PRIMO VIAGGIO DI UN PAPA IN ROMANIA


(da "Confronti", giugno '99)


Glaciazione della reciproca diffidenza psicologica che durava da secoli e
constatazione che i problemi ecclesiologici che dividono le due Chiese
rimangono inalterati. Così, forse, si potrebbe riassumere il risultato
della visita che Giovanni Paolo II ha compiuto a Bucarest (7-9 maggio),
primo viaggio di un papa in un paese a maggioranza ortodossa.

Due Chiese così vicine, così lontane

In 85 viaggi internazionali e in vent’anni di pontificato il papa "pellegrino" ha toccato paesi a maggioranza cattolica, protestante, anglicana, musulmana, induista, buddhista, shintoista; ma solo con il suo 86° viaggio è riuscito per la prima volta a raggiungere un paese "ortodosso". A volere Wojtyla in Romania è stato soprattutto il presidente Emil Constantinescu, convinto con ciò di favorire il pieno "ritorno" politico del suo paese in Europa, dopo quarant’anni di comunismo e dieci di difficile transizione. Stante che mai il papa avrebbe potuto andare in Romania, se invitato dal solo presidente e non anche dalla Chiesa ortodossa, Constantinescu ha fatto pressioni sul patriarca Teoctist, all’inizio ostile, perché egli pure, con il Santo Sinodo, co-invitasse. Infine, dopo un dibattito molto forte, il Santo Sinodo ha incaricato Teoctist di invitare il papa a Bucarest. Constantinescu ha riconosciuto, davanti al papa, che a "preparare il terreno" alla sua visita è stata la Comunità di s. Egidio (Roma) - che nel ‘98 ha organizzato a Bucarest uno dei suoi incontri su "Uomini e religioni", coinvolgendo anche la Chiesa romena.
Ma perché Wojtyla ha voluto a tutti i costi andare in Romania? Alla corona dei viaggi (e dei successi) papali mancava, finora, un paese ortodosso. Se prima dell’89 - imperante l’Urss - erano "vietati" a Wojtyla i paesi ortodossi est-europei, caduto il muro di Berlino come spiegare la "impossibilità" papale? E infatti dall’89 il papa ha iniziato a sognare la grande meta: un viaggio a Mosca. Ma, in questi anni, le Chiese ortodosse est-europee, russa in testa, si sono sentite come "aggredite" da ondate di "missionari" venuti da Occidente a "evangelizzare" i loro paesi, quasi che là da secoli non esistesse già una Chiesa che aveva predicato l’evangelo. Secondo gli ortodossi la Chiese occidentali, cattolica romana compresa, hanno favorito questo "proselitismo" (accusa - diciamo qui sinteticamente - a volte infondata, a volte fondatissima).
Ancora, negli anni Novanta in Ucraina e Romania sono usciti dalle "catacombe" le Chiese cattoliche di rito greco che Stalin nel ‘46 ed il regime romeno nel ‘48 avevano messo fuori legge (quanti, soprattutto vescovi e preti, non accettarono il loro "passaggio automatico" all’Ortodossia subirono anche il carcere e la morte), incamerando per lo Stato - o passando alla Chiesa ortodossa - tutti i loro beni: edifici sacri, canoniche... I greco-cattolici sono considerati "uniati" dagli ortodossi, in quanto si tratta di Chiese nate (1595-96 in Ucraina, 1700 in Romania) da gruppi di vescovi, preti e laici ortodossi che, lasciata la Chiesa madre, hanno costituito una Chiesa parallela, e di fatto antagonista, alla Chiesa di origine, riconoscendo il primato papale.

Roma,da parte sua, ha garantito loro il mantenimento del rito bizantino e la loro particolare disciplina canonica (che ammette, tra l’altro, il clero coniugato).
Proprio per queste riaffermate accuse - proselitismo e "uniatismo" - nel giugno del ’97, alla vigilia della II Assemblea ecumenica europea di Graz (Austria), il Santo Sinodo di Mosca annullò un incontro a Vienna del patriarca Aleksij II con il papa. Anche negli ultimi due anni dalla Chiesa russa non sono venuti segnali di "luce verde" al viaggio papale, reso del resto problematico anche dalle turbolenze politiche gravanti sul Cremlino. Ma il papa non si è arreso. E, come meta intermedia, ha puntato sull’Ucraina: ipotesi tramontata per i permanenti contrasti tra "uniati" e ortodossi, e per la spaccatura in tre tronconi di quello che fino al ‘90 era un unico esarcato ortodosso legato al patriarcato di Mosca. Allora Wojtyla ha pensato alla Romania, paese ponte tra Oriente e Occidente, tra Mosca e Costantinopoli, ortodosso ma non slavo, e contraddistinto dalla sua radice latina (che rivive nella lingua romena). Inoltre, dopo la russa ed ucraina, la Chiesa romena è quella, tra le ortodosse, con il maggior numero di fedeli (l’86% dei 22,8 milioni di abitanti). In Romania, inoltre, vi è una folta minoranza cattolica (2,5 milioni secondo il Vaticano), di cui circa 800 mila greco-cattolici; e, tra i latini, i più sono della minoranza ungherese che si trova in Transilvania (qui si trova anche il nerbo degli 800 mila protestanti riformati romeni).
Ma, in Romania, il papa ha visitato solo Bucarest. Constantinescu non ha voluto che il pontefice incontrasse i cattolici di lingua ungherese in Transilvania, per non dare fiato ad un "nazionalismo magiaro" che egli mal sopporta; e Teoctist non ha voluto che Wojtyla andasse nelle zone in cui sono concentrati gli "uniati" - come appunto la Transilvania. Tanto i cattolici latini "ungheresi" che i greco-cattolici hanno espresso il loro rammarico per la decisione papale di accettare i "no" delle autorità politiche e religiose romene. Per consolarsi hanno "invaso" Bucarest per salutare Wojtyla.

