I cristiani divorziati e la Chiesa La Chiesa e i divorziati
Un matrimonio su cinque va in crisi. Con queste cifre si capisce
perché quella dei divorziati è, anche dal punto di vista teologico e
pastorale, una questione scottante, con la quale la Chiesa ha il
dovere di fare lealmente i conti.
Maria Vittoria Collenghi insegnava religione in una scuola media
della cintura di Torino. Era brava, dicevano gli altri professori.
Gli studenti le volevano bene, faceva anche volontariato in un
gruppo cristiano della città. Quest’anno però Maria Vittoria ha
perso il lavoro. La Curia della diocesi piemontese le ha tolto
l’incarico. Il motivo? "Non ha rispettato uno dei requisiti
necessari, quello della testimonianza di vita cristiana". Detta in
parole più semplici: Maria Vittoria, 51 anni, separata da tempo,
aveva trovato un nuovo compagno con cui dividere la vita.
Il caso di questa insegnante di religione torinese, esploso qualche
mese fa, ha provocato sulla stampa dibattiti e polemiche. Ma non è
una storia nuova né isolata. È piuttosto l’ultimo esempio in ordine
di tempo di un dramma antico, l’incomprensione tra la Chiesa e i
divorziati credenti.
Apparentemente, la questione del divorzio e delle seconde nozze è
semplice. L’indissolubilità del matrimonio, infatti, è un
comandamento evangelico fondato sulle parole di Gesù: "Ma io vi
dico: chiunque ripudia la propria moglie... e ne sposa un’altra
commette adulterio" (Matteo 19,9). Sulle questioni dottrinali, però,
l’apparenza talvolta inganna. La faccenda è decisamente più
complicata di quanto appaia. Tant’è che un gran numero di teologi
cattolici continuano a interrogarsi sulla questione della
distruzione del matrimonio sacramentale, con tutte le sue
conseguenze, compresa la sorte dei coniugi separati che
desiderassero delle seconde nozze. Vari episcopati nazionali hanno
dovuto emanare regolamenti o documenti pastorali. E anche il
Vaticano sente periodicamente la necessità di tornare sull’argomento
per ribadire la posizione della Chiesa.
Il Magistero, specialmente a partire dalla "Familiaris consortio" del
1981, si è andato precisando in maniera sempre più netta: il
matrimonio sacramentale, se "valido" dal punto di vista canonico, è
indissolubile. Né la Chiesa né il Papa hanno la potestà di cambiare
questa legge che, appunto, deriva dalle "ipsissima verba" del Signore.
Ragion per cui i divorziati risposati, pur non essendo esclusi
completamente dalla comunità ecclesiale, non possono accostarsi
all’Eucaristia. Non possono fare i catechisti in parrocchia o gli
insegnanti di religione nelle scuole. Non possono fare da padrini
nei battesimi e nelle cresime. Non possono essere membri di consigli
pastorali parrocchiali o diocesani.
Tutto risolto e caso archiviato, dunque? Pare proprio di no. Nelle
nostre società occidentali il numero dei divorzi continua a
crescere. In Italia erano 14.460 nel 1982, mentre quindici anni
dopo, nel 1997, erano 33.342. Per non parlare delle separazioni
legali: nel 1977 erano soltanto 7 su 100 matrimoni celebrati nello
stesso anno; nel 1997 erano 22 ogni 100. Praticamente un matrimonio
su cinque va in crisi. Con queste cifre si capisce perché quella dei
divorziati, anche dal punto di vista teologico e pastorale, rimanga
una questione scottante. E si capisce, soprattutto, perché anche le
massime autorità della Chiesa sentano il dovere di fare i conti
lealmente con un nodo delicato dal punto di vista dottrinale, ma
anche sovraccarico delle sofferenze e dei dilemmi che riguardano
centinaia di credenti.
