Dom Helder Camara il profeta di una Chiesa di Domenico Jervolino
Dom Helder Camara se n'è andato. Dom come si usa in Brasile (e anche in certi ordini religiosi) per far risaltare la derivazione dal latino dominus. Probabilmente per i giovanissimi è uno sconosciuto e la sua morte è solo una delle tante notizie di un telegiornale di fine agosto, tra gli incidenti stradali del rientro e l'ultima di cronaca nera. Dal 1985, quando era andato in pensione, sostituito da un conservatore alla guida della diocesi di Recife, nel poverissimo Nord-Est brasiliano, se ne sentiva parlare sempre meno. Eppure è stato uno dei protagonisti del suo tempo e un punto di riferimento per milioni di uomini e donne, non solo del suo paese e non solo fra i cattolici. Che lo chiamassero il vescovo rosso per essere stato sempre schierato dalla parte del popolo contro dittatori e grandi proprietari terrieri, è solo uno dei motivi per cui la sua figura merita di essere ricordata. Quello che è necessario sottolineare che nel caso di dom Helder non si è trattato della scelta di un singolo o di un piccolo gruppo di individui illuminati e coraggiosi come ce ne sono stati tanti nel corso della storia, anche nella storia della chiesa cattolica, che è una realtà complessa e non si presta a letture semplificatrici. Appena qualche giorno fa, il 20 agosto abbiamo ricordato il bicentenario dei martiri della Repubblica partenopea; anche tra loro c'era un vescovo, mons. Natale, vescovo di Vico, e c'erano alcuni sacerdoti, che certamente però non rappresentavano la maggioranza del clero e dei fedeli. Dom Helder è stato, invece, l'espressione di un fenomeno di massa che ha segnato profondamente una fase storica del Novecento, un pezzo della storia dell'America Latina e del mondo contemporaneo. Dom Helder non è stato il solo e nemmeno il più radicale dei vescovi brasiliani e latino-americani che, sull'onda del Concilo Vaticano II, hanno dato vita, a partire dagli anni Sessanta, a un processo di rinnovamento sociale e religioso che si espresso culturalmente nella "teologia della liberazione" e sul piano della vita quotidiana dela Chiesa in una riscoperta dela dimensione comunitaria in decine di migliaia di comunità di base che a differenza di quelle europee trovavano referenti e coordinamento nei vescovi e nell'organizzazione ufficiale della Chiesa cattolica. Direttamente o indirettamente questo tipo nuove di realtà ecclesiale ha alimentato in mille forme non solo le esperienze tradizionali di solidarietà sociale, ma anche le lotte popolari, dei contadini e dei senza terra e - in modo particolare in Brasile, le stesse lotte operaie. Il Brasile ha rappresentato un caso esemplare in cui un movimento operaio - con milioni di aderenti - su posizioni di critica radicale al capitalismo e all'imperialismo è stato profondamente influenzato dal fermento di questa nuova militanza dei credenti, non solo a livello sindacale ma anche a livello del partito operaio di massa, il Pt di Lula - egli stesso credente e membro di una comunità di base - che è stato due volte vicino alla conquista della presidenza e comunque rappresenta ancora oggi la maggiore forza di opposizione al neoliberismo. E tutto ciò è avvenuto nel rispetto della distinzione fra responsabilità degli uomini di chiesa e di quelle dei militanti e dirigenti politici. Nel rispetto ciò della laicità della politica che è il contrario dell'integrismo e del fondamentalismo che si sono manifestati in altri paesi e in altre esperienze. Pensiamo a Solidarnosc in Polonia, un'esperienza analoga come base materiale e per la sua penetrazione a livello di massa, molto diversa (salvo un settore minoritario) dal punto di vista della coscienza politica e di classe e dell'ideologia di riferimento. Dal punto di vista della vita interna della Chiesa, il Brasile è stata la realtà più corposa in cui queste posizioni sono state egemoni nel popolo dei credenti e a lungo nella stessa Conferenza episcopale, fino al punto che si è parlato anche a un certo momento dela possibilità di un papa brasiliano (alla fine degli anni Settanta). La politica del Vaticano è stata quella di sostituire man mano i vescovi conciliari con altri di orientamento opposto, di mettere a tacere le voci più critiche, come quella del teologo Boff, di procedere con un misto di repressione e di compromessi, puntando sui tempi medio-lunghi per un operazione di restaurazione, che tuttavia incontra ancora grandi resistenze anche perché entra in contraddizione con la base materiale di una realtà che presenta enorni contraddizioni economiche e sociali. Non è un caso che, dopo la caduta del muro, furono appunto alcuni dei teologi della liberazione come Leonardo Boff che allora si trovava a Berlino a rilanciare una riflessione e un confronto fra tutte le culture critiche. Ricordiamo anche che accanto alla teologia della liberazione è sorta e si è sviluppata una filosofia della liberazione della quale l'esponente più significativo è l'argentino esiliato in Messico Enrique Dussel, che si è impegnato in un originale lettura di Marx. Dom Helder non ha inventato questa realtà brasiliana e latino-americana, ne è stato solo un'espressione autorevole e significativa. Altri vescovi e uomini di chiesa, che hanno svolto una funzione altrettanto importante a livello nazionale o continentale, non hanno avuto la sua capacità di bucare i media, di entrare nel circuito mondiale della comunicazione, egli ha avuto questo dono e l'ha saputa usare per il suo popolo e per la sua Chiesa. E' giusto quindi ricordarlo con affetto e con rispetto, in modo particolare sulle pagine di un giornale che si chiama "Liberazione" e si definisce come un quotidiano comunista. La sua esperienza, quella dei tanti credenti che continuano la sua lotta, in Brasile, in America Latina, nel Terzo e nel Quarto mondo, rappresenta una speranza e una sfida a chi intende coniugare fra loro queste due parole che oggi troppi tendono a dissociare o addirittura a contrapporre: "comunismo" e "liberazione".
Domenico Jervolino (da "Liberazione ,29 agosto 1999) |