente
questa prospettiva della chiesa. Dopo discussioni approfondite ed estenuanti ha
deciso di anteporre il paragrafo sul Popolo di Dio a quello della gerarchia
ecclesiastica sulla proposta costituzione della chiesa. Sulla scia di questo
cambiamento la gerarchia sembra essere a servizio del Popolo di Dio. Infatti,
la piramide si capovolge.
Quando c’è una trasformazione nella concezione dominante dell’umanità e del
mondo, quando ci sono cambiamenti socio-economici e si manifesta una nuova
consapevolezza socio-culturale, l’ordinamento della Chiesa, come si è
sviluppato storicamente, può, di fatto, contraddire e bloccare qualcosa che
voleva proteggere fino ad oggi: la costruzione di una comunità cristiana. Ci si
potrebbe chiedere se e in quale misura alcune forme e regole che avevano senso
ed erano rilevanti e quindi realistiche nel passato siano ancora ragionevoli e
realistiche nel nostro tempo, o se, piuttosto, siano controproducenti.
Quando diciamo questo, ci riferiamo specificamente al canone che proibisce
agli uomini non celibi di essere investiti della piena leadership di una
comunità e alla legge che esclude le donne da questo compito. Storicamente, una
filosofia antiquata del genere umano e una concezione ormai sorpassata della
sessualità sono all’origine di entrambe queste leggi. Sono leggi ecclesiastiche
e quindi umane, non divine.
Nel suo discorso di apertura del Concilio Vaticano II, papa Giovanni XXIII
chiamò la Chiesa ad aprire le sue finestre al mondo. Una Chiesa che vuole
essere rilevante dovrebbe avere il coraggio e prendersi la libertà di abolire
leggi che mortificano la vitalità delle comunità e impediscono in molti luoghi
la celebrazione dell’Eucaristia. Spesso, nel passato, pratiche ‘illegali’
diffuse nella base hanno convinto la gerarchia che era logico e ragionevole
cambiare la legislazione esistente. Nuovi esperimenti possono indicare strade
importanti per i cambiamenti della forma di una Chiesa adeguata alle esigenze
del nostro tempo. È vero che nella nostra società occidentale le persone non
sposate sono, intrinsecamente, più adatte a essere leader della comunità di
fede delle persone sposate? E che nella nostra cultura occidentale gli uomini
sono intrinsecamente più adatti a ispirare e guidare una comunità cristiana
delle donne? La nostra risposta, e quella di molti altri credenti, è, per
entrambe le domande, un inequivocabile ‘no’.
L’attuale penuria di preti è, per dirla tutta, fasulla, e, quindi, irreale.
In molte parrocchie, ci sono uomini e donne che già agiscono, in modi
stimolanti e che danno speranza, per dare avvio e ispirazione a comunità adatte
ai nostri tempi, con cui i cristiani si possono identificare. Molti membri di
queste comunità avrebbero piena fiducia nell’‘ordinarli’ come loro leader
ufficiali e come ministri che presiedano alle celebrazioni liturgiche. Per tali
funzioni, pensiamo, prima di tutto, agli operatori pastorali, uomini e donne,
che sono stati nominati ufficialmente, ma anche a molti volontari. Questi
uomini e donne sono nel cuore della loro comunità locale, in misura maggiore,
spesso, dei preti ordinati. Questi preti sono stati nominati – spesso in più di
una parrocchia – per presiedere alla celebrazione dei sacramenti, soprattutto
l’Eucaristia. Inevitabilmente, e con loro frustrazione e scoraggiamento,
diventano sempre più degli ‘estranei’ per i credenti per cui celebrano nelle
Chiese.
Quali criteri utilizzare per selezionare le guide comunitarie?
Con una certa urgenza invitiamo le nostre comunità di fedeli e le
parrocchie a rendersi conto di cosa è in gioco nell’attuale condizione di
emergenza dovuta alla penuria di preti celibi ordinati e a prendersi – e a
essere autorizzati a prendersi – quegli spazi di libertà teologicamente
giustificati per scegliere un leader o un gruppo di leader al proprio interno.
Sulla base della precedenza del ‘popolo di Dio’ rispetto alla gerarchia –
esplicitamente enunciata durante il Concilio Vaticano II – ci si potrebbe
aspettare che il vescovo diocesano confermi questa scelta, dopo un’adeguata
consultazione, per mezzo dell’imposizione delle mani. Se un vescovo dovesse
rifiutare questa confermazione o ‘ordinazione’ sulla base di argomentazioni che
non riguardano l’essenza dell’Eucaristia, come il celibato obbligatorio, le
parrocchie possono essere sicure di essere in grado di celebrare la vera e
genuina Eucaristia quando si riuniscono in preghiera e condividono il pane e il
vino.
