Diritti umani e diritto nella Chiesa cattolica

di Francesco Zanchini, Ordinario di Diritto canonico, Università di Teramo

Mi è stato chiesto di esprimermi "sui diritti umani nella Chiesa", considerando come questi vi risulterebbero troppo frequentemente violati, o non tenuti in conto abbastanza. Come giurista, non posso non condividere il richiamo alla cautela, che molti autori (dei quali non pochi sinceramente progressisti) raccomandano di usare nel corso dei tentativi, tanto frequenti quanto incauti, di porre in atto una sorta di innesto di principi ed istituti del costituzionalismo moderno, che si vorrebbero trasferire sic et simpliciter nell'ordinamento della Chiesa. Su questo punto, il massimo livello di delucidazione dottrinale di tale problematica resta ancora - mi sembra- il Convegno di Friburgo (CH) del 1980 sui "Diritti fondamentali fondamentali del cristiano nella chiesa e nella società", gli atti del quale vennero poi stampati a Milano presso Giuffrè, nell'anno successivo. Ed una mia comunicazione a quel Convegno esprimeva il tentativo di battere la via di una relativizzazione drastica del valore della legge ecclesiale, rifacendosi fra l'altro alla distinzione fra legge e diritto in Rosmini, il quale ritiene la persona "il diritto sussistente". Credo che il problema rimanga non solo attuale, ma che impostarlo correttamente costituisca un obiettivo centrale per ricostituire quel clima di rispetto dei carismi nella Chiesa da parte dell'Autorità (e non solo di questa), dal quale in ultima analisi dipende lo stato di salute della comunione ecclesiale stessa. Ho quindi molto apprezzato l'intervento di Paul Valadier su Choisir, che propone nuovamente, ma in modo nuovo e creativo, il richiamo ai principi dell'89 come ad un modello pertinente, che una prassi disciplinare sorda al richiamo dell'equità canonica e capace soltanto di rigore verso il prossimo rende, col tempo, sempre meno paradossale.

Dignità della persona e attività del magistero: due valori da bilanciare

La linea attuale del pontificato sta perdendo, in termini di guida dottrinale e disciplinare, il contatto con principi essenziali della comunione ecclesiale, come quelli del pluralismo compatibile e del primato nella fraternità. A mio parere, ci si trova sempre più di fronte al rischio di un sistema poliziesco esente da controlli e destinato ad autoalimentarsi col sospetto: sistema la cui esistenza potrebbe legittimare, da sé sola, forme opportune di esercizio di quel diritto di resistenza, cui lo stato di necessità (derivante dall'essersi un regime sospinto oltre i limiti della tollerabilità) costringe il popolo- come dovere supremo di collettiva lealtà alla costituzione- nell'ordinamento ecclesiale come in ogni ordinamento della storia. Del resto, da più di vent'anni questo diritto lo abbiamo visto esercitarsi nonostante purghe ed epurazioni, che per molti versi sono segno di una paura crescente dei custodi di una stabilità malata. Ma in realtà, è possibile fare qualcosa di più e di diverso che praticare una contestazione culturale tesa a erodere lentamente, dall'interno, le intime giunture del braccio armato di un sistema di controllo, che in null'altro ha fiducia che nell'intimidazione? Può mai la persecuzione cessare altrimenti, se non mediante la constatazione della propria inutilità? Bene, forse qualcos'altro si può fare: se ci fosse consentito almeno di trarre esempio dalla memoria di quel clima comunionale della Chiesa antica, da cui discende il grande richiamo giovanneo e conciliare alla "medicina della misericordia": una medicina a tutto campo, che include noi stessi e gli altri nello stesso atteggiamento di com-passione, impedendo al pur necessario esercizio della disciplina di spiegarsi senza adeguate cautele istruttorie e senza prospettive di successiva, dignitosa riabilitazione.

L'esempio della Chiesa antica

Sappiamo di allora cosa fosse l'agape, e in che cosa il rifiuto di condividerla con qualcuno mostrasse ad un tempo la dolorosa amarezza dell'offeso e la ricerca di un dialogo più intenso e trasparente, preordinato ad un nuovo e più profondo rapporto. Sappiamo come le lettere di comunione - e la presenza dei capi di chiesa nei dittici- fosse segno di un pluralismo pienamente accettato, segno di quella "pace di Cristo" che sfida la diversità, esaltandola come un dono dello Spirito. Conosciamo il rapporto di immedesimazione vicendevole fra Chiesa ed eucarestia e. di conseguenza, come le nozioni di peccato e di scomunica fossero tra loro inestricabilmente connesse, così da dare allo stesso ordo poenitentium uno statuto specifico nell'ambito della comunione ecclesiale-liturgica. Sappiamo, del pari, quanto il sistema dottrinale si radicasse sul consenso del popolo di Dio, al punto che il contenuto dei dogmi si inferiva assai meno dalla sentenza dei teologi, che non dalle formule battesimali pronunciate nell'esperienza vivente della Chiesa in preghiera. Questo sappiamo e questo dovrebbe bastarci: almeno per capire che buona parte del resto, derivata com'è da una assimilazione, impropria, con effetto per molti aspetti scismatico, di importanti istituti del diritto pubblico romano tardo-antico (potestas, jurisdictio, ecc.) divide il corpo di Cristo e perverte il vero senso del diritto ecclesiale, creandone una versione mistificata che, non del tutto a torto, R. Söhm vedeva in contraddizione non rimediabile con il messaggio del Nuovo Testamento (del resto, nella sua Teoria generale del diritto il grande Carnelutti, nel rilevare come la Chiesa fosse fondata sull'amore più che su un sistema di stretta legalità, formulava per essa l'idea di un ordinamento, nel quale fosse presente "sempre meno diritto").

