Prima della nomina di Benedetto XVI, il movimento "We Are Church" (Noi Siamo Chiesa) ha invitato quattro autorevoli/e  teologi/ghe di diversi continenti (T. Balasuriya, P. Collins, J. Chittister, A. Valerio) a illustrare  in tre conferenze stampa i problemi che il nuovo papa dovrà affrontare.

 

Vi hanno partecipato testate giornalistiche, agenzie stampa e radiotelevisioni provenienti dai cinque continenti. Molti di questi media hanno intervistato i relatori e i responsabili del movimento anche dopo la nomina del papa, tale è stato l'interesse per la complessa realtà della Chiesa cattolica. Di seguito alcuni partecipanti:

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A continuazione la relazione tenuta dalla teologa A. Valerio su di un tema molto dibattuto: quello della donna

Verso un nuovo Concilio: la questione di genere

Adriana Valerio

 

 

E’ indubbio che il Concilio Vaticano II ha rappresentato una svolta nella storia della Chiesa cattolica anche per ciò che concerne la questione femminile, soprattutto per le nuove modalità adoperate nel relazionarsi con quelle problematiche che il movimento delle donne andava ponendo alla società ormai da oltre un secolo. Se Giovanni XXIII aveva già indicato come "segno dei tempi" la necessità dell’ingresso della donna nella vita pubblica (Pacem in terris,1963), riconoscendo pubblicamente le conquiste sociali conseguite negli ultimi decenni, il Concilio Vaticano II avrebbe esplicitato tale apertura nella Gaudium et Spes, dove si affermava l’ "uguaglianza sostanziale dell’uomo e della donna" (GS 49), nonché il dovere di tutti a "far sì che la partecipazione propria e necessaria delle donne nella vita culturale sia riconosciuta e promossa" (GS 60). Ciò avveniva all’interno di una nuova e positiva considerazione dei laici, non più inseriti in una Chiesa intesa come "società gerarchica di ineguali", bensì valorizzati all’interno di una Chiesa intesa come comunionalità di un popolo di Dio in cammino.

Negli anni che seguirono il Concilio abbiamo assistito a momenti alterni nei quali il Magistero, tra aperture e chiusure, ha mostrato difficoltà ad assumere le richieste delle donne, pur iniziando a parlane il linguaggio mutuato dal pensiero femminile e dalla cosiddetta filosofia della differenza.

Parimenti, il pontificato di Giovanni Paolo II non è stato esente da contraddizioni, dovute tanto alla mancata attuazione dei presupposti teorici di piena e uguale dignità tra i due sessi, quanto a sue oscillazioni tra le posizioni rigidamente legate alla tradizione di stampo aristotelico-tomista e quelle più aperte, ispirate dall’antropologia dell’umanesimo cristiano. Se Giovanni Paolo II ha riconosciuto la necessità di superare le discriminazioni nel campo del lavoro e della cultura, nello stesso tempo ha rafforzato il ruolo materno ed educativo delle donne, sia pure in senso ampio, chiedendo loro di farsi educatrici di pace e di schierarsi dalla parte della vita. Purtroppo all’alta dignità riservata alla donna, della quale riconosce "il genio", non ha affiancato un’altrettanto reale riconoscimento di ruoli e responsabilità. La mia impressione è che in questo pontificato la donna valga molto ma conti poco.

Il 2 ottobre 1994, durante i lavori del sinodo dei vescovi su "La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo", era emerso come la donna consacrata vivesse una condizione di marginalità. Un gruppo di suore, attraverso la voce di Clara Sietman, superiora generale delle Missionarie del Sacro Cuore, aveva chiesto che alle religiose fosse consentito ricoprire incarichi decisionali in seno alle congregazioni, rivendicando stipendi adeguati ed una presenza equa ed effettiva delle donne consacrate nei campi pastorale e decisionale (anche per quanto riguardava la pianificazione di strategie ed il potere decisionale, tanto a livello locale quanto universale), fino a raggiungere gli organismi ufficiali della Curia romana, all’interno della quale chiedeva che le donne fossero ammesse a ricoprire posizioni di responsabilità. Al dibattito sollevato dalle religiose si aggiungeva il pensiero di mons. Kombo, vescovo congolese, che chiedeva che le donne potessero diventare cardinali-laici, non essendo l’istituto del il cardinalato di origine apostolica, né tanto meno legato al ministero sacerdotale.

