ASSOCIAZIONE FABIO SASSI ONLUS
Merate, L.go Mandic 1
Hospice di
Airuno, 23 Marzo 2004
don Angelo Casati
Parroco di
S.Giovanni in Laterano, Milano
Dovrei fare innanzitutto una premessa, che è sempre doverosa, ed era un poco sullo sfondo di una mia prima reazione, quando D. mi ha invitato a questo incontro. Dicevo a lui che non mi sentivo competente a parlare di questo tema. Quindi voi non dovete cercare in me la competenza di chi ha riflessioni elaborate. Vi dico dall’inizio questa confessata mia piccolezza che voi perdonerete e alla quale io faccio appello per chiedere che poi, nella riflessione che faremo insieme, voi possiate completare la mia riflessione. Ci saranno buchi in quello che dirò. Insieme potremo meglio completare l’orizzonte di questa mia riflessione. Vorrei anche dirvi che mi sento come uno che ha da imparare da voi, nel senso che questo viaggio, con le persone che vivono la prossimità al morire, voi lo fate molto più spesso di quello che faccio io.
Il titolo dato all’incontro è
“L’accompagnamento spirituale del morente nella prospettiva religiosa
cristiana”. Io vorrei sostare un attimo sulla parola accompagnamento che è una parola di grande fascino perché evoca un accompagnarsi, cioè un farsi compagni di viaggio. E quale viaggio,
quello con chi sta facendo l’ultimo tratto della vita terrena! Accompagnare non
allude a una visita fugace. Non è semplicemente una visita, toccata e fuga, come fanno, a volte, i
Vescovi o i Capi di Stato o il Presidente del Consiglio, quando visitano un
ospedale. Vanno e vengono, vengono e vanno; questo non è accompagnamento.
Accompagnarsi vuol dire fare un pezzo di strada insieme. Ed è reciproco. Anche a questo proposito vorrei superare l’equivoco. Come se io accompagnassi e non fossi a mia volta accompagnato, nel viaggio della vita. Perché anche noi siamo nel viaggio, nel viaggio della vita. E il morente per voi non è una persona astratta, voi avete in mente volti, volti concreti. Il morente non è solo uno a cui prestate una cura, la cura non va in una direzione unica. Voi vi prendete cura di lui, di lei, ma – se il viaggio è vero, se l’accompagnarsi è vero - anche lui/lei si prendono cura di voi, della vostra vita. E’ un prendersi cura reciproco, come evoca la parola com-pagno che vuol dire col-pane, ci dividiamo il pane assieme.
Il titolo parla anche di
un accompagnamento spirituale del
morente, e guardate che spirituale non
è in opposizione a corporeo: ecco
bisogna superare un po’ questo equivoco, ed è bene che ce lo ricordiamo. Non
nel senso dell’opposizione dunque. Noi cristiani avremmo dovuto brillare per
questa convinzione: che spirituale non
è contrario a corporeo; noi invece
abbiamo distinto molto lo spirito dal corpo, con un sospetto sul corpo, quando
invece la nostra fede cristiana parla di un Dio che si è fatto carne. Ecco perché insisto su questo: perché a
volte c’è una spiritualità che pensiamo sia spirituale solo perché è
disincarnata e credo che questo sia un grosso equivoco. Dovremmo stare in
guardia, secondo me, dallo spirituale che
non sfiora il corpo - non è uno spirituale
cristiano – così come da un gesto corporeo che non è abitato dallo spirito.
Quando noi diciamo accompagnamento
spirituale non parliamo di realtà astratte, ma di eventi che passano
attraverso il corpo, lo spirituale passa
attraverso il corpo.
Questo modo di vedere, secondo me, incide sull’accompagnamento che è spirituale nel senso che noi, in questo viaggio, ci scambiamo gli uni gli altri visioni e sensi della vita e della morte, perché tu, nella relazione con l’altro, entri, prima ancora che per quello che dici, per quello che tu sei. Noi entriamo per quello che siamo, con quello che percepiamo o non percepiamo, con quello che abbiamo dentro come visione della vita, del mondo, dell’aldiqua e dell’aldilà.
Io non so darvi, lo confesso, una vera definizione di spirituale. Lo dico molto apertamente. Mi è più facile dirvi che spirituale è, per me, la percezione del mistero, del mistero buono, della presenza dello Spirito di Dio, del Suo soffio che abita la vita, che abita l’altro, che abita me. Questo soffio buono, promettente, questo mistero buono, questa presenza buona che abita le cose, abita le persone, abita la vita. E c’è in ogni uomo, in ogni donna, questo soffio di Dio che ci fa viventi quaggiù e anche oltre.
