59° Corso di studi cristiani

Un vangelo post-cristiano

confronto fra Enzo Bianchi, monaco, e Giacomo Marramao, filosofo, coordinato da Raffaele Luise, giornalista


da "Rocca", anno 60, 4 ottobre 2001

Raffaele Luise

Faccio una premessa in qualche modo concordata sia con Marramao che con Bianchi, prima di cominciare con le domande. Che cosa significa Vangelo post-religioso? Si tratta in definitiva del Vangelo che reagisce al Vangelo della cristianitas, al sistema cioè, di cristianità che dal Medio Evo a pochi decenni fa ha fatto diventare il Vangelo instrumentum regni, una sorta di grande manuale onnicomprensivo che fondava la legittimità dell’impero, della vita delle nazioni e della sfera del politico fino ai decenni passati del collateralismo.

Un gran libro come una sorta di vademecum del sapere scientifico, vedi il caso Galilei, suprema fonte di autorità dell’etica, della filosofia, dell’arte etc..., una millenaria sedimentazione di potere, di normatività giuridica che come un sudario di cemento armato ha finito per emarginare e quasi soffocare la libertà, lo spirito, la creatività e la profezia dell’Evangelo e che ha portato ad una chiesa, diceva don Benedetto Calati, il generale profeta dei camaldolesi morto lo scorso anno, a una chiesa ridotta a puro devozionalismo. Una chiesa in cui anche la Trinità è stata alla fine devozionalizzata, una chiesa costruita sul modello della res publica secolare, secondo la definizione di San Bellarmino, priva dei valori interiori, una chiesa, insomma, pagana che è arrivata a mettere all’Indice lo stesso Vangelo.

Di fronte a tutto questo si pone oggi la richiesta di un Vangelo, appunto, post-religioso e lentamente veniamo al nostro tema. Dietrich Bonhoeffer nel 1944 scriveva dalla prigione nazista che bisogna vivere etsi Deus non daretur, come se Dio non esistesse, cioè da cristiani maggiorenni, che non usano Dio come ipotesi di lavoro. Espressione forte per dire che bisogna liberare la fede dal momento religioso oppressivo per andare oltre il religioso stesso. Una affermazione tornata di pregnante attualità che ci conduce oggi sulla soglia della nostra domanda.

E da un’altra parte, da tutta un’altra parte, insospettabilmente, il cardinale custode dell’ortodossia cattolica Joseph Ratzinger nel suo bellissimo libro "Sale della terra" ha osservato cinquanta anni dopo Bonhoeffer dalla cittadella vaticana del potere cattolico che il cristianesimo del Terzo millennio sarà costituito da un arcipelago di piccole comunità di intensa spiritualità, una chiesa, dunque, al di là della cristianitas.

Enzo Bianchi come si è arrivati a questo punto?

Enzo Bianchi

C’è una differenza tra fede e religione. Cerco di spiegare in maniera estremamente semplice: la fede è quella che la chiesa ha sempre detto essere un dono di Dio, èquell’attaccamento, quel legame al Dio vero e vivente. La religione è la maniera con cui si esplicita questo legame, in cui questo legame si ritualizza, in cui è vissuto e certamente va dato merito a Karl Barth di fare una distinzione tra fede e religione. Direi una cosa di più: se c’è una religione che è critica verso la religione come fenomeno è, soprattutto, il cristianesimo. Geneticamente il cristianesimo porta in sé i germi della critica al fenomeno religioso. Indubbiamente si può dire che già in qualche misura i profeti di Israele rappresentavano una critica alla religione; basta leggere da Amos a Isaia, a Geremia e conosciamo bene questa critica. Certamente Gesù l’ha portata ad una pienezza per cui possiamo dire che il cristianesimo ha una istanza critica verso la religione estremamente forte.

etsi Deus non daretur

Bonhoeffer fa un passo successivo. Innanzitutto "etsi Deus non daretur" non va tradotto "come se Dio non esistesse" ma "come se Dio non fosse dato". Quando dice che i cristiani devono imparare a vivere "etsi Deus non daretur", non significa che devono vivere "come se Dio non esistesse", cioè non tenendo conto di Dio, non tenendo conto della Rivelazione, ma significa semplicemente che nelle opzioni che i cristiani devono fare nel mondo devono prendersi tutta la responsabilità della storia e non invocare Dio, soprattutto nel dialogo con gli altri.

Faccio una applicazione semplice e mi fermo qui. Se noi abbiamo un problema all’interno della polis italiana e dobbiamo a un certo punto dare a questo tema una soluzione attraverso la legge, pensate quanti problemi ci sono di questo genere, essendo noi una minoranza, dobbiamo renderci conto che dobbiamo entrare nel dibattito con gli altri uomini non cristiani, con altre morali, con altri cammini; e in questo dibattito noi non dovremo portare ragioni teologiche, ma porteremo nel dibattito solo ragioni antropologiche.

Declino un caso, per esser chiaro: se ad esempio lo stato oggi chiede di poter normare il riposo festivo domenicale, noi non sosterremo nel dibattito con gli altri uomini che noi, essendo cristiani, avendo il comandamento di santificare le feste, esigiamo che la domenica sia rispettata. Non ha nessun senso. Se noi abbiamo ragioni antropologiche quali una qualità di vita da salvaguardare, un giorno in cui è necessario che simultaneamente gli uomini riposino per potersi incontrare, perché ci sia comunicazione tra gli uomini, questo dobbiamo portare nell’ambito politico. Non abbiamo ragioni religiose da portare nell’aeropago della società, esse riguardano solo la fede. Questo è imparare a vivere "etsi Deus non daretur", non nel senso che si dimentica Dio o si dimentica il Vangelo o si dimentica la Rivelazione, ma semplicemente che noi prendiamo atto di una responsabilità che con gli altri uomini va giocata, "etsi Deus non daretur", come se Dio non fosse dato.

