I cristiani divorziati e la Chiesa

La Chiesa e i divorziati
Un peccato imperdonabile?

Un matrimonio su cinque va in crisi. Con queste cifre si capisce perché quella dei divorziati è, anche dal punto di vista teologico e pastorale, una questione scottante, con la quale la Chiesa ha il dovere di fare lealmente i conti. Maria Vittoria Collenghi insegnava religione in una scuola media della cintura di Torino. Era brava, dicevano gli altri professori. Gli studenti le volevano bene, faceva anche volontariato in un gruppo cristiano della città. Quest’anno però Maria Vittoria ha perso il lavoro. La Curia della diocesi piemontese le ha tolto l’incarico. Il motivo? "Non ha rispettato uno dei requisiti necessari, quello della testimonianza di vita cristiana". Detta in parole più semplici: Maria Vittoria, 51 anni, separata da tempo, aveva trovato un nuovo compagno con cui dividere la vita. Il caso di questa insegnante di religione torinese, esploso qualche mese fa, ha provocato sulla stampa dibattiti e polemiche. Ma non è una storia nuova né isolata. È piuttosto l’ultimo esempio in ordine di tempo di un dramma antico, l’incomprensione tra la Chiesa e i divorziati credenti. Apparentemente, la questione del divorzio e delle seconde nozze è semplice. L’indissolubilità del matrimonio, infatti, è un comandamento evangelico fondato sulle parole di Gesù: "Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie... e ne sposa un’altra commette adulterio" (Matteo 19,9). Sulle questioni dottrinali, però, l’apparenza talvolta inganna. La faccenda è decisamente più complicata di quanto appaia. Tant’è che un gran numero di teologi cattolici continuano a interrogarsi sulla questione della distruzione del matrimonio sacramentale, con tutte le sue conseguenze, compresa la sorte dei coniugi separati che desiderassero delle seconde nozze. Vari episcopati nazionali hanno dovuto emanare regolamenti o documenti pastorali. E anche il Vaticano sente periodicamente la necessità di tornare sull’argomento per ribadire la posizione della Chiesa. Il Magistero, specialmente a partire dalla "Familiaris consortio" del 1981, si è andato precisando in maniera sempre più netta: il matrimonio sacramentale, se "valido" dal punto di vista canonico, è indissolubile. Né la Chiesa né il Papa hanno la potestà di cambiare questa legge che, appunto, deriva dalle "ipsissima verba" del Signore. Ragion per cui i divorziati risposati, pur non essendo esclusi completamente dalla comunità ecclesiale, non possono accostarsi all’Eucaristia. Non possono fare i catechisti in parrocchia o gli insegnanti di religione nelle scuole. Non possono fare da padrini nei battesimi e nelle cresime. Non possono essere membri di consigli pastorali parrocchiali o diocesani. Tutto risolto e caso archiviato, dunque? Pare proprio di no. Nelle nostre società occidentali il numero dei divorzi continua a crescere. In Italia erano 14.460 nel 1982, mentre quindici anni dopo, nel 1997, erano 33.342. Per non parlare delle separazioni legali: nel 1977 erano soltanto 7 su 100 matrimoni celebrati nello stesso anno; nel 1997 erano 22 ogni 100. Praticamente un matrimonio su cinque va in crisi. Con queste cifre si capisce perché quella dei divorziati, anche dal punto di vista teologico e pastorale, rimanga una questione scottante. E si capisce, soprattutto, perché anche le massime autorità della Chiesa sentano il dovere di fare i conti lealmente con un nodo delicato dal punto di vista dottrinale, ma anche sovraccarico delle sofferenze e dei dilemmi che riguardano centinaia di credenti.