Invitiamo le parrocchie a comportarsi in questo modo con una grande dose di
coraggio e sicurezza in se stesse. Bisogna sperare che, stimolati anche da
questa pratica relativamente nuova, i vescovi possano in futuro comportarsi
secondo il loro compito di servire ed eventualmente confermare i leader delle
comunità locali nel loro ufficio.
In conclusione, vorremmo sottolineare ancora una volta che i nostri
argomenti si basano sulle dichiarazioni del Concilio Vaticano II e sulle
pubblicazioni di teologi di fama e esperti di pastorale che si sono distinti a
partire da questo concilio. Ne presentiamo di seguito una selezione.
Il pastore svizzero Kurt Marti, conosciuto per le sue dichirazioni
intelligenti, chiare e precise, ha scritto:
Dove andremo a finire se ognuno dice
‘dove andremo a finire’ e nessuno cerca di capire dove saremmo andati a finire
se fossimo andati avanti.
LETTERATURA
CONSULTATA PER QUESTO RAPPORTO:
-
Augustinian Centre `de Boskapel', Nijmegen: Resultaten t.b.v. Veldonderzoek
Basisgemeenschappen/Organisaties - [Results Enquiry Grassroots
communities/organizations], Febr. 2005.
·
Consultation
Group `Geloven en Kerkelijke Gemeenschap' of the Council of Churches in The
Netherlands: Gespreksnotitie over het Ambt in de oecumenische discussie [Report
on church ministry in ecumenical discussion], Amersfoort, Febr. 2005.
·
Concilium
1969, vol. 43: ‘The
Identity of the Priest’, esp. the contribution of W. Kasper on the
ecclesiological rather than christologcal foundation of office in the church
(pp. 20-33, especially 22-27).
·
Concilium
1972, vol. 80: ‘Office and
Ministry in the Church’, especially A. Lemaire, ‘From Services to Ministries:
Church ministry in the first two centuries’ (pp. 35-49); P. Kearny, ‘New
Testament Incentives for a Different Ecclesial Order’ (esp. pp. 61-63 for
application to the present situation); and P. Fransen, ‘Some Aspects of the
Dogmatization of Office’ (pp. 97-106).
·
Concilium
1980, vol. 133, ‘The Right
of a Commmunity to a Priest’ contains, among other things, reports of
experiences in various countries and a concluding article by Edward
Schillebeeckx o.p., `The Christian Community and its Office-Bearers', 95-133.
·
FitzPatrick
P.J., In Breaking the Bread: The Eucharist and Ritual. Cambridge 1993.
·
Kerk
aan de stadsrand [Church at the periphery of the cities, collected essays]. Bundel bij het afscheid
van Theo van Grunsven in Dukenburg, Nijmegen 2004.
·
Philips,
Mgr. G., De dogmatische constitutie over de kerk [The Dogmatic Constitution on
the Church], Antwerpen 1967.
·
Pohl–Patalans, U., Von der Ortskirche zu kirchlichen Orten, Göttingen, 2004
(cf. Tijdschrift voor Theologie, 2005, nr. 3, 327).
·
Priester für heute: Antworten auf das Schreiben Papst Johannes Pauls II an
die Priester, München 1980, esp. Peter Eicher, `Priester und Laien – im Wesen
verschieden? Zum lehramtlichen Ansatz der notwendigen Kirchen Reform' (34-50).
·
Schillebeeckx o.p., Edward, Ambt in dienst van gemeenteviering. In: Basis en Ambt, Bloemendaal 1979, 43-90
(esp. 78-88) [integrated in the next publication].
·
Id.,
Ministry: A Case for Change / Ministry: Leadership in the Community of Jesus
Christ, London/New York 1981, esp. pp. 88-96 (of orig. Dutch ed.).
·
Id.,
The Church with a Human Face: A New and Expanded Theology of Ministry, New York
1985.
·
Id.,
Theologisch testament, Baarn 1994, vooral 115-117.
·
Schüssler
Fiorenza, Elisabeth, In Memory of Her: A Feminist Theological Reconstruction of
Christian Origins, New York 1983.
·
Tigcheler,
J., Bouwen op het fundament van apostelen en profeten [Building on the
Foundation of Apostles and Prophets]. In: Speling 57, 2005, nr. 4, 15-24.
·
Willems
o.p., Ad, Kerkelijke gemeenschap en kerkelijke leiding in de
Concilieconstitutie over de kerk [Church Community and Church Administration
According to the Constitution Lumen gentium]. In: Tijdschrift voor Theologie 6
(1966), 51-59.
·
Id., Moeten voorgangers `priester' zijn? [Should ministers always be `priests'?] In: Kosmos en Oekumene,
nr.4/5, 1977, 103-108.
·
Id.,
Leiden tot leven: Sacramentaliteit van wijding en aanstelling [The
Sacramentality of Ordination and Appointment]. In: Kerugma, 38, 1995, nr.4, 2-12.
Traduzione a cura
di Stefania SALOMONE e di ADISTA