Raffaele Luise

Un ruolo fondamentale in questo processo l’ha svolto la secolarizzazione che ha condotto progressivamente, oggi molto acceleratamente, allo scollamento e all’estraneità del mondo tecni-scientifico post-moderno da ogni sistema o semplice riferimento a Dio.

Il Dio ridotto a funzione della storia dell’universo è divenuto oggi un piatto e semplice dato di fatto; un costume indotto dall’impalpabile dittatura del consumismo, un passivo impoverimento della società sociale e personale. Viviamo di fatto come se Dio non ci fosse, non esistesse. E dire che la secolarizzazione, prof. Marramao, aveva ed ha potenzialità estremamente positive per liberare la fede dalla trama del sistema religioso.

Giacomo Marramao

Ho ascoltato parole molto intense che Bianchi prima ha pronunciato riguardo alla tematica di Bonhoeffer "etsi Deus non daretur"; volevo proprio riprendere questo tema riguardo alla questione della secolarizzazione, un tema a me molto caro.

Chi di voi non mi conosce è bene che sappia che io sono un laico ma credo che anche Bianchi lo sia quando parla e quindi non è questa la distinzione tra di noi. Diciamo piuttosto che sono un non credente, non nel senso che "credo di non credere", una frase che un mio collega e amico, Gianni Vattimo, ha adoperato per un libro. Questo gioco del credere di credere o del credere di non credere è una tematica molto importante.

Io sono convinto che ognuno di noi è relazionato al mondo sulla base di una serie di circostanze: mi è accaduto di nascere in questo tempo, mi è accaduto di nascere maschio anziché femmina, mi è accaduto di nascere in una certa cultura e società, mi è accaduto di fare certe scelte. Queste scelte e questa catena di eventi sono contingenti e io ritengo che questa contingenza sia l’unica cosa sulla quale io posso operare razionalmente, cercare di ragionare nei termini della comprensione e in parte anche della spiegazione causale di questa catena di eventi contingenti che hanno determinato la mia esistenza oggi.

So però che la contingenza, non soltanto del mio esistere o anche della mia biografia o anche delle mie scelte, ma la contingenza del mondo in assoluto che potrebbe anche non essere, cioè la cui non esistenza non comporta alcuna contraddizione logica, tutto questo rimanda a qualcosa che non è soltanto mondo, e questo io lo intendo come interrogazione radicale.

Credere è qualcosa che ha a che fare con un pathos interno, con un sentire. Certamente anche la definizione di non credente che ho adoperato è una definizione assolutamente convenzionale, è del tutto evidente che io stesso alla lettera non mi sento non credente rispetto all’incommensurabile che sta al di là della contingenza del mio esistere e della contingenza del mondo, ma anche rispetto alla fede specifica ebraica e cristiana, rispetto alla quale io avverto un sentimento di profonda condivisione di alcuni dati anche emotivi.

Non ho finora compiuto la scelta, o comunque non sono stato scelto, nel senso dell’abbracciare questa fede. Io rimango in qualche modo un laico radicale che continua ad interrogarsi, ma non è la laicità di Hegel o di Rousseau, è la laicità di Hume, quello che dice "io posso unicamente con la scienza e la ragione spiegare un ambito limitato di cose, ciò che sta al di là non posso assolutamente spiegarlo".

Io credo che una idea della ragione conseguente sia quella che è in grado di declinare il limite in maniera positiva, come un fatto in qualche modo che ci è dato e dunque è positivo.

fede radicale e laicità radicale

Comunque sia da sempre sono stato convinto che nella discussione intorno al tema dell’incommensurabile, dunque al tema della nostra finitudine, dunque al tema del divino ne vada della possibilità di trovare un punto di incontro, comunque un punto d’intersezione tra una posizione di "fede radicale" nel senso ebraico della fede come fiducia, come fedeltà alla parola e soltanto alla parola non ad altro; e per l’altro verso una posizione che potremo definire "laica radicale", cioè che è capace di guardare al mondo, solo in quanto mondo, dunque al mondo spogliato di ogni mito, di ogni idolo, di ogni sacralità.

Qui è il punto fondamentale: vi è una relazione stretta fra l’evento della parola ebraica e poi cristiana e quello che Max Weber chiamava "disincanto del mondo". Il profetismo ebraico è essenzialmente la parola del disincanto, la parola che spoglia il mondo dei miti e dei riti sacrali del politeismo; rompe con ogni visione magica delle cose.

Da questo punto di vista vi è una paradossale biunivocità, una relazione quasi interfacciale, misteriosa ma interfacciale, fra l’evento della Parola della fede e il mondo che diviene, qualcosa di disincantato che è solo mondo, esattamente come lo vediamo nelle sue relazioni anche prosaiche. E lì in questa prosa del mondo, in questo quotidiano che dobbiamo cercare di trovare la piega dell’evento. E qui il punto essenziale.

Se è vero questo è del tutto evidente che soltanto la parola della profezia e poi la parola di redenzione cristiana poteva produrre l’effetto dirompente della secolarizzazione. L’ebraismo e il cristianesimo sono un modo straordinario di valorizzazione del mondo nella sua interezza, ma aggiungo anche del mondo inteso non in quanto spazio, spazio rituale, spazio simbolico, teatro degli eventi come inteso nel mondo classico, ma piuttosto inteso come quell’evento che è essenzialmente tempo, temporalità. Con l’ebraismo e con il cristianesimo il tempo ha una rilevanza fondamentale, ogni tempo e quindi anche il tempo storico.

Soltanto con l’ebraismo e con il cristianesimo, anche dal punto di vista di una prospettiva laica radicale, si costituisce il tempo storico come noi Io intendiamo nella sua irripetibilità, cioè nel senso che ogni momento del tempo nella sua irripetibilità, nella sua singolarità, nella sua individualità è l’intero, è manifestazione dell’evento e dunque del divino.