Ultimamente, a gettare il sasso nello stagno è stato il cardinale Joseph Ratzinger. Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha firmato un’introduzione a un volumetto che raccoglie studi e contributi "Sulla pastorale dei divorziati risposati" (Libreria editrice vaticana, 1998). E ha fatto colpo sulla stampa internazionale. Nel suo intervento, Ratzinger ribadisce e precisa la tradizionale posizione della Chiesa. Ma poi aggiunge una considerazione che a molti è sembrata un’apertura: "Ulteriori studi approfonditi", afferma il cardinale, "esige la questione se cristiani non credenti – battezzati che non hanno mai creduto o non credono più in Dio – veramente possano contrarre un matrimonio sacramentale. In altre parole: si dovrebbe chiarire se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è ipso facto un matrimonio sacramentale". Il ragionamento del prefetto è questo: dal momento che la fede è parte dell’essenza del sacramento, "l’evidenza della non fede" ha come conseguenza che il sacramento non si realizzi. E visto che, secondo il Codice di diritto canonico del 1983, "anche le dichiarazioni delle parti hanno forza probante", non è impensabile che in un prossimo futuro, per ottenere la dichiarazione di nullità del matrimonio da un tribunale ecclesiastico, i coniugi possano presentarsi con una dichiarazione in cui affermano che al momento del "sì" all’altare non avevano la fede. Le parole di Ratzinger sono misurate e prudenti. Richiamano alla necessità di nuovi "studi approfonditi". Ma se questa ipotesi passasse, sarebbe una rivoluzione. Basta fare qualche calcolo "a spanne": in Italia circa l’80% dei matrimoni viene celebrato con rito religioso; è noto che i credenti praticanti sono circa il 30% della popolazione. Ne consegue che migliaia di coppie sposate in chiesa – quantomeno tutti coloro che fossero disposti ad affermare pubblicamente di non credere in Dio – avrebbero buone probabilità di ottenere la dichiarazione di nullità da parte di un tribunale rotale.

Come è stato accolto negli ambienti teologici italiani l’intervento del cardinale? E a che punto è il dibattito oggi? Don Franco Ardusso, docente alla Facoltà teologica di Torino, dice: "L’apertura del cardinale non è del tutto una novità, dal momento che se è vero che i sacramenti sono sacramenti della fede, è chiaro che se non c’è fede non può esserci neppure sacramento. In passato si presumeva che due battezzati che desideravano sposarsi in chiesa fossero sempre dei credenti. In realtà, oggi, questa è un’ipotesi tutta da verificare. Certo, bisognerebbe fare la verifica prima di celebrare il matrimonio. E probabilmente qui c’è un po’ di superficialità da parte dei sacerdoti che magari "sbrigano la pratica" in modo formale. D’altronde è anche un esame difficile, perché ovviamente la fede non si può misurare in maniera scientifica. Ha ragione Ratzinger a dire che servono ulteriori studi. Dopodiché servono delle regole chiare per tutti. Altrimenti ci troveremo sempre nella situazione confusa di oggi, per cui si può incontrare un prete rigidissimo nell’ammissione degli sposi al sacramento e un altro assai lassista". "Detto questo, però", aggiunge Ardusso, "c’è da notare che il discorso del cardinale Ratzinger riguarda soltanto i battezzati che non sono credenti. Rimane il problema di cosa fare con i cattolici seri, praticanti, che hanno avuto la sventura di vivere il dramma del divorzio. È vero che l’attenzione pastorale nei loro confronti non può condurre a compromessi con la verità, come ricorda la Congregazione per la dottrina della fede. Ma la verità va vista "in situazione", senza cadere con questo nell’"etica della situazione". C’è la verità di un principio, ma probabilmente c’è anche la verità di persone che vivono situazioni che vanno attentamente considerate".