Ultimamente, a gettare il sasso nello stagno è stato il cardinale
Joseph Ratzinger. Il prefetto della Congregazione per la dottrina
della fede ha firmato un’introduzione a un volumetto che raccoglie
studi e contributi "Sulla pastorale dei divorziati risposati"
(Libreria editrice vaticana, 1998). E ha fatto colpo sulla stampa
internazionale.
Nel suo intervento, Ratzinger ribadisce e precisa la tradizionale
posizione della Chiesa. Ma poi aggiunge una considerazione che a
molti è sembrata un’apertura: "Ulteriori studi approfonditi",
afferma il cardinale, "esige la questione se cristiani non credenti
– battezzati che non hanno mai creduto o non credono più in Dio –
veramente possano contrarre un matrimonio sacramentale. In altre
parole: si dovrebbe chiarire se veramente ogni matrimonio tra due
battezzati è ipso facto un matrimonio sacramentale".
Il ragionamento del prefetto è questo: dal momento che la fede è
parte dell’essenza del sacramento, "l’evidenza della non fede" ha
come conseguenza che il sacramento non si realizzi. E visto che,
secondo il Codice di diritto canonico del 1983, "anche le
dichiarazioni delle parti hanno forza probante", non è impensabile
che in un prossimo futuro, per ottenere la dichiarazione di nullità
del matrimonio da un tribunale ecclesiastico, i coniugi possano
presentarsi con una dichiarazione in cui affermano che al momento
del "sì" all’altare non avevano la fede.
Le parole di Ratzinger sono misurate e prudenti. Richiamano alla
necessità di nuovi "studi approfonditi". Ma se questa ipotesi
passasse, sarebbe una rivoluzione. Basta fare qualche calcolo "a
spanne": in Italia circa l’80% dei matrimoni viene celebrato con
rito religioso; è noto che i credenti praticanti sono circa il 30%
della popolazione. Ne consegue che migliaia di coppie sposate in
chiesa – quantomeno tutti coloro che fossero disposti ad affermare
pubblicamente di non credere in Dio – avrebbero buone probabilità
di ottenere la dichiarazione di nullità da
parte di un tribunale rotale.
Come è stato accolto negli ambienti teologici italiani l’intervento
del cardinale? E a che punto è il dibattito oggi? Don Franco
Ardusso, docente alla Facoltà teologica di Torino, dice: "L’apertura
del cardinale non è del tutto una novità, dal momento che se è vero
che i sacramenti sono sacramenti della fede, è chiaro che se non c’è
fede non può esserci neppure sacramento. In passato si presumeva
che due battezzati che desideravano sposarsi in chiesa fossero sempre
dei credenti. In realtà, oggi, questa è un’ipotesi tutta da
verificare. Certo, bisognerebbe fare la verifica prima di celebrare
il matrimonio. E probabilmente qui c’è un po’ di superficialità da
parte dei sacerdoti che magari "sbrigano la pratica" in modo
formale. D’altronde è anche un esame difficile, perché ovviamente la
fede non si può misurare in maniera scientifica. Ha ragione
Ratzinger a dire che servono ulteriori studi. Dopodiché servono
delle regole chiare per tutti. Altrimenti ci troveremo sempre nella
situazione confusa di oggi, per cui si può incontrare un prete
rigidissimo nell’ammissione degli sposi al sacramento e un altro
assai lassista".
"Detto questo, però", aggiunge Ardusso, "c’è da notare che il
discorso del cardinale Ratzinger riguarda soltanto i battezzati che
non sono credenti. Rimane il problema di cosa fare con i cattolici
seri, praticanti, che hanno avuto la sventura di vivere il dramma
del divorzio. È vero che l’attenzione pastorale nei loro confronti
non può condurre a compromessi con la verità, come ricorda la
Congregazione per la dottrina della fede. Ma la verità va vista "in
situazione", senza cadere con questo nell’"etica della situazione".
C’è la verità di un principio, ma probabilmente c’è anche la verità
di persone che vivono situazioni che vanno attentamente
considerate".