E qualcosa di ben diverso, di ben lontano dalla idea del tempo che ha valore soltanto in quanto gli eventi possono essere fra loro comparati. Io credo che vi sia una stretta parentela, una intima affinità fra questa idea della singolarità del tempo e dell’evento e l’idea che l’ebraismo prima e soprattutto il cristianesimo, introducono: l’idea della singolarità di ciascuno di noi dove non è più il genere, non è più soltanto la specie, l’Umanità con la maiuscola che contano, ma è il singolo individuo, èla singolarità di ciascuno di noi che ha un significato di redenzione.

Io pur essendo laico radicale da questo punto di vista devo dire che ogni volta che riprendo in mano i testi neotestamentari in particolare i testi evangelici non posso fare a meno di riflettere su un fatto: da sempre la specie esisteva , la Parola ancora no, come se la parola evangelica clischiudesse qualcosa, che è il collegamento tra la grande novità rappresentata dall’ebraismo, il tempo profetico, il tempo rivolto al futuro, fino poi al tempo messianico, e l’aggancio di questa dimensione del tempo con l’idea di quell’evento, di quella irripetibilità che ciascuno di noi rappresenta; una sorta di destrutturazione, di depoten ziamento che i vangeli introducono ancherispetto all’ebraismo.

Depotenziamento non soltanto del codice del potere. Il potere viene come dire destituito di fondamento nel momento in cui l’amore viene introdotto come dimensione, relazione con l’alterità, ma è anche destituzione di fondamento, destrutturazione, decostruzione della logica dell’identità. E qui il paradosso: ognuno di noi conta nella sua irripetibilità, non conta nel senso dell’autoaffermazione identitaria, ma conta nel momento in cui ognuno di noi sa di essere al mondo in virtù dell’altro e di essere strutturato da quella differenza fondamentale che è la relazione all’altro.

ambivalenza della secolarizzazione

Questo è un punto molto importante e da questo nucleo si dipartono due strade per la secolarizzazione. Per un verso la secolarizzazione moderna è stata sicuramente l’espressione di questa novità dirompente che ebraismo e cristianesimo hanno rappresentato. Da questo punto di vista il mio vecchio amico, il caro amico Sergio Quinzio, aveva perfettamente ragione di parlare di radici ebraiche del moderno, ma al tempo stesso la secolarizzazione produce nuove forme di incantamento del mondo, una sorta di dinamica compensativa, di reincantamento del mondo che consiste nell’attribuire un significato liberatorio, di redenzione a feticci secolari. Questi feticci secolari li abbiamo vissuti nel secolo appena passato coi totalitarismi, ma c’è oggi un latente totalitarismo nella nuova ideologia che tende ad autoaffermarsi nel mondo, per la quale vale soltanto ciò che ha un prezzo, ciò che è permutabile, ciò che è dentro il meccanismo di mercato.

Il fondamentalismo di mercato, che forse è il più pericoloso dei fondamentalismi che oggi abbiamo di fronte, è il risultato di questo sdoppiamento del processo di secolarizzazione che per un verso è disincantamento del mondo, e per l’altro invece èreincantamento del mondo e creazione continua di surrogati del sacro che nulla hanno a che fare con la fede.

Raffaele Luise

Fermiamoci un momento e facciamo un inciso: non le sembra Enzo Bianchi che questo fare di Dio una "funzione" buona per tutti gli usi fino alla crociata e alla guerra giusta sia l’insulto e la bestemmia più grande nei confronti di Dio?

Enzo Bianchi

Ma indubbiamente. Dio, non dimentichiamolo, proprio perché resta un Dio che èmistero, un Dio che non si vede, facilmente questo Dio può evocare delle immagini, la proiezione su Dio del volto che l’uomo desidera di Dio e può quindi essere strumentalizzato dagli uomini.

Io credo che oggi, però, il pericolo non è tanto quello delle guerre con cui i cristiani hanno inalberato il proprio Dio contro il loro nemico e l’hanno utilizzato, ma quello di strumentalizzare Dio soprattutto all’interno, nel tentativo di declinare il cristianesimo come religione civile, nell’Occidente frammentato, disincantato, nell’Occidente in cui c’è il vuoto lasciato dalle grandi ideologie. C’è una specie di convergenza tra parte dei credenti e parte anche dei non credenti, i quali vorrebbero che il cristianesimo si prestasse davvero a dare un cemento a questa società che non ne ha.

Io credo che questa sia oggi la cosa più pericolosa. Tutti i poteri politici oggi dicono che la chiesa serve, le fanno una corte senza fine, perché serve appunto a dare un cemento monolitico di valori a una società che non ne trova, a dare al cristianesimo la funzione che le ideologie, i regimi totalitari e anche altri tentativi non sono in grado di segnare. Ma questo significa in realtà uccidere il cristianesimo come fede.

Non dobbiamo prestarci a una chiesa che faccia da intonaco al muro cadente della società. Noi dobbiamo salvaguardare il cristianesimo come fede e non dimenticare che l’unico messaggio vero, profondo che noi possiamo dare alla società come cristiani è che la morte non è l’ultima parola e che c’è la resurrezione. Tutto il resto gli uomini sanno darselo da soli più o meno bene; possiamo magari collaborare a fare dei tragitti comuni, ma se c’è una cosa, l’unica che è specifica nostra, è questa speranza che la morte non è l’ultima parola. E siccome ogni uomo ha dentro di sé, come dice Qohelet, il senso dell’eternità, anche se non conosce l’opera di Dio da capo a fondo, a noi spetta solo questo compito: dire la speranza che è in noi, che la morte non è l’ultima parola; e dire questo significa che chi vince la morte è l’amore, nient’altro. Questo sì spetta a noi, ma il resto stiamo attenti perché sempre si tenterà di giustificare l’uso della religione, fino alla Serbia e al Kosovo da una parte e dall’altra fino alla guerra in nome di Allah.