Molto critico sull’intervento del cardinale Ratzinger è don Basilio Petrà, ordinario di Teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale di Firenze e autore di un volume dal titolo Il matrimonio può morire? (Dehoniane, Bologna): "La scelta di fondo della Congregazione per la dottrina della fede", spiega Petrà, "è di offrire una soluzione al problema dei divorziati risposati attraverso un aumento delle possibilità di nullità del matrimonio. Ma questa via "giuridico-casuistica" presenta rischi gravissimi. Imporre un’egemonia canonica sul matrimonio significa trasformarlo in una realtà da tribunale. Ampliando il ventaglio dei casi, ogni matrimonio a posteriori potrebbe essere facilmente dimostrabile come nullo. I tribunali rischiano di diventare una fabbrica di nullità. Puntando tutto sulla via canonica, inoltre, si incoraggia l’ipocrisia e si esteriorizza il rapporto del matrimonio cristiano. Esso viene a perdere la sua consistenza di atto di fede". Don Petrà, che è anche professore all’Accademia Alfonsiana e al Pontificio Istituto orientale, sostiene un’altra ipotesi, che peraltro è stata criticata dall’Osservatore Romano. "A mio giudizio", dice il teologo, "la questione va riportata all’ambito suo proprio, che è la pastorale. La mia posizione è stata spesso malamente interpretata. Io non sostengo che il matrimonio cristiano può morire, tutt’altro. Ritengo però che la Chiesa abbia l’autorità, ad alcune condizioni, di ammettere a nuove nozze o, come direbbero i canonisti, di "togliere l’impedimento di legame". Questa potestà della Chiesa è simile a quella esercitata dall’apostolo Paolo che ammise le nuove nozze per i vedovi con la motivazione che "è meglio sposarsi che ardere". Certo è solo una concessione, non è l’ideale cristiano, ma è una potestà che la Chiesa ha realmente utilizzato e continua a utilizzare nelle Chiese orientali". Concretamente, spiega don Petrà, "si dovrebbero verificare alcune condizioni: l’irreparabile fine della prima unione, la conversione e la penitenza, un vero cammino di fede testimoniato dalla comunità cristiana. A livello diocesano si potrebbero costituire delle commissioni pastorali che avrebbero il compito di valutare il cammino della coppia che chiede le nuove nozze, il loro rapporto con la Chiesa, il loro impegno religioso. A quel punto potrebbe venire l’ammissione a nuove nozze". Una posizione simile a questa del teologo fiorentino è propugnata da don Giovanni Cereti, che ha pubblicato una ricerca su "Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva", che di recente è stata ristampata in seconda edizione. Fondandosi sull’esperienza delle comunità cristiane dei primi secoli, don Cereti ritiene che "la Chiesa ha il potere di assolvere tutti i peccati, compreso quello di coloro che sono venuti meno al proprio impegno coniugale. Certo, il matrimonio deve essere indissolubile e il cristiano deve essere fedele al patto coniugale. Ma se per disgrazia pecca e viene meno al proprio impegno, la Chiesa può offrire una via penitenziale: di espiazione, conversione e infine di assoluzione dal peccato gravissimo di adulterio nel senso inteso da Matteo (19,9). L’approccio giuridico, invece, non risolve i casi. Dichiara nullo un matrimonio, come non fosse mai esistito. Così che i figli sono nati da un’unione fantasma e il coniuge non ha diritto agli alimenti".

Un altro noto studioso di teologia morale, don Giannino Piana, riconosce che la Chiesa ha fatto grandi passi avanti dopo il Concilio Vaticano II: "Prima, i divorziati risposati venivano abbandonati e marginalizzati. Oggi c’è una maggiore disponibilità a farli sentire parte della comunità cristiana". Ma aggiunge: "Credo che bisognerebbe riaprire teologicamente la riflessione sul significato dell’indissolubilità del matrimonio. Non soltanto per le ragioni di Cereti e Petrà, che si rifanno alla tradizione orientale e ai primi secoli della Chiesa, ma anche perché nei Vangeli la riflessione sull’indissolubilità è inserita nel contesto del "Discorso della Montagna". Si tratta cioè di indicazioni profetico-escatologiche, non precettistiche. Danno normative al credente, ma nel senso di un ideale da perseguire". Come si vede, il dibattito è piuttosto articolato e tutt’altro che spento. Padre Luigi Lorenzetti, dehoniano, direttore della Rivista di Teologia morale, conclude: "La situazione dei divorziati risposati interpella anche i teologi. È auspicabile che la ricerca teologica possa trovare il suo spazio legittimo. Certamente il nuovo non è sinonimo di vero, ma bisogna dare tempo all’autocorrezione, cioè al confronto/scontro delle diverse ipotesi all’interno della riflessione teologica. Invece talvolta si ha l’impressione che alcuni problemi, in particolare questi del matrimonio, non siano sufficientemente approfonditi, anche perché vengono subito diffidati e chiusi d’autorità".