Voi mi capite, avere occhi per questo mistero buono che ci abita e lasciarci condurre. E’ come vedere che le cose sono abitate. Può essere che qualcuno di voi sia stato a messa la scorsa domenica. Avrà ascoltato il vangelo del cieco, circondato da uomini cosiddetti religiosi che guardavano solo i fatti e non capivano, guardavano i suoi occhi e non capivano, facevano pettegolezzi sui suoi occhi e non capivano che erano occhi abitati dal miracolo: ecco, è questo sguardo profondo, lo spirituale.
Ebbene, vorrei fare un passo avanti: ci sono visioni della vita, spirituali, che custodiscono questo fuoco, il fuoco buono, che è quello che Dio ha messo dentro le sue creature. Mi viene alla memoria una citazione che mi ha fatto conoscere una mia amica, tratta dal libro di un rabbino che scrive sul problema del dolore e del male e cita un poeta che dice – perdonate la citazione a senso - “le candele sono spente, le chiese sono buie, soffia sulla brace del tuo cuore e noi vedremo”. Quando D. mi ha chiesto di venire qui, ho pensato che poteva essere bella e vera l’immagine di voi che soffiate sulla brace del vostro cuore e del cuore di quelli che fanno questo viaggio con voi. Soffia sulla brace del tuo cuore, su questo mistero che ci abita.
Ci sono visioni della vita “spirituale” che custodiscono il fuoco della brace e ci sono visioni che lo soffocano, visioni “spirituali” che, anziché soffiare sulla brace del cuore, sono come un gelo sulla brace del cuore. Modi di vedere lo spirituale che andrebbero da noi evitati, da cui stare lontani, perché, anziché soffiare sulla brace, spengono la brace. Quali sono queste visioni che appesantiscono o asfissiano, anziché dare fiato? Ve ne propongo alcune.
Ad esempio, una visione della vita come perfezione, una visione oggi esibita dai media: la vita deve essere bella, perfetta, intelligente, ricca di successo, la vita conta se è così. Questo su un versante più laico. Sul versante religioso, asfissiante è la convinzione che siamo salvi per la nostra perfezione religiosa. Questo mito della perfezione secondo me è distruttivo. E’ un mito che spegne la brace; soprattutto quando tu sei verso la fine della vita e ti viene spontaneo, forse, fare dei bilanci. Se tu ti confronti con questo mito dell’eccellenza e non accetti, invece, che la nostra vita è fatta di fragilità, di debolezza, di misure limitate - questa è la vita - sentirai alla fine un senso devastante di frustrazione, l’angoscia di non aver raggiunto quella perfezione che, nella tua visione anziché essere indicazione di una meta era macigno che stritola.
Quando noi parliamo con gli altri, possiamo trasmettere anche inconsciamente questo mito della perfezione e ucciderli. Uccidere la loro fiducia, stroncarli. Come una doccia d’acqua sulla brace, che la spegne. Bisogna, quando accompagniamo gli altri, essere riconciliati, noi stessi per primi, con questa misura debole che ci appartiene, nella convinzione che noi contiamo, la vita conta, anche se ci appartiene questa debolezza, questa fragilità.
Un’altra visione che, secondo me, è asfissiante, cioè toglie calore alla brace, è quella di chi fa i bilanci, alla luce, come diceva D. poco fa, di un Dio giudice spietato, senza pietas, senza misericordia. Ma chi di noi conosce i segreti del cuore, le germinazioni nascoste, i fili invisibili? Solo Dio conosce il cuore dell’uomo. Il Vangelo dovrebbe averci liberato da questi incubi, con l’annuncio di un Dio che è gratuità. Dio è gratuità. Noi non siamo chiamati a pareggiare i conti con Dio, nessuno va alla morte nell’illusione di aver pareggiato i conti con Dio, nessuno dovrebbe andare alla morte con questa ossessione, se non per una cattiva interpretazione della fede,. Su questo nostro conto che è in rosso, il Signore a pareggio dei conti scriverà la parola misericordia. Non so se da qualcuno vi è stato mai riferito un raccontino ebraico che parla di Dio che crea il mondo con le sue mani, questo mondo di argilla; lo costruisce e l'argilla si sfascia, si spappola, cade una volta, si sbriciola due, si sfarina, tre, sei volte si sfarina. Così non sta in piedi. Allora Dio crea la Misericordia e il mondo sta in piedi: noi stiamo in piedi per misericordia. E’ questo quello che ci permette di andare incontro agli ultimi giorni con fiducia: Dio, sui nostri conti in rosso, scrive la parola misericordia.