Raffaele Luise

Il dio funzionale, collaterale al mondo, non è in nuce il pericolo più grande per l’autonomia della società, della politica e per la stessa democrazia?

Giacomo Marramao

Il dio funzionale è il dio rispetto al quale la filosofia con Nietzsche ha decretato la morte. Quando Nietzsche dichiara che Dio è morto, in realtà intende morto il dio funzionale, è morto esattamente il "deus otiosus" che presiede all’ordine immutabile del mondo. Questo è il dio che è morto, e quindi è morto il dio di un monoteismo che per Nietzsche era, tutto sommato, l’alleato della metafisica. Non è morto viceversa, è qui il punto fondamentale che dopo Nietzsche è apparso sempre più chiaro al pensiero contemporaneo, non è morto il Dio vivente. La questione fondamentale, l’interrogazione fondamentale, con buona pace di Heidegger, non è più quella dell’essere ma è quella che investe il vivente.

Io sono sempre più convinto che la filosofia, per esempio, debba operare una distinzione molto più chiara tra il lessico ontologico dell’essere e il lessico del vivente, di ciò che è interrogazione e proprio in quanto interrogazione ha a che fare con la dimensione del vivente.

E la dimensione del dio che è essenzialmente vita che nella declinazione cristiana rompe addirittura con la rigidità della legge, una delle frasi chiave per reinterpretare la funzione oggi della fede cristiana nell’epoca ipermoderna in cui cercare di vivere (preferisco il termine ipermoderno al termine post-modemo).

Direi che la chiave fondamentale è la frase di Gesù: "Non l’uomo per il sabato, ma il sabato per l’uomo". È decisivo dire questo. Significa due cose: centrale non è la legge ma la relazione che la fede è in grado di istituire tra gli individui viventi e solo questa relazione è in qualche modo espressione del Dio vivente.

nel contingente la chiave della relazione

L’altro aspetto estremamente importante è il problema della rottura dell’autoreferenza identitaria. Cioè dobbiamo essere consapevoli che noi siamo donati a qualcosa, e che tutto ciò che noi siamo è un dono del tempo, è tempo donato e di conseguenza ciò che da luogo a noi non è una logica dell’identico, ma è una sorta di statuto impercettibile dell’essere del mondo che potremo chiamare la cifra dell’inidentificabilità dell’essere: Dio è sostanzialmente questo, Dio è incommensurabilità nel senso di cifra della inidentificabiltà dell’essere. L’essere non ha carta d’identità, è di volta in volta differente e soltanto attraverso la parola, i nomi che Dio gli conferisce ha un suo statuto.

Ora questo è un problema, a mio avviso, molto importante perché io vedo una relazione molto stretta tra questa idea della fede, questa idea della singolarità dell’evento, questa idea della relazionalità e la scoperta della libertà dell’evento che la scienza contemporanea ha fatto dopo la fase della rivoluzione scientifica. La fede cristiana interpretata dopo la secolarizzazione non ha nulla da temere dalla scienza contemporanea, dalla scienza postrelativistica e postmeccanicistica, perché quella scienza ha scoperto essenzialmente due cose fondamentali: l’idea della libertà dell’evento e in secondo luogo l’idea che la natura (un concetto importantissimo nell’ambito della tradizione ebraica e cristiana perché dentro il processo di redenzione), che la natura è in realtà informata da un codice, la natura è codice, noi siamo tutti dentro questo grande codice, la natura funziona sulla base di questa sorta di relazione misteriosa di codice, decodificazione, ricodificazione.

Vengo all'implicazione, diciamo, storica e politica con una battuta. Io credo che questo significa nell’ambito della politica, nell’ambito della storia riuscire a rivalutare la dimensione del contingente. Io credo che un punto di intersezione straordinario fra una posizione di fede radicale e la posizione laica sia proprio questa nozione di contingenza intesa come la categoria ontologica più nobile. E proprio nel contingente, in ciò che è donato, in ciò che appare all’osservazione scientifica come un caso, un accidente, proprio nel contingente si annida, invece, la chiave della redenzione.

Raffaele Luise

Detto questo veniamo al cuore del problema: come dovrebbe essere il Vangelo post-religioso del Terzo millennio?

Enzo Bianchi

Indubbiamente la domanda che pone Luise è una domanda molto affascinante, una domanda che può catturarmi, però devo fare dei distinguo.

una fede senza religione?

Certamente una grande minaccia viene posta dalla religione alla fede, al Vangelo, ma nello stesso tempo, attenzione, è possibile vivere una fede senza la religione? Io credo di no, perché in realtà là dove due o tre credenti decidono di riunirsi nel nome di Gesù e di pregare insieme danno origine alla religione. Nessuna illusione che il cristianesimo non possa esser ridotto a religione, ma non si dà un cristianesimo che non si declini in religione. Il problema nel cristianesimo è che il primato ce l’abbia la fede e che la fede sappia praticare ogni forma di religione.

La seconda minaccia che il cristianesimo ha oltre quella della religione, è la grande tentazione di declinare il cristianesimo come etica; questo all’interno della chiesa in cui la morale ha preso uno spazio enorme. Si può dire che oggi c’è addirittura un certo fondamentalismo della morale nella chiesa cattolica. Tutti voi sapete che se lo scisma con gli Ortodossi fino a venti trenta anni fa, era solo di ordine teologico, cioè sulle questioni che credevamo, oggi lo scisma tra chiese cristiane è soprattutto uno scisma etico, morale. Questa è una novità di tutta la storia; fino agli anni settanta le chiese avevano lo stesso pensiero sull’etica, soprattutto sull’etica sessuale. E oggi c’è uno scisma enorme tra noi, gli Ortodossi e le chiese della Riforma e questo certamente significa che abbiamo dato all’etica l’importanza che ha all’interno del cristianesimo, perché il cristianesimo è una religione della prassi, come l’ebraismo, ma stiamo attenti a non declinare, a non ridurre il cristianesimo a etica.