Molto critico sull’intervento del cardinale Ratzinger è don Basilio
Petrà, ordinario di Teologia morale alla Facoltà teologica
dell’Italia centrale di Firenze e autore di un volume dal titolo Il
matrimonio può morire? (Dehoniane, Bologna): "La scelta di fondo
della Congregazione per la dottrina della fede", spiega Petrà, "è di
offrire una soluzione al problema dei divorziati risposati
attraverso un aumento delle possibilità di nullità del matrimonio.
Ma questa via "giuridico-casuistica" presenta rischi gravissimi.
Imporre un’egemonia canonica sul matrimonio significa trasformarlo
in una realtà da tribunale. Ampliando il ventaglio dei casi, ogni
matrimonio a posteriori potrebbe essere facilmente dimostrabile come
nullo. I tribunali rischiano di diventare una fabbrica di nullità.
Puntando tutto sulla via canonica, inoltre, si incoraggia
l’ipocrisia e si esteriorizza il rapporto del matrimonio cristiano.
Esso viene a perdere la sua consistenza di atto di fede".
Don Petrà, che è anche professore all’Accademia Alfonsiana e al
Pontificio Istituto orientale, sostiene un’altra ipotesi, che
peraltro è stata criticata dall’Osservatore Romano. "A mio
giudizio", dice il teologo, "la questione va riportata all’ambito
suo proprio, che è la pastorale. La mia posizione è stata spesso
malamente interpretata. Io non sostengo che il matrimonio cristiano
può morire, tutt’altro. Ritengo però che la Chiesa abbia l’autorità,
ad alcune condizioni, di ammettere a nuove nozze o, come direbbero i
canonisti, di "togliere l’impedimento di legame". Questa potestà
della Chiesa è simile a quella esercitata dall’apostolo Paolo che
ammise le nuove nozze per i vedovi con la motivazione che "è meglio
sposarsi che ardere". Certo è solo una concessione, non è l’ideale
cristiano, ma è una potestà che la Chiesa ha realmente utilizzato e
continua a utilizzare nelle Chiese orientali".
Concretamente, spiega don Petrà, "si dovrebbero verificare alcune
condizioni: l’irreparabile fine della prima unione, la conversione e
la penitenza, un vero cammino di fede testimoniato dalla comunità
cristiana. A livello diocesano si potrebbero costituire delle
commissioni pastorali che avrebbero il compito di valutare il
cammino della coppia che chiede le nuove nozze, il loro rapporto con
la Chiesa, il loro impegno religioso. A quel punto potrebbe venire
l’ammissione a nuove nozze".
Una posizione simile a questa del teologo fiorentino è propugnata da
don Giovanni Cereti, che ha pubblicato una ricerca su "Divorzio,
nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva", che di recente è
stata ristampata in seconda edizione. Fondandosi sull’esperienza
delle comunità cristiane dei primi secoli, don Cereti ritiene che
"la Chiesa ha il potere di assolvere tutti i peccati, compreso
quello di coloro che sono venuti meno al proprio impegno coniugale.
Certo, il matrimonio deve essere indissolubile e il cristiano deve
essere fedele al patto coniugale. Ma se per disgrazia pecca e viene
meno al proprio impegno, la Chiesa può offrire una via penitenziale:
di espiazione, conversione e infine di assoluzione dal peccato
gravissimo di adulterio nel senso inteso da Matteo (19,9).
L’approccio giuridico, invece, non risolve i casi. Dichiara nullo un
matrimonio, come non fosse mai esistito. Così che i figli sono nati
da un’unione fantasma e il coniuge non ha diritto agli alimenti".