Sono passati quasi 10 anni da quelle inascoltate richieste, dieci anni trascorsi in un clima di silenzio ed intimidazione, che hanno grandemente pesato sulla libertà di pensiero, di ricerca e di parola all’interno della Chiesa Cattolica, rendendo difficile, se non impossibile, la possibilità di instaurare un concreto e costruttivo dialogo. Le donne sono state, così, ridotte al silenzio e alla invisibilità

La questione femminile si rivela centrale e niente affatto marginale per la credibilità della Chiesa stessa. Il nuovo papa non potrà non affrontare e sciogliere le questioni ancora aperte; egli è chiamato ad avviare una serie di riforme, quali:

1.     L’elaborazione di una nuova antropologia che rispetti l’uguaglianza dei due sessi nella condivisione e nella responsabilità: una Antropologia di partnerschip (corresponsabilità), che affermi il principio di dualità contro l’attuale androcetrico monismo gerarchico.

2.     La revisione dei fondamenti delle discipline teologiche, affinché vengano egualmente rispettate le dignità del maschile e del femminile: Dogmatica (la questione del loro essere "immagine di Dio"), Esegesi biblica, Mariologia, Liturgia (introduzione del linguaggio inclusivo), Storia, Morale (si pensi, ad esempio, ai campi della morale sessuale, della contraccezione, della bioetica), Diritto Canonico.

3.     L’apertura all’insegnamento e alla riflessione teologica portata avanti dalle donne. Affermare il "genio femminile" significa valorizzare l’apporto che le donne hanno dato alla costruzione del cristianesimo, relativamente alla storia della spiritualità e della pietà, al ruolo che hanno svolto nelle istituzioni monastiche, al loro contributo nella riflessione teologica, consentendo loro di entrare nel circuito accademico e pastorale, Significa, altresì, prendere in considerazione il lavoro di ricerca portato avanti dalle donne -all’interno della sempre nuova costruzione del sapere teologico- rivedendo i libri di testo adottati nelle Facoltà teologiche ed incrementando le possibilità di ricerca e di insegnamento per esse attraverso l’offerta di spazi significativi di ricerca, docenza e dirigenza.

4.     La rilettura e la vivificazione del concetto di ministerialità. Occorre valorizzare la donna nei suoi ruoli ministeriali. I ministeri vanno dunque considerati nelle loro molteplici articolazioni non solo recuperando per le donne quegli spazi e quei ruoli specifici che originariamente ebbero all’interno della chiesa primitiva (discepolato, apostolato, diaconato, profezia, missonarietà…), ma anche creandone di nuovi, nel quadro di una pastorale comunitaria rinnovata: non in supplenza di una eventuale deficienza di personale maschile, bensì come servizio necessario alla comunità. Tutto ciò in vista di una trasformazione istituzionale che renda possibile l’esercizio del ministero tanto da parte degli uomini quanto delle donne. Va inoltre sottolineato come la recente, profonda trasformazione del ruolo assunto dalle donne esiga l’ammissione di esse al ministero ordinato (ordine sacro), nei riguardi della quale non sussistono sono serie e fondate obiezioni teologiche. Nessun ministero è incompatibile con la femminilità (così come Dio stesso).

5.     La revisione delle strutture di governo della Chiesa. Attualmente, la donna si vede esclusa da tutti gli organi di governo. Tutti gli uffici ecclesiastici che comportino l’esercizio di potere decisionale continuano ancora ad essere affidati ai chierici, cioè agli uomini, dalle funzioni direttive delle Congregazioni ai Dicasteri, al servizio diplomatico. Bisognerebbe al contrario che le donne fossero rappresentate in tutti gli organi deliberativi: a livello diocesano e parrocchiale, a livello conciliare e sinodale, e relativamente a tutti gli ambiti che regolano la vita morale e pastorale della Chiesa. Posto che la presenza delle donne all’interno della struttura ecclesiale si dimostrerebbe oltremodo preziosa, occorre facilitarne l’accesso alle posizioni decisionali, aprendo nuovi spazi di corresponsabilità operativa. Riconoscere la dignità e l’autorevolezza della persona umana significa, infatti, rendere questa partecipe dei processi decisionali. Il "modello inclusivo di partecipazione" e l’"ethos di uguaglianza" non escludono l’esercizio dell’autorità-servizio, anzi lo esigono! Pertanto, il negare alla donna l’esercizio di governo e la responsabilità etica, significa relegarla nella non-visibilità, in una sorta di minorità che richiede, per esistere, la presenza di una mediazione maschile che controlli, approvi, giudichi, diriga.