Giacomo Marramao

Io credo che vi siano rischi nella riduzione di ebraismo e cristianesimo a una forma di etica. Quando si parla di etica ci si scontra con uno dei problemi del nostro tempo: quegli schemi normativi con i quali si è operato sia da parte laica che cattolica, da entrambi i lati, si scontrano con l’esperienza dei giovani. Le nuove generazioni, anche quelle che hanno recentemente protestato e la cui protesta in qualche modo è un elemento nuovo straordinariamente importante con la quale noi siamo destinati a convivere nei prossimi anni o decenni perché i problemi del mondo sono problemi globali, interdipendenti, anche questi giovani in qualche modo hanno mostrato la loro insofferenza nei confronti della ossessione normativa che caratterizza le nostre società da una parte e dall’altra. E quindi, io credo, che sia molto importante evitare che i discorsi intorno alla fede vengano usati come supplemento d’anima, come nel caso della religione civile.

Io credo che se vi è un insegnamento di un Vangelo post-religioso questo insegnamento va proprio nel senso di un invito a comprendere prima che giudicare. Io ho sempre trovato l’impatto più dirompente della Parola di Gesù nella critica all’ipocrisia, agli ipocriti; il peggiore ostacolo alla redenzione, è l’ipocrisia, i sepolcri imbiancati. Comprendere prima che giudicare, cioè davanti alle tragedie del mondo, alle cose più terribili o anche alle cose più grottesche, la nostra linea deve essere quella del non ridere, non piangere né maledire, ma comprendere innanzitutto. Direi che questa è la chiave fondamentale.

 

fraternità, comunità, democrazia

Io credo che dovremo cominciare a comprendere che noi viviamo ormai in una epoca post-democratica, cioè la democrazia, così come l’abbiamo conosciuta nell’intero arco della storia dell’Occidente, dalla democrazia greca alla democrazia della prima modernità, alla democrazia della seconda modernità, non è più in grado di rispondere alle esigenze del mondo contemporaneo.

La rappresentanza non è più in grado di dar conto della pluralità, anche, se vogliamo, della pluralità polimorfa, delle sfere pubbliche, delle varie forme di vita che caratterizzano il nostro presente. E se ancora possiamo usare il termine democrazia dobbiamo essere in qualche modo consapevoli che noi adoperiamo una vecchia parola per una cosa nuova: la democrazia verso cui dobbiamo avviarci è quella che in qualche modo è in grado di raccogliere come in una sorta di polifonia le esperienze plurali delle tante comunità e che quindi è in fondo da intendersi come una comunità paradossale, una comunità dei senza comunità. La vera essenza, la segreta essenza della democrazia futura dovrebbe essere proprio questa: quella di essere non comunità di persone che si raggruppano secondo la logica identitaria che poi porta alle guerre, guerre di religione o guerre ideologiche o guerre etniche, ma invece appunto una comunità dei senza comunità, cioè una comunità di donne e uomini. Io credo che sia molto importante oggi insistere molto sulla novità dirompente rappresentata dal pensiero femminile della differenza rispetto a un universale neutro maschile che è stato quello nostro occidentale. L’esperienza concreta di donne e uomini che vivono l’esperienza appunto dell’universale sradicamento, ma proprio questo universale sradicamento non era forse la novità incapsulata nella parola profetica? E direi che forse è di qui che è possibile cominciare.

Una democrazia dunque che non sia più figlia di Atene, dei greci, ma che sia forse più vicina a Gerusalemme.

Raffaele Luise

Allora possiamo dire, tornando a Bianchi, che il Vangelo post-religioso rifulgerà come momento spirituale, e questo è il nostro assunto e anche la nostra speranza. Ma questo implica la necessità per i cristiani di porre al centro della vita, dell’attenzione, della preghiera alcune questioni fondamentali.

La prima è quella della povertà crescente nei nostri tempi di globalizzazione selvaggia. Scendere in campo, sporcarsi le mani in questo ambito è un atto di umanità fondamentale, ma è anche squisitamente un atto evangelico. Non le pare Bianchi?

Enzo Bianchi

Noi cristiani insistiamo molto soprattutto in questi ultimi decenni sull’incarnazione. Credo che mai si è parlato tanto di incarnazione teologicamente ma anche, oserei dire, nel quotidiano ecclesiale come in questi ultimi decenni, almeno dal Concilio in poi; cioè Dio si è fatto uomo, Dio ha preso la carne in Gesù Cristo, è diventato uno di noi, ha camminato con noi.

E l’umanità di Gesù è il grande tema, soprattutto grazie alle scienze bibliche, è il grande tema che ormai fa parte della fede cristiana. Però attenzione. Gesù si è fatto uomo, non semplicemente uomo in senso generale, si è fatto uomo con una vita estremamente precisa, per cui Paolo da un lato dice che si è fatto uomo e dall’altro dice:

"Lui che viveva nel mondo dei privilegi di Dio non ritenne un privilegio la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò la sua vita dei privilegi e venendo tra di noi si fece schiavo, servo fino alla morte, alla morte di croce" (Filippesi, 2).

In Seconda ai Corinti, Paolo fa lo stesso itinerario e dice in altri termini: "Da ricco che era si è fatto povero". Allora non qualsiasi incarnazione. Troppo poco dire che Gesù si è fatto uomo. Gesù si è fatto uomo in una particolare forma che è la forma del servo, la forma del povero.