Giovanni Ferrò

   

Il problema dei divorziati risposati interpella da tempo gli episcopati locali. Nel 1993 tre vescovi tedeschi (Lehmann, Kasper e Saier) si dissero favorevoli alla possibilità di ammetterli all’Eucaristia se essi, dopo un incontro con un prete, avessero ritenuto in coscienza di esservi autorizzati. Il Vaticano criticò però questa posizione. Quella del divorzio è anche una questione di rilevanza ecumenica, nel senso che divide la Chiesa cattolica dalle Chiese ortodosse e protestanti. La tradizione orientale, rifacendosi al principio della oikonomia (la prevalenza della misericordia sulla rigida applicazione della legge), ammette la possibilità di una benedizione di seconde e terze nozze. Le Chiese della Riforma, dal canto loro, sostengono in linea di principio l’indissolubilità del matrimonio, ma rispettano la coscienza dei fedeli, consentendo ai divorziati di risposarsi in chiesa e di accostarsi all’Eucaristia. Molti sono i teologi cattolici che in questo secolo hanno affrontato la questione spinosa del divorzio. A livello internazionale uno dei nomi più noti è padre Bernhard Häring, di cui è disponibile in Italia "Pastorale dei divorziati. Una strada senza uscita? " (Dehoniane, Bologna 1990). Più recente il volume di Basilio Petrà, Il matrimonio può morire? (Edb, 1996). Risalgono invece agli anni ’70 due volumi di don Giovanni Cereti, editi sempre dalle Edb: "Matrimonio e indissolubilità: nuove prospettive" e "Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva".    

La Chiesa e i divorziati - Esperienze pastorali

La solitudine dei "clandestini"

       

    "Q uando ci siamo sposati c’erano tre preti. Al momento della separazione eravamo soli". Poche parole per due istantanee: una a colori, spensierata, per la festa che segna l’inizio di una nuova famiglia; l’altra in bianco e nero, drammatica, che ritrae un doppio addio: dal compagno di vita e dalla comunità ecclesiale. È infatti esperienza di tanti credenti separati o divorziati risposati allontanarsi dalla Chiesa. "Non ci si sente accolti, perché spesso sono proprio i "buoni cristiani" che giudicano di più", dice Elio Cirimbelli, 52 anni, agente di commercio. "Come tanti disperati non sapevo dove sbattere la testa", afferma Cirimbelli, che ha "subìto" la separazione venti anni fa. Iniziò allora a frequentare un gruppo di alcolisti anonimi gestito da un amico: "Lì ho trovato tante persone che provenivano da famiglie disgregate...". Da quell’esperienza nacque l’idea di dare vita al "Centro assistenza separati e divorziati". "Chi viene da noi ha l’idea di una Chiesa lontana, chiusa, che porta con sé tanta sofferenza". Proprio in qualità di presidente dell’Asdi Cirimbelli è stato chiamato a partecipare al "Colloquio con i divorziati risposati" promosso dalla diocesi di Bolzano-Bressanone lo scorso anno. "Monsignor Egger, il mio vescovo, ha fatto un atto coraggioso. Molti hanno paura, pensano che affrontare con chiarezza certi problemi significhi legittimarli". Oggi il signor Elio ha una nuova famiglia e partecipa alla vita della comunità parrocchiale della quale accetta "le regole imposte pur senza condividerle". Annota: "Al momento della comunione le panche si svuotano, rimaniamo al banco io e mia moglie. Nostra figlia si accosta da sola al sacramento. L’abbiamo accompagnata soltanto il giorno della prima comunione. Adesso aspettiamo la cresima".

Proprio nell’aprile di venti anni fa la Conferenza episcopale italiana approvava una Nota su "La pastorale dei divorziati risposati" in cui si dice che questi ultimi "devono volentieri lasciarsi coinvolgere in tutte quelle opere materiali e spirituali di carità che edificano la comunità ecclesiale". Un riconoscimento che però, afferma Cirimbelli, "lascia dell’amaro in bocca, perché ci si sente accolti a metà: è come invitare qualcuno a pranzo ma poi dirgli di non toccare cibo. Io sono arrivato alla consapevolezza che l’Eucaristia non è l’unico canale di salvezza. Ma quanti come me hanno avuto la fortuna di poter fare questo cammino?". Non molti, probabilmente. Anche perché esperienze come quella della diocesi di Bolzano si contano sulle dita di una mano: Vicenza, Trento, Como e poche altre. Molti parroci, spesso interpellati da storie di coppie nate, cresciute, sposate e fallite in parrocchia, si sono inventati dei percorsi di inserimento nella vita di comunità.

