Il volto di Dio

Riflessione di Domenico Jervolino alla settimana alfonsiana, Palermo 21 settembre 1999

Parlare di Dio. E’ un tema che fa tremare le vene e i polsi. A quale titolo possiamo osarlo e per di più nel contesto di una conversazione fra amici, di un dibattito culturale, e non in quello, che sarebbe certamente più appropriato, della preghiera individuale e collettiva, della meditazione ascetica, del dialogo interiore nel santuario della coscienza? Di quale dio, inoltre, parleremo?

I filosofi hanno per lungo tempo preteso di poter fare di dio o del divino un argomento della loro disciplina, humanarum et divinarum rerum scientia, secondo un’antica definizione della filosofia, che risale, se la memoria non m’inganna, alla latinità pagana e quindi non si riferisce al Dio della Bibbia. Almeno dal punto di vista cristiano, siamo tentati di pensare che i filosofi barino. Il dio di cui parlano non è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo. Già Pascal aveva ben chiara la differenza, all’inizio dell’epoca moderna, criticando Cartesio. Eppure Cartesio, Spinoza, Locke, Leibniz, Kant e i grandi idealisti, continuano a loro modo di parlare di Dio. Hegel dichiara, all’inizio dell’Ottocento, che Dio è la Verità e la Verità è Dio, sicché filosofia e religione hanno lo stesso oggetto. E i filosofi moderni che abbiamo menzionato, da Cartesio a Hegel, a differenza di Cicerone, si riferivano proprio al Dio cristiano. Ma Hegel rappresenta appunto l’ultimo grande tentativo di una sintesi globale di tutta la tradizione filosofica, della ragione greca (e latina, qualche volta dimentichiamo il ruolo di mediazione svolto dalla latinità anche rispetto alle nostre radici filosofiche, si pensi a un Cicerone) e della rivelazione cristiana. Dopo Hegel, c’è stato Kierkegaard, Marx, Nietzsche, Freud, ci sono stati i filosofi dell’esistenza e i maestri del sospetto. La grande sintesi di Hegel è alle nostre spalle. Nessuno più oserebbe ripetere che oggetto della filosofia è Dio come Verità. Non viviamo nella dimensione dell’assoluto, ma in quella della finitezza.

Ormai ai nostri giorni i filosofi non hanno più la pretesa di parlare di Dio, tutt’al più parlano dell’esperienza religiosa, del fenomeno religioso. Con qualche eccezione forse, ma si tratta di eccezioni appunto rispetto a quello che è lo spirito del tempo.

L’orizzonte del discorso filosofico è ormai il mondo umano, la storia. Qui di Dio si può ancora parlare ma solo a partire dall’esperienza storica dei credenti, dai segni e dai testi che raccolgono quest’esperienza.

E allora paradossalmente in un mondo secolarizzato si può riprendere a parlare di Dio se si concepisce la filosofia come uno sforzo per interpretare il senso delle esperienze umane così come esse ci sono testimoniate nel tesoro del linguaggio. Per noi si tratta soprattutto di quel tesoro rappresentato dalle scritture ebraico-cristiane, dall’Antico e dal Nuovo Testamento, sapendo che esistono altre forme di esperienza religiosa appartenenti ad altre tradizioni, ma il modo migliore per confrontarci con esse consiste proprio nell’approfondire le nostre radici.

La Bibbia quindi: ta biblía, i libri, per eccellenza. Il metodo che propongo quindi è di riflettere sui testi di questa tradizione, presupponendo se non la fede, almeno una certa simpatia o familiarità con essi. Quindi una lettura da filosofo del testo biblico, che presuppone il riconoscimento che qui c’è un pensiero, che la filosofia non ha il monopolio del pensiero.

Si tratta di un pensiero attraversato da tensioni. Dio non può essere

rappresentato in immagini, persino la possibilità di pronunciare il suo nome è circondato da cautela e riverenza. Il sacro tetragramma che contiene le consonanti di quel nome YHWH - nell’ebraismo successivo all’esilio babilonese - può essere pronunciato solo dal Sommo Sacerdote nella solennità del Kippur. Vedere Dio è al di sopra della condizione umana; vedere Dio significa morire.

Eppure quel Dio parla all’uomo, si interessa a lui, stabilisce con lui un’alleanza, una unione nuziale con Israele. Quel Dio, il suo volto diventa oggetto di desiderio da parte dell’uomo. Il salmista canta "Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio? (Salmo 41, 1-3).