Invece, molti preti ti angosciano. Ricordo che Arturo Paoli, non so se alcuni di voi lo conoscono, anni fa, quando ero a Lecco, mi raccontava una mattina, mentre facevamo colazione, che alcuni mesi prima si era trovato in un problema di salute abbastanza serio ed era andato a confessarsi, ma quel prete, diceva, gli mise addosso un’angoscia tale che, tornato a casa, si sentì di inventarsi una parabola. La parabola che si inventò fu questa: viene un tuo amico di notte, bussa, sei a letto. Tu allora cosa fai? Gli dici “aspetta, vado in bagno, mi lavo, mi profumo, mi vesto”, oppure ti butti giù dalle scale, così come sei e dici “guarda, sono conciato, sono messo male, ma è tanta la gioia che ho di abbracciarti!” Così con Dio: è tanta la voglia di abbracciarti, che tu mi prenderai così come sono. Questa visione ci porta con maggior pace negli ultimi giorni. Questa visione serena noi la trasmettiamo agli altri se l’abbiamo dentro di noi. Altrimenti andiamo ad angosciare gli altri, come fanno certi preti di cui parlava Arturo Paoli.
Un’altra visione spirituale che getta acqua sulla brace è quella di una fede che è risposta a tutto: noi abbiamo la fede, e con la fede abbiamo una risposta a tutto. Se questa è la tua convinzione, in assenza di una risposta, tu vai in crisi, stai male. Noi non abbiamo una risposta da dare a tutto, neanche agli interrogativi delle persone che noi accompagniamo, con cui ci accompagniamo nel viaggio. A volte il peso della domanda è enorme e noi non possiamo fare altro che sostenere insieme il peso di una domanda che non ha risposte umane, stare insieme e sostenere il peso drammatico di questa domanda. Ricorderò sempre l’esperienza, che mi capitò di vivere quando per cinque anni svolsi il mio ministero pastorale a Busto Arsizio, l’esperienza di un ragazzino, si chiamava Silvio, 13 anni, aveva un tumore che gli inghiottiva l’occhio, con una massa enorme che deformava il volto; lui si teneva il volto bendato, lo sbendava solo in presenza di amici. Un giorno mi disse: “ma, don Angelo, tu dici che Dio mi vuol portare al punto che quando morirò avranno paura di guardarmi?”. Ecco, rispondete voi alla domanda! C’è solo da star vicino e insieme sostenere questa domanda che non ha risposte umane. Troppo facili le consolazioni religiose. Qualcuno di voi ricorderà la domanda di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Ditemi se Gesù non aveva fede!.
Questo spirituale di cui stiamo parlando è uno spirituale che non aiuta. Non ci aiuta la visione spirituale che mette tutto sotto il titolo “è la volontà di Dio”. Guardate che spesso usiamo questa parola, volontà di Dio, in modo blasfemo. Come se Dio volesse che tu, Silvio, abbia una faccia così. Ma che Dio è questo se vuole che un suo figlio abbia una faccia così? Allora guardiamoci dal dire disinvoltamente: “è volontà di Dio”. Non è volontà di Dio la morte del suo figlio sulla croce. Volete che un Dio voglia la morte di un figlio sulla croce?
Che cosa è volontà di Dio è scritto. E’ scritto nel Vangelo: “questa è la volontà del Padre mio, che nessuno si perda e io lo risusciti nell’ultimo giorno”, questa è la volontà di Dio. Forse questo potremmo scrivere sulla parete di una camera: Questa è’ volontà di Dio, che nessuno si perda e io lo risusciti nell’ultimo giorno! E’ questa la verità che mi fa sperare. Non so se qualcuno di voi ricorda, quando Papa Giovanni stava morendo, ai piedi del letto c’era suo nipote Saverio. A un certo punto, Papa Giovanni gli disse: “Saverio, togliti da dove sei perché mi copri il Crocefisso”. Era come se dicesse: “se tu mi copri il Crocefisso, mi copri l’immagine di colui che non perde nessuno.” Io ho bisogno di sapere che non mi sta perdendo, che niente e nessuno mi può strappare dalle sue mani. Lasciamelo vedere, perché così io possa andare anche incontro alla morte senza paura.
