I VESCOVI AD
APARECIDA: CI FU VIOLENZA NELL'EVANGELIZZAZIONE.
MA, PER ALCUNI, GLI INDIGENI SONO DEGLI INGRATI
DOC-1864. APARECIDA-ADISTA.
Non saranno dimenticate facilmente le parole con cui Benedetto XVI, nel discorso
inaugurale della V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, ha negato l’imposizione violenta del cristianesimo in epoca
coloniale, definendo per di più “un’involuzione” l’attuale processo di recupero
delle religioni precolombiane (v. Adista n. 38/07). È
giunta, è vero, nell’udienza generale del 23 maggio (v. Adista
n. 39/07), la parziale retromarcia del papa, con il riconoscimento delle
“sofferenze ed ingiustizie inflitte dai colonizzatori alle popolazioni
indigene” (riconoscimento che sorvola chiaramente sulle precise responsabilità
della Chiesa), ma essa non è bastata a dissolvere l’impressione negativa
lasciata da quella che Ettore Masina
definisce, nell’intervento che riportiamo di seguito, una “Ratisbona
tropicale” (in riferimento all’altra grave offesa, in
quel caso all’Islam, contenuta nello “sciagurato discorso di Ratisbona”).
Alle parole del papa nel discorso inaugurale non era peraltro seguita una presa
di distanza da parte dei vescovi, che, anzi, avevano espresso generale
apprezzamento per il discorso, spiegando, semmai, che Ratzinger
non intendeva affatto dire quello che aveva detto, a dimostrazione che, come ha
ironicamente sottolineato il pastore battista Harold Segura, per i vescovi
riuniti ad Aparecida “il papa non sbaglia neanche
quando sbaglia”.
Il papa non sbaglia, gli indigeni sì
A sbagliare, per alcuni vescovi, sono stati al contrario i leader indigeni
dell’Ecuador che, alle affermazioni del papa, avevano
risposto con un duro e indignato comunicato (v. ancora Adista
n. 38/07). Secondo il presidente della Conferenza episcopale ecuadoriana, mons. Néstor Herrera, la risposta dei leader indigeni,
infatti, “dà l’impressione che si voglia dimenticare
che è stata la Chiesa cattolica a dare impulso alla loro liberazione. Questo è
molto chiaro in Ecuador. Non solo perché molti membri della
Chiesa hanno difeso, con monsignor Proaño, il diritto
dei popoli indigeni ad essere padroni del proprio destino”, ma “anche perché le
attuali dirigenze sociali e politiche degli indigeni sono state formate dalla
Chiesa. E sono state lealmente appoggiate in
occasione dei 500 anni della loro resistenza. Sul piano storico concreto – ha proseguito il vescovo – lo stesso Santo Padre ha
deplorato molte volte le ombre e le ingiustizie del passato. Ma
in ogni caso si è giunti alla ‘ricchezza di diversità’
aperta all’autentico progresso. Non possiamo soffermarci solo sulle ombre. Vi
sono molte più luci che ombre dall’inizio dell’evangelizzazione
in America, dove l’autentico senso cristiano ha portato alla prima e costante
difesa degli indigeni”. Ma alle critiche dei vescovi i
leader indigeni ecuadoriani hanno risposto con un nuovo, e altrettanto
indignato, comunicato (che riportiamo anch’esso qui di seguito).
Tutti contro Chávez
A criticare il papa era stato anche il presidente
venezuelano Hugo Chávez,
che peraltro era stato chiamato in causa esplicitamente dal segretario di Stato
vaticano card. Tarcisio Bertone (a
proposito delle preoccupazioni della Santa Sede per la comparsa di “governi
autoritari in America Latina, come il Venezuela”) e implicitamente dallo stesso
papa (in riferimento a “forme di governo autoritarie o soggette a certe
ideologie che si credevano superate”), e che ha continuato ad essere oggetto di
critiche anche durante i lavori della Conferenza, per esempio nel discorso del
presidente della Conferenza episcopale venezuelana, mons. Ubaldo Santana Sequera, che ha denunciato “modelli
nazionalisti dal forte tratto messianico e populista” (per non parlare delle
affermazioni del vescovo venezuelano mons.