Questa tensione fra un Dio senza volto e un volto desiderato può e deve diventare feconda e produttiva di senso. Se riflettiamo sul nome biblico di Dio rivelato a Mosé sul monte Sinai (Esodo 3,14) ci accorgiamo che si tratta di un nome che non è paragonabile al nome magico degli antichi dei pagani che conferisce potere a chi lo conosce ma si tratta, piuttosto, di una forma verbale: ehye aser ehye, che è stato tradotto in greco egò eimi ho on e in latino ego sum qui sum. "Io sono quello che sono " – la cui interpretazione e traduzione è stata oggetto di una lunga e controversa serie di letture nel corso della storia – in cui sembra però ormai scontato che debba prevalere - rispetto a una lettura più tardiva, "ontologica": "io sono l’essere", - piuttosto, il significato attivo del verbo essere: "io sono quello che le mie azioni manifesteranno" - che attesta la fedeltà del Signore nel mantenere le sue promesse.

Il nome contiene quindi in sé la proibizione della rappresentazione (della presunzione di poter possedere e padroneggiare l’essenza divina) ma anche la promessa di una manifestazione mediante la storia futura dell’alleanza.

Questa tensione si scioglie ma nello stesse tempo si conferma a un livello più alto nel Nuovo Testamento nella figura del Cristo, adempimento vivente e definitivo delle promesse: "Chi ha visto me, ha visto il Padre"(Vangelo di Giovanni, 14, 9). Di qui l’antico principio dell’ermeneutica cristiana circa i rapporti fra Antica e Nuova Alleanza, fra Antico e Nuovo Testamento: novum in vetere latet, vetus in novo patet.

Tensione che si scioglie, ma anche che si ripropone a livello più alto. Il volto di Dio è il Cristo ma il Cristo crocifisso: nella croce Dio viene rivelato ma anche nascosto. La gloria del Risorto è affidata alla fede nel crocifisso, ma la fede è appunto una non visione, si crede solo ciò che non si vede. Di nuovo quindi tensione dialettica fra il sì e il no, ma ignoranza e possesso, fra prossimità e lontananza che attraversa a partire dalle origini tutta la storia a venire del cristianesimo

Sopprimere questa tensione sarà una tentazione perenne della chiesa e dei cristiani.

Rendere visibile il regno futuro, rendere visibile il paradiso in terra, confondere la chiesa terrena con la Gerusamme celeste (penso a certe splendide rappresentazioni illusionistiche dell’arte barocca, ho ancora negli occhi la visione splendida ma conturbante della Chiesa dell’Abbazia di Melk).

Si tratta di una tentazione non solo a livello estetico, ma anche a livello etico e politico. Il desiderio di vedere l’invisibile può sfociare nell’empietà e in essa si cade immancabilmente allorché prevalgono esigenze politiche che assimilano la Chiesa all’Impero e toccano la stessa immagine umana di Dio (Dio come un super Re, un super Imperatore). Re e Imperatori e Papi che partecipano dello stesso paesaggio celeste. Il volto di Dio viene così sfigurato in ideologie che funzionano come mera legittimazione del potere stabilito.

Eppure questo desiderio ai limiti della empietà ha anche qualcosa di pio, ma esso deve essere purificato e vivificato dalla consapevole della propria indigenza, per diventare grido dell’anima che si strugge; per restare nell’ambito del barocco, penso alla rappresentazione scultorea dell’estasi mistica nella santa Teresa del Bernini, in Santa Maria della Vittoria a Roma (Ma anche qui quale sottile contraddizione fra l’inneffabilità del misticismo, spendidamente resa dall’artista, che trascende ogni determinatezza e la troppo terrestre collocazione dell’opera in un tempio destinato a celebrare la vittoria di Lepanto).

Nell’estasi mistica, la cui raffigurazione riesce a far dimenticare per qualche momento l’umano, troppo umano delle guerre di religione, siamo vicinissimi alla rivelazione giovannea di Dio come amore: "Dio è amore" (1 Giovanni, 4, 8), cui fa eco l’inno liturgico: Ubi caritas et amor, deus ibi est.

Amore mistico o carità operosa che cerca il volto di Dio nel più piccolo dei fratelli: ancora una volta le strade dell’esperienza cristiana si rivelano molteplici, ma sempre attraversate dalla dialettica fra assenza e presenza, che pare dunque essere un dato ineliminabile. Tale dialettica può essere non già superata ma solo conservata, custodita e fatta fruttificare nella prassi della sequela Christi.

Cristo infatti - il volto del Dio ineffabile e irrapresentabile - è assente ma misteriosamente presente nella storia degli uomini che agiscono e che soffrono, che lottano e sperano, che desiderano e amano. Presenza e assenza che vive nello Spirito - questo luogotenente del Cristo - nel quale non solo i teologi, ma anche i filosofi, lasciamo anche a questi ultimi qualcosa di buono, hanno visto il soffio vitale che anima la comunità dei credenti, la ecclesia invisibilis di Kant, proiettata verso il futuro utopico di un Regno a venire, nei confronti del quale anche il giovane Hegel formulava l’antico augurio: Adveniat regnum tuum! Certo il Cristo dei filosofi resta infinitamente distante dal Cristo della fede, ma non è forse uno dei doni dello Spirito quello di librarsi sugli abissi e di colmare le distanze che a noi sembrano incolmabili?




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