Un altro noto studioso di teologia morale, don Giannino Piana,
riconosce che la Chiesa ha fatto grandi passi avanti dopo il
Concilio Vaticano II: "Prima, i divorziati risposati venivano
abbandonati e marginalizzati. Oggi c’è una maggiore disponibilità a
farli sentire parte della comunità cristiana". Ma aggiunge: "Credo
che bisognerebbe riaprire teologicamente la riflessione sul
significato dell’indissolubilità del matrimonio. Non soltanto per le
ragioni di Cereti e Petrà, che si rifanno alla tradizione orientale
e ai primi secoli della Chiesa, ma anche perché nei Vangeli la
riflessione sull’indissolubilità è inserita nel contesto del
"Discorso della Montagna". Si tratta cioè di indicazioni
profetico-escatologiche, non precettistiche. Danno normative al
credente, ma nel senso di un ideale da perseguire".
Come si vede, il dibattito è piuttosto articolato e tutt’altro che
spento. Padre Luigi Lorenzetti, dehoniano, direttore della Rivista
di Teologia morale, conclude: "La situazione dei divorziati
risposati interpella anche i teologi. È auspicabile che la ricerca
teologica possa trovare il suo spazio legittimo. Certamente il nuovo
non è sinonimo di vero, ma bisogna dare tempo all’autocorrezione,
cioè al confronto/scontro delle diverse ipotesi all’interno della
riflessione teologica. Invece talvolta si ha l’impressione che
alcuni problemi, in particolare questi del matrimonio, non siano
sufficientemente approfonditi, anche perché vengono subito diffidati
e chiusi d’autorità".
Giovanni Ferrò
Il problema dei divorziati risposati interpella da tempo
gli episcopati locali. Nel 1993 tre vescovi tedeschi
(Lehmann, Kasper e Saier) si dissero favorevoli alla
possibilità di ammetterli all’Eucaristia se essi, dopo
un incontro con un prete, avessero ritenuto in coscienza
di esservi autorizzati. Il Vaticano criticò però questa
posizione.
Quella del divorzio è anche una questione di rilevanza
ecumenica, nel senso che divide la Chiesa cattolica
dalle Chiese ortodosse e protestanti. La tradizione
orientale, rifacendosi al principio della oikonomia (la
prevalenza della misericordia sulla rigida applicazione
della legge), ammette la possibilità di una benedizione
di seconde e terze nozze. Le Chiese della Riforma, dal
canto loro, sostengono in linea di principio
l’indissolubilità del matrimonio, ma rispettano la
coscienza dei fedeli, consentendo ai divorziati di
risposarsi in chiesa e di accostarsi all’Eucaristia.
Molti sono i teologi cattolici che in questo secolo
hanno affrontato la questione spinosa del divorzio. A
livello internazionale uno dei nomi più noti è padre
Bernhard Häring, di cui è disponibile in Italia
"Pastorale dei divorziati. Una strada senza uscita? "
(Dehoniane, Bologna 1990). Più recente il volume di
Basilio Petrà, Il matrimonio può morire? (Edb, 1996).
Risalgono invece agli anni ’70 due volumi di don
Giovanni Cereti, editi sempre dalle Edb: "Matrimonio e
indissolubilità: nuove prospettive" e "Divorzio, nuove
nozze e penitenza nella Chiesa primitiva".
La Chiesa e i divorziati - Esperienze pastorali
La solitudine dei "clandestini"
"Q uando ci siamo sposati c’erano tre preti. Al momento della
separazione eravamo soli". Poche parole per due istantanee: una a
colori, spensierata, per la festa che segna l’inizio di una nuova
famiglia; l’altra in bianco e nero, drammatica, che ritrae un doppio
addio: dal compagno di vita e dalla comunità ecclesiale. È infatti
esperienza di tanti credenti separati o divorziati risposati
allontanarsi dalla Chiesa. "Non ci si sente accolti, perché spesso
sono proprio i "buoni cristiani" che giudicano di più", dice Elio
Cirimbelli, 52 anni, agente di commercio.