Vi parlavo delle false spiritualità, uno “spirituale” che è un falso spirituale che spegne la brace del fuoco, la brace del fuoco del cuore. E allora positivamente bisognerebbe proprio partire da questa immagine di Papa Giovanni che guarda e vuole che non si copra il Crocefisso. Bisognerebbe proprio cominciare dicendo che, a volte, quando noi accompagniamo qualcuno, ci preoccupiamo di cosa dovremmo dire, in questo tratto così importante, decisivo, difficile. Ecco, io ho molta paura di questa riduzione della testimonianza cristiana a parole, della preoccupazione di dover dire delle parole, molta paura; perché vedo una deriva triste del cristianesimo, ridotto a dire, ridotto a parole. Se permettete, vi leggo questa frase bellissima, una delle frasi che mi piacciono molto del poeta e filosofo francese Christian Bobin che dice: “la verità è ciò che arde, la verità non è tanto nelle parole ma negli occhi, nelle mani, nel silenzio. La verità sono occhi e mani che ardono nel silenzio”. Che cosa dovremo dire? Preoccupiamoci degli occhi e delle mani. Che cosa passa nei tuoi occhi, che cosa passa nelle tue mani? Questo è quello di cui dobbiamo preoccuparci.
Questi invece i verbi positivi dell’accompagnarsi che ci vengono in mente: anzitutto, un verbo: accoglierci, accogliere. In una domenica dell’anno liturgico, noi leggiamo un brano di vangelo in cui si parla di Gesù e il brano, secondo la lettura che facciamo nelle chiese, inizia: “Gesù parlava alle folle del Regno di Dio”. Ma hanno cancellato il verbo accogliendo: “Accogliendo, parlava alle folle del Regno di Dio.” E’ grave questo averlo cancellato, perché Gesù, prima ancora di parlare alle folle, aveva già detto alla gente cos’era il Regno di Dio, l’aveva detto accogliendola. Nel gesto dell’accoglienza le folle avevano capito cos’era il Regno di Dio. Ecco, se intorno a sé i malati trovano questa accoglienza buona, proprio qui, nel vostro Hospice, in queste camere, c’è un brandello del Regno di Dio, e c’è perché c’è la vostra accoglienza; già l’accogliere porta il regno di Dio dentro queste camere. Nei vostri occhi i morenti vedono un aldilà, anche perché i loro occhi hanno una profondità particolare per vedere, una capacità fatta acuta dal soffrire.
Il verbo accogliere. E poi i verbi ascoltare, toccare. Noi abbiamo privilegiato, quasi assolutizzato, la comunicazione verbale, le parole, a scapito della comunicazione corporea. La comunicazione corporea è meno sospetta, perché possiamo meno imbrogliare col corpo, con le parole possiamo imbrogliare tanto. Quelle mani che tengono le mani comunicano, è comunicazione. Ecco, chi muore sente che ci sono mani a cui può affidarsi, quelle mani sono sicurezza per un affidamento, quelle mani sono segno di altre Mani.
Possono venire poi anche le parole, non dico che non dobbiamo parlare, ma anche per la parola c’è un tempo opportuno e un tempo non opportuno. Dice la Bibbia (Qoeleth): “C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere”. Non è sempre facile capire per chi accompagna, quando è il tempo di parlare e quando è il tempo di tacere, il tempo, per esempio, in cui misurare, sul volto dell’altro, se ha la possibilità di sostenere le parole che tu stai dicendo, misurare il peso sulle spalle dell’altro.
A volte, c’è come l’ansia di dire tutto. Succede spesso da parte di noi credenti: bisogna dare i sacramenti, l’unzione degli infermi. Ma, misuriamo che cosa un gesto evoca nel cuore dell’altro? E’ questo che ci interessa, che si apra il cuore dell’altro. Che cosa può aprirlo, che cosa può chiuderlo? Se l’immagine del sacramento svela più l’immagine della morte che non l’immagine delle braccia accoglienti di Dio, fermiamoci - spero di non scandalizzare nessuno - fermiamoci. Se il mormorare insieme una preghiera apre di più alle braccia accoglienti di Dio, mormoriamo una preghiera, vale più di un sacramento, se questo sacramento è passato con un immaginario di paura.