La "Rechtstheologie": un'occasione mancata.

La scuola di Monaco è stata senza dubbio la risposta più organica alle critiche preconciliari al giuridismo dell'età anteriore, in quanto riflessione più attenta sulla funzione gerarchica e compiuta sistemazione di questa in un rapporto più persuasivo e articolato fra sacra potestas e communio fidelium. Per certi versi , si potrebbe perfino riscontrarvi uno sforzo di entrare in dialogo - decisamente encomiabile- con le posizioni protestanti. Purtroppo, la provenienza degli allievi di Marsdorf da Facoltà teologiche e l'insufficienza di formazione storico-giuridica di molti di essi ha loro impedito di percepire, in tutto il suo spessore di ambiguità, la natura profonda del diritto ecclesiale. Il risultato paradossale di queste carenze può riconoscersi nel fatto che la teologia di Curia non ha dovuto troppo affaticarsi ad ing1obare e metabolizzare il contributo della Rechtstheologie a sostegno di una visione ancor più sacralizzata di quella gregoriana del potere gerarchico e delle sue forme di esercizio.

Una proposta "nuova ed antica"

Per vedere un giorno attuarsi in forme nuove un'idea originale ed interessante come quella del Carnelutti, forse non sarebbe neppure necessario troppo indebolire le strutture istituzionali, mediante le quali oggi si esplica il ministero di guida dottrinale nella Chiesa universale, elemento centrale della sollicitudo omnium ecclesiarum della Santa Sede (e dei vescovi). Depurato da connotazioni terroristiche ormai superate e conformato finalmente a principi essenziali di civiltà giuridica (non escluso quello di sussidiarietà), l'attuale sistema potrebbe sopravvivere anche in alcuni suoi aspetti di sommarietà istruttoria e di pronta messa in esecuzione delle decisioni, ferma la regola del concerto con l'autorità diocesana competente. Vi è però una condizione irrinunciabile, ed è quella che ogni verdetto si assoggetti a periodica revisione nelle sedi collegiali periferiche, che ne diverrebbero il bacino ultimo di ricezione convinta, o di convinta revisione. Dopo un certo tempo, si dovrebbe cioè dare all'autorità pastorale locale la facoltà di mettere alla prova dell'opinione pubblica dei fedeli 1'utilità in Donum animarum del persi5iere della pena. Se fosse questo, come sembra, il significato più probabile della regola della revisione sinodale delle scomuniche pronunciate dai vescovi - regola costante nella tradizione antica- ci si troverebbe di fronte non a un appello che ne vulnererebbe l'autorità, bensì ad un controllo successivo sulla persistenza di quegli estremi - veri, o presunti - di incorreggibilità, che, in origine resero inevitabile il ricorso a misure che (in un ordinamento di comunione) non possono non essere in via di principio considerate con sfavore. In tal modo, la dislocazione presso la comunità locale di un potere di grazia compenserebbe 1'accentramento nella istanza gerarchica (vescovi - Santa Sede), oggi preponderante, della funzione giustiziale-coercitiva. Si eliminerebbero oltre tutto, col ripristino della regola antica, quelle connotazioni di irretrattabilità che le sanzioni ecclesiastiche, nel contesto attuale, inevitabilmente sono destinate ad assumere, con esiti non di rado distruttivi. Invero, per i più vari motivi oggi i vescovi non sono quasi mai propensi all'uso di quei poteri di remissione/revisione, che pure l'ordinamento loro attribuirebbe con ampiezza considerevole.

Solo questa possibilità di messa in questione della condanna ecclesiastica lungo l'arco della sua esecuzione (e nel rispetto di tempi accettabili) sarebbe misura capace di legittimarla e sostenerla con quel consenso del popolo cristiano che dell'autorità non è origine, ma piuttosto ragione di esistenza; in tal modo agevolando il rientro della prassi disciplinare attuale in un'area di compatibilità evangelica, che oggi non a torto le viene contestata. Si tratterebbe, oltre tutto, di un significativo gesto di avvicinamento ecumenico verso quella sponda protestante dalla quale - come è stato ben detto da Congar: "Rudolf Söhm nous interroge encore".

 

Novembre 1998

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