Credere nell’incarnazione significa dare un volto all’incarnazione: Gesù servo e servo povero. E intendiamoci bene sul Gesù povero. Gesù povero non significa che sia stato misero: Gesù è mai stato uno di quelli che ha sofferto i bisogni primari; è nato in una famiglia, il padre artigiano per cui certamente non si faceva la fame; ha avuto una vita in cui ha potuto studiare, in cui ha potuto per anni e anni fare una assiduità alle Scritture, che se avesse fatto la vita veramente del povero salariato non avrebbe fatto, e durante la sua vita pubblica aveva degli amici che lo invitavano a pranzo e presso cui sostava...

povertà è condivisione

E allora qual è la povertà di Gesù? Noi dobbiamo smetterla di leggerla in termini pauperisitici, perché all’interno del cristianesimo non è la virtù della povertà che èmessa in rilievo, povertà come miseria, povertà come mancanza di cose. Il vero concetto di povertà cristiano è la condivisione, è la comunione, non è che se uno manca di qualcosa in qualche misura ha una vita più cristiana; il vero problema èse uno quel che ha lo condivide radicalmente con gli altri, smette di dire: è mio, ètuo e pone tutto all’interno di una comunione. Questo è il cristianesimo.

Allora, secondo me, la grande partita che i cristiani oggi devono fare senza delle ingenuità è muoversi in questa linea, non dimenticare che di fatto l’83% dei beni della terra, delle risorse, viene sfruttato dal 17%, e che per gli altri non c’è un riconoscimento nemmeno del loro lavoro.

E, attenzione, senza ingenuità. Quando io dico che il problema è di comunione non pensate che finisca per dire che i cristiani devono porsi nello stesso piano dei poveri: perché anche se io scelgo di esser povero non sarò mai uguale a chi è nato povero in Burundi e che non ha scelto nulla. Il problema è che a livello di solidarietà, di politica dobbiamo far sentire la nostra voce per una distribuzione dei frutti della terra, delle risorse del lavoro e non nego che si debba insegnare loro a lavorare e non semplicemente dare degli aiuti.

Ma il problema è più radicale ancora; ricordo che c’è il giudizio perché nel giudizio, non dimentichiamo quella pagina straordinaria del Vangelo, il giudizio avverrà su un solo tema: "Avevo fame, mi avete dato da mangiare, avevo sete, mi avete dato da bere; ero nudo, siete venuti a portarmi un abito; ero in carcere, siete venuti a darmi una parola di consolazione". Solo su questo Gesù ci ha assicurato: che c’è il giudizio, e il giudizio ci sarà su questo.

Finalmente il giudizio è di nuovo proclamato, ma non come terrore, non come minaccia, ma come richiesta di responsabilità ai cristiani; siamo noi che decidiamo rispetto alla comunione ciò che saremo di là nel rapporto con Dio. Dovremmo sentirci interpellati: Allora cosa stai facendo per tuo fratello? Altrimenti anche il cristianesimo, permettetemi di dire, è un lusso di spiritualità, tra le tante opzioni spirituali del supermercato delle religioni oggi. Io mi auguro che si arrivi presto a un movimento davvero di ordine mondiale, di coloro che cominciano a pensare in termini che riguardano tutti i poveri della terra. Finora noi abbiamo avuto certamente una prassi per la giustizia per i poveri di casa nostra o per i poveri di classe, si tratta oggi invece di dare uno sguardo ai poveri del mondo. Per noi cristiani è un problema serio, un problema di ordine cristologico prima ancora che di ordine etico, dal momento in cui Gesù si è identificato con i poveri della terra, con gli ultimi e ha detto che ogni volta che farete qualcosa a uno di questi lo avrete fatto a me.

Per cui per noi assolutamente sarebbe uno smentire il cristianesimo a livello di fede se non ritenessimo la questione della giustizia sociale e della comunione, usiamo questo termine, come qualcosa che fa parte essenziale del Vangelo.

Nessuno ha una posizione antiglobalizzazione fine a se stessa. I problemi di noi cristiani sono gli idolatri e le idolatrie del libero mercato ad ogni costo, il fondamentalismo del mercato: questo è il grosso idolo, che non vede niente e nessuno, non rispetta più nulla e nessuno. Con questo i cristiani non ci possono stare e in questo non pagano nessun debito al marxismo perché ben da prima su queste cose i Padri della Chiesa hanno saputo dire quello che recentemente magari neanche il magistero ha saputo dire con forza.

Raffaele Luise

Eppure questo scendere in campo pacifico, lucido e generoso dei cristiani al G8 di Genova è stato da alcune parti, vedi gli articoli sul Corriere della Sera di Angelo Panebianco, denigrato ed accusato di essere espressione di una chiesa marxista, pericolosamente alla deriva dell’Occidente. Stanno così le cose, professor Marramao?

Giacomo Marramao

Lei mi invita a entrare nel merito delle polemiche e mi pare anche giusto che si faccia. Tra l’altro io ho trovato la posizione di Panebianco molto limitata anche dal punto di vista di un liberale, perché non èun caso che qualche giorno dopo un altro liberale, Ernesto Galli della Loggia, è stato costretto a correggerlo su un punto fondamentale, cioè che la chiesa non è risolvibile nel discorso di una chiesa in qualche modo alleata o collaterale all’ideologia marxista.

il limite etnocentrico

Il problema che si pone è invece questo: se è indubbio che la storia del cristianesimo e naturalmente anche la storia della chiesa fa tutt’uno con la storia dell’Occidente, è altrettanto indubbio che oggi si pone il problema del rapporto tra la chiesa, il cristianesimo e le altre grandi culture del pianeta, perché questo è il punto fondamentale. Oggi nell’età globale noi stiamo incontrando un nodo enorme, o meglio un problema talmente grande che non riusciamo a visualizzarne i contorni. E il principale di questi problemi è che un reale, effettivo confronto fra le grandi culture del pianeta non si è ancora determinato, deve ancora realizzarsi. E io ritengo che questo confronto tra le grandi culture del pianeta sia essenziale proprio per dare una implicazione anche politica, anche pratica alla soluzione del problema centrale dell’età globale che è questa inaudita sproporzione tra la minoranza di popolazione del pianeta che tiene il monopolio delle ricchezze, delle risorse, del sapere e la stragrande maggioranza che ne è esclusa.