"Come tanti disperati non sapevo dove sbattere la testa", afferma
Cirimbelli, che ha "subìto" la separazione venti anni fa. Iniziò
allora a frequentare un gruppo di alcolisti anonimi gestito da un
amico: "Lì ho trovato tante persone che provenivano da famiglie
disgregate...". Da quell’esperienza nacque l’idea di dare vita al
"Centro assistenza separati e divorziati". "Chi viene da noi ha
l’idea di una Chiesa lontana, chiusa, che porta con sé tanta
sofferenza". Proprio in qualità di presidente dell’Asdi Cirimbelli è
stato chiamato a partecipare al "Colloquio con i divorziati
risposati" promosso dalla diocesi di Bolzano-Bressanone lo scorso
anno. "Monsignor Egger, il mio vescovo, ha fatto un atto coraggioso.
Molti hanno paura, pensano che affrontare con chiarezza certi
problemi significhi legittimarli". Oggi il signor Elio ha una nuova
famiglia e partecipa alla vita della comunità parrocchiale della
quale accetta "le regole imposte pur senza condividerle". Annota:
"Al momento della comunione le panche si svuotano, rimaniamo al
banco io e mia moglie. Nostra figlia si accosta da sola al
sacramento. L’abbiamo accompagnata soltanto il giorno della prima
comunione. Adesso aspettiamo la cresima".
Proprio nell’aprile di venti anni fa la Conferenza episcopale
italiana approvava una Nota su "La pastorale dei divorziati
risposati" in cui si dice che questi ultimi "devono volentieri
lasciarsi coinvolgere in tutte quelle opere materiali e spirituali
di carità che edificano la comunità ecclesiale". Un riconoscimento
che però, afferma Cirimbelli, "lascia dell’amaro in bocca, perché ci
si sente accolti a metà: è come invitare qualcuno a pranzo ma poi
dirgli di non toccare cibo. Io sono arrivato alla consapevolezza che
l’Eucaristia non è l’unico canale di salvezza. Ma quanti come me
hanno avuto la fortuna di poter fare questo cammino?".
Non molti, probabilmente. Anche perché esperienze come quella della
diocesi di Bolzano si contano sulle dita di una mano: Vicenza,
Trento, Como e poche altre. Molti parroci, spesso interpellati da
storie di coppie nate, cresciute, sposate e fallite in parrocchia,
si sono inventati dei percorsi di inserimento nella vita di
comunità.
Altri sacerdoti, invece – come spiega lo strumento di lavoro sulla
"Crisi di coppia", realizzato a Trento per "Responsabilizzare le
comunità cristiane sul disagio relazionale degli sposi"–, sono tanto
"impegnati nei compiti legati all’azione pastorale" da correre "il
rischio di slittare da una pastorale di comunione a una pastorale di
efficienza organizzativa" e "di non avere più il tempo da dedicare
alle relazioni interpersonali". Una conferma in questo senso viene
dalla tesi di licenza sostenuta da Giuliano Trevisiol alla Facoltà
teologica dell’Italia settentrionale lo scorso anno: "Si ha
l’impressione che la pastorale delle persone che vivono situazioni
matrimoniali irregolari sia un "capitolo taciuto" della pastorale".
Sulla base di un sondaggio somministrato a 247 parroci e 43 vicari
parrocchiali di una diocesi del Nordest, Trevisiol constata "una
reale sottostima del fenomeno. L’atteggiamento di approccio dei
presbiteri", dice, "sembra essere caratterizzato dalla occasionalità
e quasi sempre avviene in situazioni istituzionali (sacramento dei
figli 46%, visita alle famiglie 37%, confessione 7%, a richiesta
degli interessati 5%)".
Solo il 12 per cento dei sacerdoti intervistati dichiara di aver
assunto come preciso impegno pastorale l’incontro diretto con queste
persone. Circa le indicazioni magisteriali sulla non ammissione alla
comunione dei divorziati risposati, per il 52% da un punto di vista
dottrinale la linea "non può che essere questa", anche se
pastoralmente solo il 15% dei preti la ritiene corretta ed
equilibrata. Per il 46% dovrebbe essere più flessibile, mentre per
il 19% essa non è per niente adeguata ad aiutare le persone.