Altri sacerdoti, invece – come spiega lo strumento di lavoro sulla "Crisi di coppia", realizzato a Trento per "Responsabilizzare le comunità cristiane sul disagio relazionale degli sposi"–, sono tanto "impegnati nei compiti legati all’azione pastorale" da correre "il rischio di slittare da una pastorale di comunione a una pastorale di efficienza organizzativa" e "di non avere più il tempo da dedicare alle relazioni interpersonali". Una conferma in questo senso viene dalla tesi di licenza sostenuta da Giuliano Trevisiol alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale lo scorso anno: "Si ha l’impressione che la pastorale delle persone che vivono situazioni matrimoniali irregolari sia un "capitolo taciuto" della pastorale". Sulla base di un sondaggio somministrato a 247 parroci e 43 vicari parrocchiali di una diocesi del Nordest, Trevisiol constata "una reale sottostima del fenomeno. L’atteggiamento di approccio dei presbiteri", dice, "sembra essere caratterizzato dalla occasionalità e quasi sempre avviene in situazioni istituzionali (sacramento dei figli 46%, visita alle famiglie 37%, confessione 7%, a richiesta degli interessati 5%)".

Solo il 12 per cento dei sacerdoti intervistati dichiara di aver assunto come preciso impegno pastorale l’incontro diretto con queste persone. Circa le indicazioni magisteriali sulla non ammissione alla comunione dei divorziati risposati, per il 52% da un punto di vista dottrinale la linea "non può che essere questa", anche se pastoralmente solo il 15% dei preti la ritiene corretta ed equilibrata. Per il 46% dovrebbe essere più flessibile, mentre per il 19% essa non è per niente adeguata ad aiutare le persone. Restando in questo ambito, il 47% degli intervistati concede l’assoluzione e quindi permette l’accesso dei divorziati risposati all’Eucaristia "in determinati casi" o in mancanza di colpa da parte dell’interessato. In altri casi vescovi e pastori consigliano alla persona che si sente in coscienza a posto di fronte a Dio di accedere direttamente all’Eucaristia.

Una soluzione, questa, che non convince il teologo Giovanni Cereti: "In questo modo la comunità ecclesiale carica la coscienza del singolo e non si assume le proprie responsabilità. Dovrebbero essere i vescovi, le Chiese locali a istituire un sistema penitenziale e al termine – qualora il pentimento si mostri sincero, i doveri nei confronti del coniuge e dei figli siano pienamente adempiuti – assolvere dal peccato commesso e consentire la possibilità di un nuovo inizio di fronte alla comunità. E non solo clandestinamente come di fatto già avviene".

Ma cosa ne pensano i parroci? "Non me la sento di immettermi su una strada diversa dalla Chiesa. I sacramenti non sono miei", dice don Antonio Nicolai, parroco di Santa Lucia a Roma e assistente della "Équipe Notre Dame", che ha inserito alcune coppie di divorziati risposati in un cammino di spiritualità coniugale. Un tasto su cui battere, secondo don Nicolai, per il problema dell’accesso ai sacramenti è "la strada dell’annullamento del primo matrimonio". Anche don Gimmy Baldo, a Bolzano, nella parrocchia di Tre Santi segue "diverse persone, separate o divorziate, che fanno un cammino insieme a tutti gli altri. Le aiuto a darsi dei criteri per comprendere, per non essere superficiali. Poi sono loro a scegliere, ma senza mettersi in mostra. La coscienza va sempre al primo posto". Già, la coscienza: il luogo dove sono a confronto la verità della tua relazione con Dio e il giudizio che leggi negli occhi degli altri. "Ero cresciuta in parrocchia con quello che poi è diventato mio marito. La separazione l’ho chiesta io", racconta Susanna Melchiorri, 36 anni, consigliera comunale a Bolzano, con l’esperienza di due anni nel cammino neocatecumenale. "So che ho tradito una promessa, ma sto pagando tanto. Se in Chiesa sei impegnata e sei un personaggio pubblico, vieni doppiamente messa al bando. In coscienza ho preso la decisione più opportuna rispetto al rapporto che avevo, ma così sono fuori. E non mi sembra giusto: cosa ho fatto più di un assassino, di uno stragista?". Ribellione, rabbia, allontanamento e poi l’incontro con un sacerdote attento, e piano piano il riavvicinarsi a una nuova comunità parrocchiale. "Mi è stata data anche la possibilità di leggere dal pulpito. In questi casi mi guardo intorno, per vedere se c’è qualcuno che mi conosce. Perché a messa mi sento sempre di serie B". Susanna ha scelto di restare nella condizione di "single": "Così mi sento meno colpevole e posso continuare ad accedere all’Eucaristia. Se decidessi di rifarmi una vita dovrei accollarmi il peso di un altro peccato. E non ci riuscirei".