Ricordo che, un paio di mesi fa, ero andato a trovare Anna, che stava morendo, una donna della nostra parrocchia, una nostra amica che partecipava alla nostre letture della Bibbia. Sua cognata era preoccupata che le fosse data l’estrema unzione. Le dissi: “Parliamo prima con lei”. La guardai, mi disse “sai, don Angelo, non riesco a pregare, faccio fatica a pregare”. Le dissi: “Ma, sai, non devi dire delle grandi preghiere. Non dobbiamo pregare a furia di parole, così diceva Gesù. Puoi anche non aprire bocca; tu ti senti guardata, Dio ti guarda. Poi le dissi: Lui ha detto: “Nessuno può strapparvi dalle mie mani”. Tu puoi pensare anche solo questa cosa: “Nessuno può strapparti dalle mie mani.” Poi le dissi: “potremmo dire il Padre Nostro”. Pregammo con il Padre Nostro, adagio. Dare il sacramento, con l’immagine del sacramento che ancora ci perseguita era soffiare sulla brace o spegnere la brace? Di’ la parola, mormora la preghiera che apre, soffia sulla brace: è questo che ci interessa, no? Nella misura, la misura giusta per questa persona, questo è quello che ci interessa. Vi dirò che, ricordando queste cose, mi è venuto spontaneo pensare a Gesù, perché anche lui ha percorso questo tratto del cammino, perché anche lui è stato nel viaggio di chi è morente, vicino alla morte, e anche lui ha sentito sulla sua pelle questa duplicità che ha la morte, anche per uno che crede – perché, chi più di lui ha creduto!? La morte è anche la sorella morte, come diceva San Francesco, ha sì il volto della sorella, ma, a volte, ha anche il volto del nemico: la morte che strappa. Non pensiamo di essere migliori di Gesù, noi! Un po’ di misura! Non saremo meglio di lui, noi. Noi immuni dal percepire che la morte, a volte, ha anche il volto del nemico? Ecco, sarebbe interessante approfondire questo mistero dell’esperienza del morire da parte di Gesù. Io vi lascio solo degli accenni, perché non abbiamo tempo per approfondire. Semplici suggestioni su cui magari ritornare.
Ricordo, per esempio, che
nel Vangelo di Giovanni, al cap. 12, si parla dei Greci che vanno a
trovare Gesù. Gli dicono: “Guarda, sono venuti dei Greci a cercarti”. Il fatto
che lo cercassero ha fatto sì che Gesù si chiedesse che cosa potevano vedere di
lui, se non un piccolo chicco di grano che stava per cadere nella terra. E Gesù continua dicendo: “Ora l’anima mia è turbata. Padre salvami da
quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora. Padre glorifica il tuo
figlio.” Gesù stesso è turbato.
Dunque se uno è turbato, non è che non ha fede. Che cosa chiede Gesù? Piccolo chicco di grano che sta per cadere
nella terra, chiede solo che il chicco ritorni a germogliare, che il Padre lo
glorifichi. La gloria di Dio non è l’uomo che muore. L’uomo che muore non gli
dà gloria, gloria di Dio è l’uomo che vive. Glorifica,
dice Gesù, tuo figlio.
Anche lui era turbato, Gesù stava per morire, sentiva vicina la sua ora, come le persone che noi accompagniamo. Il cerchio si stringeva. E voi leggete che Gesù, le sere prima che il cerchio si chiudesse e lo soffocasse, va a dormire a casa dei suoi amici. Aveva bisogno di una casa. Lui che diceva “Il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, ha bisogno di una casa. Ecco, l’aria di casa del vostro Hospice è importantissima. Abbiamo bisogno di una casa. Gesù ha avuto bisogno di una casa, di amici. E, un giorno, in una di queste case di amici, voi lo sapete, ci fu una donna che capì il suo segreto, capì che quel suo amico stava per andare a morire. Gli altri facevano discussioni tra di loro e le discussioni divennero ancora più irritanti, più disgustose, quando questa donna prese un vaso di profumo preziosissimo - il costo di un anno di lavoro – e lo versò sul suo amico, lo unse, lo profumò. Gesù disse: “Questa donna l’ha fatto per la mia sepoltura.” Gli altri non capivano niente, parlavano di quanto costava, di quanto si sarebbe potuto guadagnare se si fosse venduto. Lui andava a morire e quelli parlavano di queste cose, non capivano il suo segreto. La donna capì il suo segreto, le sue mani lo unsero, quelle mani lo aiutarono a trovare il coraggio di andare a morire, quelle mani.