Restando in questo ambito, il 47% degli intervistati concede
l’assoluzione e quindi permette l’accesso dei divorziati risposati
all’Eucaristia "in determinati casi" o in mancanza di colpa da parte
dell’interessato. In altri casi vescovi e pastori consigliano alla
persona che si sente in coscienza a posto di fronte a Dio di
accedere direttamente all’Eucaristia.
Una soluzione, questa, che non convince il teologo Giovanni Cereti:
"In questo modo la comunità ecclesiale carica la coscienza del
singolo e non si assume le proprie responsabilità. Dovrebbero essere
i vescovi, le Chiese locali a istituire un sistema penitenziale e al
termine – qualora il pentimento si mostri sincero, i doveri nei
confronti del coniuge e dei figli siano pienamente adempiuti –
assolvere dal peccato commesso e consentire la possibilità di un
nuovo inizio di fronte alla comunità. E non solo clandestinamente
come di fatto già avviene".
Ma cosa ne pensano i parroci? "Non me la sento di immettermi su una
strada diversa dalla Chiesa. I sacramenti non sono miei", dice don
Antonio Nicolai, parroco di Santa Lucia a Roma e assistente della
"Équipe Notre Dame", che ha inserito alcune coppie di divorziati
risposati in un cammino di spiritualità coniugale. Un tasto su cui
battere, secondo don Nicolai, per il problema dell’accesso ai
sacramenti è "la strada dell’annullamento del primo matrimonio".
Anche don Gimmy Baldo, a Bolzano, nella parrocchia di Tre Santi
segue "diverse persone, separate o divorziate, che fanno un cammino
insieme a tutti gli altri. Le aiuto a darsi dei criteri per
comprendere, per non essere superficiali. Poi sono loro a scegliere,
ma senza mettersi in mostra. La coscienza va sempre al primo posto".
Già, la coscienza: il luogo dove sono a confronto la verità della
tua relazione con Dio e il giudizio che leggi negli occhi degli
altri. "Ero cresciuta in parrocchia con quello che poi è diventato
mio marito. La separazione l’ho chiesta io", racconta Susanna
Melchiorri, 36 anni, consigliera comunale a Bolzano, con
l’esperienza di due anni nel cammino neocatecumenale. "So che ho
tradito una promessa, ma sto pagando tanto. Se in Chiesa sei
impegnata e sei un personaggio pubblico, vieni doppiamente messa al
bando. In coscienza ho preso la decisione più opportuna rispetto al
rapporto che avevo, ma così sono fuori. E non mi sembra giusto: cosa
ho fatto più di un assassino, di uno stragista?". Ribellione,
rabbia, allontanamento e poi l’incontro con un sacerdote attento, e
piano piano il riavvicinarsi a una nuova comunità parrocchiale. "Mi
è stata data anche la possibilità di leggere dal pulpito. In questi
casi mi guardo intorno, per vedere se c’è qualcuno che mi conosce.
Perché a messa mi sento sempre di serie B". Susanna ha scelto di
restare nella condizione di "single": "Così mi sento meno colpevole
e posso continuare ad accedere all’Eucaristia. Se decidessi di
rifarmi una vita dovrei accollarmi il peso di un altro peccato. E
non ci riuscirei".
È un carico enorme di sofferenza, spesso ignorata, che alle Chiese
locali chiede spazi di confronto ma anche momenti di preghiera e di
crescita comune. È quanto si sta tentando di fare a Como e a
Vicenza. "Abbiamo cercato di leggere i documenti della Chiesa e di
interpretarli nel senso più aperto possibile", dice don Battista
Borsato, direttore dell’Ufficio matrimonio e famiglia della diocesi
di Vicenza. La bozza di documento pastorale, stilata con i
rappresentanti di tutti i decanati e di alcune coppie di divorziati
risposati, è stata poi approvata dal vescovo.