Baltazar Porras
che, in un’intervista, ha paragonato Chávez a Hitler e Mussolini). “Come può
dire il papa che l’evangelizzazione non fu un’imposizione?”, ha dichiarato il
presidente del Venezuela, aggiungendo che “nessuno” può “venire qui, nella nostra terra, a negare l’olocausto aborigeno” ed
esortando Ratzinger “a chiedere scusa ai popoli della
nostra America”.
Così ha commentato la vicenda il teologo argentino Eduardo de la Serna,
di Amerindia (il gruppo di
teologi della liberazione che ad Aparecida ha svolto
un importante ruolo di supporto a diversi vescovi), in una delle sue, peraltro
molto acute e puntuali, “cronache da Aparecida”,
pubblicate dal Colectivo Alas: “Con il
tema indigeno - scrive de la Serna - è sorto un
problema. Come chiedere perdono senza delegittimare il papa? A peggiorare le
cose se ne è uscito Chávez,
dicendo che il papa deve chiedere perdono agli indigeni: ora la cosa più
probabile è che i vescovi non dicano nulla. (…) . Una volta ancora, un
intervento di Chávez serve a frenare lotte legittime
in nome di queste lotte. Sempre più mi sovviene quello che diceva Pedro Trigo (teologo venezuelano,
ndr)
su Chávez come alleato di Bush,
al quale egli sembra dire ‘non guardare la mia bocca, guarda la mia mano’”. Che un attacco così duro al presidente del
Venezuela venga da teologi che si richiamano alla Teologia della Liberazione è
già motivo di sorpresa (soprattutto considerando i riconoscimenti alla
rivoluzione bolivariana da parte di
altri teologi della liberazione, alcuni dei quali addirittura invitati
dal governo come osservatori indipendenti durante l’ultimo processo elettorale
in Venezuela), ma desta ancora più meraviglia il fatto di pretendere che Chávez subordini i suoi interventi ai delicati equilibri
interni all’episcopato.
Il peccato dei figli della Chiesa
Di certo, il dietrofront di Benedetto XVI nell’udienza generale del 23 maggio
ha tolto le castagne dal fuoco ai vescovi riuniti ad Aparecida
che, tanto nella prima come nella seconda (con correzioni ininfluenti)
redazione del Documento finale (in attesa di poter valutare
eventuali ulteriori correzioni nella versione definitiva), possono affrontare
il tema andando anche oltre le parole – regolarmente citate – della
“retromarcia” del papa. “Il Vangelo - scrivono - è arrivato nelle nostre terre
in mezzo a un drammatico e diseguale incontro di
popoli e culture. Le ‘sementi del Verbo’ (cfr n. 401 Puebla) presenti nelle culture autoctone hanno fatto loro trovare
nel Vangelo risposte vitali alle loro aspirazioni più profonde: ‘Cristo era il
Salvatore a cui anelavano silenziosamente’ (Benedetto
XVI, Discorso Inaugurale della V Conferenza,
Aparecida, n.1). (...)
Dalla prima evangelizzazione fino ai tempi recenti, la Chiesa ha sperimentato
luci e ombre [seguono qui in nota le parole di Benedetto all’udienza del 23
maggio]. Ha scritto pagine della nostra storia di grande
saggezza e santità. Ha sofferto anche tempi difficili, tanto per attacchi e
persecuzioni, quanto per le debolezze, i compromessi mondani e le incoerenze,
per il peccato dei suoi figli, che hanno offuscato la novità del Vangelo, la
luminosità della verità e la pratica della giustizia e della carità. Tuttavia,
la cosa più decisiva nella Chiesa è sempre l’azione santa del suo Signore”.
Sempre riguardo alla questione dei popoli indigeni, va segnalata anche la
“Proposta di pastorale indigena latinoamericana” presentata da mons. Felipe Arizmendi, vescovo di San Cristóbal de Las Casas, la
diocesi colpita dalla contestatissima decisione
vaticana di sospendere a tempo indeterminato l’ordinazione di diaconi indigeni
(v. Adista nn. 24, 30, 34 e 70/06 e 22/07). La riportiamo qui di seguito, seguita dal comunicato della Confederazione dei
popoli di nazionalità kichwa dell’Ecuador e dal
commento di Ettore Masina. (claudia fanti)