È un carico enorme di sofferenza, spesso ignorata, che alle Chiese locali chiede spazi di confronto ma anche momenti di preghiera e di crescita comune. È quanto si sta tentando di fare a Como e a Vicenza. "Abbiamo cercato di leggere i documenti della Chiesa e di interpretarli nel senso più aperto possibile", dice don Battista Borsato, direttore dell’Ufficio matrimonio e famiglia della diocesi di Vicenza. La bozza di documento pastorale, stilata con i rappresentanti di tutti i decanati e di alcune coppie di divorziati risposati, è stata poi approvata dal vescovo.

Dal ’97 la diocesi promuove incontri mensili sulla Parola di Dio per oltre una ventina di coppie di divorziati-risposati e momenti di aggiornamento per operatori pastorali su accoglienza, prassi e soprattutto prospettive ("Se la morte affettiva è irreversibile", dice ancora don Borsato, "e se possa paragonarsi a morte fisica; domandarsi se l’indissolubilità che il Vangelo propone è giuridica o una profezia verso cui tendere; di fronte a un coniuge abbandonato capire se è possibile pensare a una forma di comunione sponsale..."). "Dobbiamo avere l’umiltà della ricerca, ma anche il coraggio di confrontarci con la Parola che offre sempre nuovi sensi". A Como si è partiti invece qualche anno prima, nel ’92. "Come équipe-famiglie di Azione cattolica ci siamo posti il problema", dice don Italo Mazzoni, assistente unitario di Ac e responsabile per la catechesi nella diocesi di Como. "Ne abbiamo parlato in diocesi, con i parroci e con alcune coppie. È venuto fuori il desiderio di confrontarsi e di pregare insieme. Da allora una volta al mese ci si incontra a livello diocesano. A una riunione ha partecipato anche il vicario episcopale. Inoltre in Avvento e Quaresima si tiene un incontro nelle parrocchie e a maggio in un santuario mariano". Non ama la pubblicità a questa iniziativa don Italo, ed esprime un timore: "Non vorrei che nascessero gruppi "di divorziati": questa non è una caratteristica che unisce ma piuttosto un dolore comune che permette di fare un pezzetto di strada insieme. L’idea è quella di inserire poi ogni persona nel cammino comunitario delle parrocchie".

Della stessa idea padre Giordano Muraro, domenicano, uno dei fondatori del "Punto Famiglia" di Torino. Dopo aver fatto un seminario di studio sul tema è arrivato alla conclusione che non si debba "fare nulla di particolare, perché si rischia di ghettizzare". Il Centro di Torino (011/44.75.906) ha approfondito il problema dei figli dei separati, promuovendo incontri di formazione per genitori. "Le persone vanno aiutate a comprendere che esiste tutta una ricchezza di grazia che nasce dalla Parola di Dio, dalla preghiera, dalla partecipazione alla vita delle comunità... insomma, non un cammino parallelo, ma dei momenti puntuali per queste persone in un contesto comunitario più ampio". Di parere diverso è invece Ernesto Emanuele, ingegnere, 64 anni, tre figli, vicino al movimento dei Focolari: "Solo chi ci è passato ha una sensibilità a 360°". A Milano ha fondato con altri l’Associazione per mamme e papà cristiani separati (02/65.54.736), che ha come sottotitolo "Per la tutela dei diritti dei figli nella separazione". Nata come gruppo laico nel ’91, l’associazione, che ha 20 sedi in tutt’Italia e di recente ha proposto un disegno di legge in materia, ha sviluppato un’attenzione specifica all’area cattolica. Emanuele chiede una maggiore sensibilità pastorale dei sacerdoti: "In confessione non dico mai che sono separato. Quando viene fuori, la prima cosa che mi chiedono è: "Convivi?". Ed è una pugnalata al cuore. Vorrei che mi chiedessero: "Soffri molto?", "Ami tua moglie?", "Come va con i tuoi figli?", e poi il resto". Emanuele rivendica una maggiore attenzione ai figli dei separati. "Noi siamo pienamente nella Chiesa, ma spesso questo viene ignorato. Anche per la scelta dei chierichetti, per il Giubileo, si richiede l’appartenenza a una famiglia sana, e si discriminano i figli dei separati". In senso opposto, per il Giubileo, va l’idea che è venuta fuori da più voci, in questa breve inchiesta sul campo: è possibile che il "condono dei debiti" possa estendersi ai peccati per il fallimento del primo matrimonio? "L’indulgenza originariamente era un’amnistia delle "pene accessorie" che venivano imposte insieme con l’assoluzione sacramentale, per esempio l’astenersi per un certo periodo dai rapporti coniugali nella nuova unione", dice don Cereti. "Sarebbe sicuramente segnale di speranza per molti se la grande riconciliazione dell’Anno giubilare potesse essere l’occasione per iniziare una nuova prassi penitenziale nei confronti dei divorziati risposati".