Dal ’97 la diocesi promuove incontri mensili sulla Parola di Dio per
oltre una ventina di coppie di divorziati-risposati e momenti di
aggiornamento per operatori pastorali su accoglienza, prassi e
soprattutto prospettive ("Se la morte affettiva è irreversibile",
dice ancora don Borsato, "e se possa paragonarsi a morte fisica;
domandarsi se l’indissolubilità che il Vangelo propone è giuridica o
una profezia verso cui tendere; di fronte a un coniuge abbandonato
capire se è possibile pensare a una forma di comunione
sponsale..."). "Dobbiamo avere l’umiltà della ricerca, ma anche il
coraggio di confrontarci con la Parola che offre sempre nuovi
sensi".
A Como si è partiti invece qualche anno prima, nel ’92. "Come
équipe-famiglie di Azione cattolica ci siamo posti il problema",
dice don Italo Mazzoni, assistente unitario di Ac e responsabile per
la catechesi nella diocesi di Como. "Ne abbiamo parlato in diocesi,
con i parroci e con alcune coppie. È venuto fuori il desiderio di
confrontarsi e di pregare insieme. Da allora una volta al mese ci si
incontra a livello diocesano. A una riunione ha partecipato anche il
vicario episcopale. Inoltre in Avvento e Quaresima si tiene un
incontro nelle parrocchie e a maggio in un santuario mariano". Non
ama la pubblicità a questa iniziativa don Italo, ed esprime un
timore: "Non vorrei che nascessero gruppi "di divorziati": questa
non è una caratteristica che unisce ma piuttosto un dolore comune
che permette di fare un pezzetto di strada insieme. L’idea è quella
di inserire poi ogni persona nel cammino comunitario delle
parrocchie".
Della stessa idea padre Giordano Muraro, domenicano, uno dei
fondatori del "Punto Famiglia" di Torino. Dopo aver fatto un
seminario di studio sul tema è arrivato alla conclusione che non si
debba "fare nulla di particolare, perché si rischia di ghettizzare".
Il Centro di Torino (011/44.75.906) ha approfondito il problema dei
figli dei separati, promuovendo incontri di formazione per genitori.
"Le persone vanno aiutate a comprendere che esiste tutta una
ricchezza di grazia che nasce dalla Parola di Dio, dalla preghiera,
dalla partecipazione alla vita delle comunità... insomma, non un
cammino parallelo, ma dei momenti puntuali per queste persone in
un contesto comunitario più ampio".
Di parere diverso è invece Ernesto Emanuele, ingegnere, 64 anni, tre
figli, vicino al movimento dei Focolari: "Solo chi ci è passato ha
una sensibilità a 360°". A Milano ha fondato con altri
l’Associazione per mamme e papà cristiani separati (02/65.54.736),
che ha come sottotitolo "Per la tutela dei diritti dei figli nella
separazione". Nata come gruppo laico nel ’91, l’associazione, che ha
20 sedi in tutt’Italia e di recente ha proposto un disegno di legge
in materia, ha sviluppato un’attenzione specifica all’area
cattolica. Emanuele chiede una maggiore sensibilità pastorale dei
sacerdoti: "In confessione non dico mai che sono separato. Quando
viene fuori, la prima cosa che mi chiedono è: "Convivi?". Ed è una
pugnalata al cuore. Vorrei che mi chiedessero: "Soffri molto?", "Ami
tua moglie?", "Come va con i tuoi figli?", e poi il resto". Emanuele
rivendica una maggiore attenzione ai figli dei separati. "Noi siamo
pienamente nella Chiesa, ma spesso questo viene ignorato. Anche per
la scelta dei chierichetti, per il Giubileo, si richiede
l’appartenenza a una famiglia sana, e si discriminano i figli dei
separati".
In senso opposto, per il Giubileo, va l’idea che è venuta fuori da
più voci, in questa breve inchiesta sul campo: è possibile che il
"condono dei debiti" possa estendersi ai peccati per il fallimento
del primo matrimonio? "L’indulgenza originariamente era un’amnistia
delle "pene accessorie" che venivano imposte insieme con
l’assoluzione sacramentale, per esempio l’astenersi per un certo
periodo dai rapporti coniugali nella nuova unione", dice don Cereti.