Voi ricordate anche che Gesù la vigilia di morire si recò nell’orto degli ulivi; e anche lui, lui il figlio di Dio, lui dalla fede fortissima cominciò a provare spavento, angoscia. Prese con sè tre amici e se li portò vicino. Disse loro: ”State svegli, vegliate con me, pregate”; poi li trovò che dormivano, li rimproverò perché dormivano. Aveva bisogno che ci fossero, che fossero presenti. Ecco, questa presenza, questa vicinanza è ciò che dà forza perché tu possa arrivare fino alla fine.
Avrei voluto dirvi altre cose, ma insisto a dire che lo spirituale è dentro gesti corporei. Per me, sacramento sono quelle mani, sono un segno, buono, di Dio; sacramento è quello sguardo, sacramento è quella casa. E’ sacramento di Dio, c’è Dio. Ecco è dentro queste cose, abita anche questo luogo, passa di qui il segno di Dio. Gesù ci parlava dell’aldilà raccontando di mani che ci accoglieranno, le mani del Padre; ecco, le tue mani sono il preludio, fanno percepire le altre mani, la tua accoglienza fa percepire l’altra accoglienza, la tua casa fa percepire l’altra casa, c’è calore, come di là. Bisogna legare insieme questa terra e l’altra, non bisogna disgiungere; la religione è legare, non separare.
Avevo pensato di aggiungere, qualcosa sull’accompagnamento spirituale, da parte dei “miscredenti”. Vi rimando a un articolo scritto qualche anno fa; l’ho portato, se lo vorrete, lo potrete leggere. Ho assistito anni fa a un accompagnamento spirituale da parte di “miscredenti” che mi ha molto sorpreso, colpito, affascinato; accompagnamento di una nostra amica che era in fin di vita all’Istituto dei Tumori a Milano. Lei era credente, però aveva un folto gruppo di amici cosiddetti miscredenti. Ebbene io non ho mai trovato, quasi mai trovato, tanta serenità vicino a una persona che muore, come vicino al letto di Antonella. I suoi amici le avevano creato questo ambiente pieno di gentilezza, di serenità. C’era sempre qualcuno di loro, a farla sorridere, a parlarle, a stringerle la mano, a coccolarla, fino all’ultimo. Noi, al contrario, a volte agitiamo la fede come paura; là si respirava questa serenità, questa pace: lei non capiva più niente, ma loro continuavano a parlarle, le stringevano la mano.
Oggi è venuta da me una ragazza a dirmi che era morto suo padre. Si è molto commossa nel raccontarmi quando mi disse: “Sai, eravamo in clinica e ho chiesto all’infermiera se secondo lei mio padre capiva. L’infermiera mi rispose che secondo lei i morenti ancora capiscono. Allora ho ripreso forza e ho detto: ‘Papà, guarda che alla mamma ci pensiamo noi due, io e Andrea, non preoccuparti’. E il papà è morto, come se aspettasse che io gli dicessi: ‘stai tranquillo, ci pensiamo noi’”. Come ha fatto Gesù sulla croce. Come se anche lui non potesse morire se non dopo aver affidato: “Giovanni, ecco tua madre, Maria, ecco tuo figlio”. Ecco di che cosa c’è bisogno per dare serenità a un morente. F. ha intuito che in questo modo avrebbe potuto dare serenità al suo papà. Solo così il papà se ne sarebbe andato in pace.
Contemplando la serenità che si respirava nella camera di Antonella e poi facendo la strada verso casa, mi dicevo “guarda i ‘miscredenti’ che cosa sanno fare, quale serenità sanno creare”. Pochi giorni dopo, il giorno in cui celebrammo una Messa per Antonella, li vidi arrivare tutti. Mi dissero: “Oggi Antonella avrà proprio sorriso. Avrà detto: voi ‘miscredenti’ vi ho portato tutti qui in chiesa” e sorridevano tutti, anche loro. Ho capito allora che lo spirituale, forse, non è così ristretto dentro i confini che fissiamo noi. Forse trasborda, è molto al di là di quello che a volte noi immaginiamo.
(Testo audio-registrato, trascritto a cura di Chiara e Domenico Basile, rivisto dall’Autore 30.03.04)