Vittoria Prisciandaro

   

Tribunali ecclesiastici: tempi e costi

DATI: nel 1997 le sentenze di nullità nei 19 tribunali ecclesiastici italiani sono state 3.857. Quelle ancora pendenti erano 4.574.

TEMPI: la durata teorica del procedimento giudiziario canonico è di 1 anno in primo grado e di 6 mesi in secondo grado. I tempi possono però variare a causa della complessità del procedimento o dell’atteggiamento delle parti. COSTI: fino al 1997, il costo di una causa si aggirava tra i 5 e i 7 milioni di lire. Con l’introduzione, il 1° gennaio 1998, della nuova normativa il costo totale a carico di chi inizia il processo è fissato in 700 mila lire. Il tribunale ecclesiastico mette a disposizione un "patrono stabile", sia per la consulenza preliminare che per il patrocinio nel processo. CAUSE: tre sono gli ambiti di motivi che rendono il matrimonio nullo: incapacità della persona (età, impotenza, matrimonio precedente...); consenso (problemi di natura psichica, ignoranza obblighi imposti dal sacramento...); non osservanza della forma canonica (assenza dei testimoni o del ministro sacro, sacerdote o diacono, diverso dal parroco di uno dei due e senza la delega dello stesso...).     

"Il sentire comune della gente e anche in buona parte dei cattolici risulta molto lontano dall’insegnamento morale della Chiesa": è la conclusione del sondaggio realizzato dall’Ispes nel ’91 su "Chiesa e divorziati risposati" e i cui risultati sono pubblicati nel volume Italia cattolica (Vallecchi editore). In riferimento all’accesso ai sacramenti, i tre quarti dei laici intervistati e la metà dei cattolici avevano infatti chiesto di abolire ogni limitazione. Su posizioni opposte appena il 6,9 per cento del campione comune e l’11,1 tra i praticanti. Il 26 aprile del 1979 la Conferenza episcopale italiana, in seguito all’introduzione della legge sul divorzio, pubblicava un documento su "La pastorale dei divorziati risposati e di quanti vivono in situazioni matrimoniali irregolari o difficili". Il testo considera anche le situazioni dei conviventi, dei cattolici sposati solo con il rito civile, dei separati e dei divorziati non risposati. Un’attenzione particolare viene data all’educazione cristiana dei figli e all’azione pastorale preventiva. Ai divorziati risposati e alle situazioni irregolari o difficili sarà dedicato il convegno organizzato a Roma dal 14 al 17 ottobre ‘99 dall’Ufficio famiglia della Conferenza episcopale italiana. L’incontro è rivolto a tutti i responsabili diocesani di pastorale familiare. Tra i temi che verranno affrontati, la qualità dei corsi prematrimoniali (accanto), che seguono uno schema risalente al 1975, la possibilità di itinerari differenziati di formazione, e quella di una pastorale di accompagnamento degli sposi. Per accompagnare il cammino dei divorziati risposati che vogliono partecipare alla vita della comunità ecclesiale la diocesi di Bolzano-Bressanone nell’aprile dello scorso anno, ha elaborato il sussidio pastorale "Colloquio con i divorziati risposati". Su queste tematiche hanno prodotto degli strumenti di lavoro anche Trento (La crisi di coppia, evento fallimentare o occasione di crescita?) e Vicenza (Per una pastorale di accoglienza dei divorziati risposati).




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