"Sarebbe sicuramente segnale di speranza per molti se la grande
riconciliazione dell’Anno giubilare potesse essere l’occasione per
iniziare una nuova prassi penitenziale nei confronti dei divorziati
risposati".
Vittoria Prisciandaro
Tribunali ecclesiastici: tempi e costi
DATI: nel 1997 le sentenze di nullità nei 19 tribunali
ecclesiastici italiani sono state 3.857. Quelle ancora pendenti
erano 4.574.
TEMPI: la durata teorica del procedimento giudiziario canonico è
di 1 anno in primo grado e di 6 mesi in secondo grado. I tempi
possono però variare a causa della complessità del procedimento
o dell’atteggiamento delle parti.
COSTI: fino al 1997, il costo di una causa si aggirava tra i 5 e
i 7 milioni di lire. Con l’introduzione, il 1° gennaio 1998,
della nuova normativa il costo totale a carico di chi inizia il
processo è fissato in 700 mila lire. Il tribunale ecclesiastico
mette a disposizione un "patrono stabile", sia per la consulenza
preliminare che per il patrocinio nel processo.
CAUSE: tre sono gli ambiti di motivi che rendono il matrimonio
nullo:
incapacità della persona (età, impotenza, matrimonio
precedente...);
consenso (problemi di natura psichica, ignoranza obblighi
imposti dal sacramento...);
non osservanza della forma canonica (assenza dei testimoni o
del ministro sacro, sacerdote o diacono, diverso dal parroco
di uno dei due e senza la delega dello stesso...).
"Il sentire comune della gente e anche in buona parte
dei cattolici risulta molto lontano dall’insegnamento
morale della Chiesa": è la conclusione del sondaggio
realizzato dall’Ispes nel ’91 su "Chiesa e divorziati
risposati" e i cui risultati sono pubblicati nel volume
Italia cattolica (Vallecchi editore). In riferimento
all’accesso ai sacramenti, i tre quarti dei laici
intervistati e la metà dei cattolici avevano infatti
chiesto di abolire ogni limitazione. Su posizioni
opposte appena il 6,9 per cento del campione comune e
l’11,1 tra i praticanti.
Il 26 aprile del 1979 la Conferenza episcopale italiana,
in seguito all’introduzione della legge sul divorzio,
pubblicava un documento su "La pastorale dei divorziati
risposati e di quanti vivono in situazioni matrimoniali
irregolari o difficili". Il testo considera anche le
situazioni dei conviventi, dei cattolici sposati solo
con il rito civile, dei separati e dei divorziati non
risposati. Un’attenzione particolare viene data
all’educazione cristiana dei figli e all’azione
pastorale preventiva.
Ai divorziati risposati e alle situazioni irregolari o
difficili sarà dedicato il convegno organizzato a Roma
dal 14 al 17 ottobre ‘99 dall’Ufficio famiglia della
Conferenza episcopale italiana. L’incontro è rivolto a
tutti i responsabili diocesani di pastorale familiare.
Tra i temi che verranno affrontati, la qualità dei corsi
prematrimoniali (accanto), che seguono uno schema
risalente al 1975, la possibilità di itinerari
differenziati di formazione, e quella di una pastorale
di accompagnamento degli sposi.
Per accompagnare il cammino dei divorziati risposati che
vogliono partecipare alla vita della comunità ecclesiale
la diocesi di Bolzano-Bressanone nell’aprile dello
scorso anno, ha elaborato il sussidio pastorale
"Colloquio con i divorziati risposati". Su queste
tematiche hanno prodotto degli strumenti di lavoro anche
Trento (La crisi di coppia, evento fallimentare o
occasione di crescita?) e Vicenza (Per una pastorale di
accoglienza dei divorziati risposati).
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