Io credo che oggi all’ordine del giorno, e credo che sia uno dei temi fondamentali, ci sia una ricostruzione dell’universalismo. L’universalismo così come lo abbiamo ereditato dalla modernità non è più sufficiente; è un universalismo dell’identità, in qualche modo, è universalismo declinato sulla base degli usi, dei costumi, dell’egemonia del mondo occidentale. E la chiesa è stata anche in larga parte strumento di questa autoidentificazione dell’Occidente.

Oggi credo che l’universalismo vada costruito e perché venga costruito occorre compiere innanzitutto un’operazione spietata su noi stessi: andare a vedere quegli aspetti della cultura, della storia, della società occidentale che sono esattamente in contrasto, in antitesi con i valori proclamati dall’Occidente. E in secondo luogo cogliere nelle altre culture la presenza di elementi di universalismo. Sarebbe comodo se dicessimo: noi e gli altri, cioè da un lato noi, dall’altro la cultura altra cinese, la cultura altra indiana e via dicendo. Il problema è andare a scorgere nelle altre culture la presenza di un simbolismo segreto proprio rispetto ai grandi temi della vita, della morte, della comunità, della fraternità, della condivisione, tale da spezzare il limite eurocentrico che hanno spesso le nostre dichiarazioni di valore. Quello è il punto essenziale, direi che dunque oggi noi ci avviamo verso un mondo in cui la vera globalizzazione non può essere altro che un lavoro molto difficile, ma io credo l’unico in grado di salvarci per una ricostruzione dell’universalismo.

Credo che oggi la funzione globale dei cristiani, proprio per spezzare il limite etnocentrico dell’Occidente, debba essere quello di ribadire una sorta di teologia politica di segno rovesciato che collochi al primo posto l’autorità di coloro che soffrono. Il che significa porre la questione della povertà nei termini in cui si è già detto e significa porre la questione anche storica della liberazione, non più nei termini marxisti della strategia, del progetto e neppure nei termini nobili dell’utopia ma piuttosto, nel presente globalizzato, nei termini dell’ultimatum.

Raffaele Luise

A questo punto della nostra analisi prima di procedere oltre dobbiamo affrontare due grossi pericoli legati alla definizione di un Vangelo post-religioso. Il primo èquello classico e che Enzo Bianchi ha sapientemente anticipato, per cui l’accento posto con forza sul momento della fede, della mistica, della destrutturazione giuridica, impoverisca eccessivamente l’altro polo, quello della istituzione con il rischio di condurre a comunità fragili, a una fede in definitiva debole. Come fare perché questo non accada?

Enzo Bianchi

Io credo che dobbiamo togliere subito una visione negativa dell’istituzione. Nel Vangelo si dice che Gesù un giorno visto che molti lo seguivano ne scelse dodici, anzi il Vangelo di Marco al capitolo 3 dice: "ne fece dodici". Cosa significa? Ha voluto che dodici persone che lo seguivano fossero quelle che garantivano visibilmente nello spazio e nel tempo ciò che era il suo movimento, la sua predicazione. In quel giorno piaccia o no è nata l’istituzione e nella storia il cristianesimo diventa sempre anche istituzione. Il vero problema è di nuovo: l’istituzione a che cosa serve?

L’esistenza dell’istituzione è necessaria, senza istituzione non ci sarebbe né visibilità né permanenza nella storia, però l’istituzione è a servizio del Vangelo o il Vangelo a servizio dell’istituzione?

Ricorro alla parola ricordata prima da Marramao, la Parola di Gesù: "Il sabato è per l’uomo o l’uomo per il sabato?". E il sabato è l’istituzione per eccellenza nell’ebraismo.

Raffaele Luise

Quale istituzione allora per il Vangelo postreligioso?

Giacomo Marramao

Non ho la competenza per rispondere a questo. Dal punto di vista di un osservatore implicato e partecipe ho la sensazione che l’istituzione chiesa cattolica potrà sopravvivere alla sfida del futuro soltanto a condizione di aprirsi alla realtà globale e dunque alle altre culture. Dopo la funzione che papa Giovanni Paolo II indubbiamente ha avuto in modo determinante nello sconfiggere questo avversario che in qualche modo aveva dato una visione secolarista, non secolarizzata, ma secolarista del messianesimo, qual era il comunismo, io credo che oggi l’unica possibilità per la chiesa sia quella di aprirsi alle realtà extraoccidentali, l’Africa, l’America Latina, l’Asia. Se non riuscirà a fare questo ho l’impressione che è possibile che si assista nel prossimo futuro non tanto a un declino del cristianesimo, ma a un proliferare del cristianesimo però sotto spinte centrifughe delle diverse chiese comunità.

Io credo che questo sia uno dei temi all’ordine del giorno ma lo dico come osservatore partecipe che in qualche modo è legato alla vicenda del messaggio evangelico da un legame che non è soltanto di puro interesse o di ricerca di supplemento d’anima, ma sinceramente di fratellanza e di amore.

Raffaele Luise

È importante soffermarsi qui in Assisi su uno dei grandi segni di speranza del postmoderno capace di prefigurare scenari che portino anche più in là della stessa postmodernità. Mi riferisco al fenomeno tutto moderno della cura, della salvaguardia del creato. Possiamo chiamarla ecospiritualità questa nuova sensibilità?

Enzo Bianchi

Da venti anni tutte le chiese cristiane sentono questo tema della salvaguardia del creato, d’altronde questa formula .è stata coniata da loro, come uno dei segni dei tempi e certamente ormai potremmo dire che c’è addirittura un magistero da parte delle chiese su questo tema.

una religione acosmica

Credo che vadano dette alcune cose, però. La prima che il cristianesimo nella sua lotta contro il paganesimo che divinizzava la natura ha finito per vivere di una religione acosmica, direi addirittura con la paura di sacralizzare la natura.

Questo è stato un impoverimento grande, bisogna dirlo. All’interno della tradizione cristiana solo il monachesimo ha avuto un’attenzione alla cosmicità della natura, ma proprio perché il monachesimo è stato un fenomeno di boschi, un fenomeno di deserto, un fenomeno di aperta campagna e quindi era obbligato a una convivenza con la natura.

Oggi noi comprendiamo invece che la fede innanzitutto deve nutrirsi anche del cosmo. Questo passaggio non è facile, non è che possiamo dimenticare i secoli, oserei dire, di depauperamento per cui con ogni probabilità i tentativi oggi sono qualche volta maldestri, ma è un cammino che si deve fare tenendo conto di questi tre principi.

Il primo: non dimenticare che l’uomo innanzitutto è co-creatore, cioè è creatura in mezzo agli altri. Non dimentichiamoci che la terra che Dio ha dato agli uomini è da condividere con gli animali e con le piante; lo spazio lo ha dato a tutti, non è uno spazio dato all’uomo in cui eventualmente gli animali sono gli oggetti di ornamento come all’interno di una casa, gli acchiappapolvere. No, sono co-creature. C’è una comunione di co-creature che il cristianesimo deve assolutamente riscoprire. Il destino della terra riguarda gli animali, riguarda le piante, riguarda le specie, riguarda l’uomo e la terra è stata data a tutti.

Seconda cosa: se c’è una salvezza, è una salvezza universale. Paolo ce lo ha detto in Romani 8: tutta la creazione sta anche lei gemendo e soffrendo come le doglie di un parto in attesa della manifestazione dei figli di Dio. Certo quelli che saranno manifestati figli di Dio siamo noi, ma tutta la creazione vi partecipa.

In realtà questo mondo è destinato a diventare la dimora del Regno attraverso una trasfigurazione, non un dissolvimento.

Ciò che noi abbiamo creato e abbiamo creato come bellezza e come amore non andrà perso, continuerà. Quando si parla di resurrezione della carne non è solo che risorgeremo noi coi nostri corpi, ma tutto quello che abbiamo vissuto e che fa parte della biografia inclonabile dell’uomo, quello risorgerà: tutti i nostri amori risorgeranno con noi, tutti i nostri amori sbagliati risorgerano purificati e trasfigurati da Dio con noi. Tutto ciò per cui io ho vissuto nulla andrà perso, se andasse perso non mi interessa il mondo futuro, perché qui non è l’anticamera del Regno, è il luogo in cui Dio mi ha chiamato a vivere una vita perché io porti il mio contributo nel Regno con ciò che ho vissuto di bello, di buono e di amore. Questa è la trasformazione da fare.

E infine un ultimo, importante: se noi amiamo questa terra e siamo fedeli alla terra noi non dobbiamo però finirne per fare una realtà che ancora una volta è un idolo, facendone una specie di idea verginale, intoccabile. Quindi nessuna ideologia idolatrica della terra ma una fedeltà alla terra, sì. Il principio ancora qual è? Quello della comunione.

Giacomo Marramao

Io credo che per un verso ebraismo e cristianesimo per l’altro la scienza moderna, la scienza occidentale moderna abbiano in qualche modo cospirato in un’opera di disanimazione della natura, cioè non solo di disincantamento del mondo ma anche di disammazione della natura.

Fede ebraica e cristiana e scienza moderna sono tutt’altro che in antitesi tra loro. Anzi la scienza moderna ha potuto svilupparsi nella sua forma tipica, come diceva Weber, solo in Occidente, nella sua forma tipica proprio in quanto l’Occiden

te era l’Occidente ebraico e cristiano che aveva strappato l’anima alla natura, proprio per evitare tutte le forme magiche di relazione con la natura. E non a caso oggi noi vediamo che spesse volte gli ecologismi sono assolutamente in sintonia con forme di neopaganesimo. Nella modernità cristiana, post-cristiana, nella modernità inaugurata dalla scienza moderna l’idea che Marx condivise in modo assoluto era che la natura esiste gratuitamente, un’idea che sembrava proprio del tutto scontata.

la svolta di Francesco

Oggi noi comprendiamo che la natura non esiste affatto gratuitamente e questo significa che dobbiamo forse ritrovare alcuni fili della tradizione cristiana che sono quelli meno legati a una visione a delle remore etnocentriche, per esempio il filo che è legato alla figura di Francesco. Francesco è colui che determina proprio una radicale svolta in parte legata anche a una certa tradizione del monachesimo, che da questo punto di vista era più aperto all’ambiente naturale di quanto non lo fosse la linea maggioritaria del cristianesimo. Con Francesco noi abbiamo una svolta radicale, cioè l’idea del rapporto di amore che implica non soltanto una comunione umana fondata ovviamente sulla fratellanza, ma anche un’idea di fraternità con tutte le altre forme viventi della natura. Una forma dunque di amore che implica il rispetto di tutte le forme viventi della natura.

Rispetto non significa, però, intangibilità, rispetto significa anche che tra storia e natura si stabilisce una relazione; non esiste una natura che non abbia una sua storia, che non sia entrata in un rapporto con l’operare umano, con la prassi umana, con la civiltà, con la stessa tecnica.

Nella figura di Francesco d’Assisi ho sempre visto un’apertura in grado di far interagire la tradizione cristiana con altre grandi culture proprio nella prospettiva di una ricostruzione, quindi non una riaffermazione, ma una ricostruzione, ridefinizione dell’universalismo come oggi è richiesto dalle sfide del tempo globale in cui cercate di vivere.

(testi ripresi al magnetofono e non rivisti dagli Autori)




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