Cordialità umana, problemi ecclesiologici

Quale sarebbe stata l’accoglienza degli ortodossi romeni al papa? Nessuno, a priori, poteva saperlo. Orbene, sia i semplici fedeli che Teoctist e il Santo Sinodo (l’insieme dei 35 vescovi della Chiesa romena) hanno tributato a Wojtyla un caldo benvenuto. La televisione romena ha traboccato di programmi sulla visita papale, e la stampa ha dato ampio risalto all’avvenimento. "Papamania" era il titolo a caratteri cubitali con cui "Evenimentul zilei" commentava la "febbre" suscitata dal pontefice nel paese "ortodosso".
Domenica mattina (9 maggio) il papa ha assistito alla solenne liturgia celebrata da Teoctist e dal Santo Sinodo in una piazza di Bucarest, ed ha assistito alla posa della prima pietra della futura nuova cattedrale ortodossa della capitale; e, nel pomeriggio, Teoctist ha assistito alla messa che il papa ha celebrato per i cattolici in un parco della capitale, ai piedi di una mostruosa "Casa del popolo" fatta costruire a suo tempo da Ceausescu. Proprio durante questa celebrazione, dall’affollata platea è salito un grido, rivolto al papa e al patriarca:"Unitate, unitate" (unità). Come dire che la gente non capisce più, se mai l’ha compreso, perché cattolici ed ortodossi non possano sentirsi, ed essere, uniti nella stessa Chiesa, e quindi compartecipi della stessa eucarestia.
Ma proprio la presenza, ma senza la concelebrazione, del papa e del patriarca alle rispettive eucarestie, hanno reso più evidente la "insopportabilità" della divisione tra le due Chiese.

Teoctist l’ha riconosciuto: "Paradossalmente, durante le liturgie celebrate oggi abbiamo vissuto da una parte la gioia che ci dà l’incontro con Vostra Santità e, dall’altra, il dolore per la nostra divisione, poiché non possiamo comunicare allo stesso calice. Davvero, tutti noi cristiani dobbiamo prendere coscienza della responsabilità che abbiamo per il peccato della divisione, per la controtestimonianza di questa situazione nel mondo".
E Wojtyla: "Beatitudine, chi può sollecitare gli uomini d’oggi a credere in Cristo se noi continuiamo a lacerare la tunica inconsutile della Chiesa, se noi non riusciamo ad ottenere da Dio il miracolo dell’unità, operando per togliere gli ostacoli che impediscono la sua piena manifestazione? Chi ci perdonerà questa mancanza di testimonianza?". E ancora: "Nel nome della grande ispirazione ecumenica (aperta dal Concilio Vaticano II) mi rivolgo a tutti i credenti in Cristo che vivono in Romania. Sono qui tra voi spinto unicamente dal desiderio dell’autentica unità e dalla volontà di compiere il ministero petrino che il Signore mi ha affidato". Sia il papa che il patriarca hanno poi espresso la speranza che, dopo le lacerazioni del secondo millennio, all’alba del terzo le Chiese divise possano riconciliarsi.

MA CHE COSA, OGGI, IMPEDISCE LA RICONCILIAZIONE TRA CHIESA ROMANA E QUELLA ROMENA? IL PAPATO.

Teoctist lo ha detto in filigrana, spiegando al papa che cosa significa

per la sua Chiesa "autorità" e "conciliarità":

"Il Sinodo dei vescovi di una Chiesa locale come la Chiesa ortodossa romena è la manifestazione della Chiesa in comunione, epifania locale della cattolicità della Chiesa universale. Ogni vescovo porta con sé una comunità di sacerdoti, di monaci e di credenti di cui è il servitore". Questa "conciliarità è presieduta dal primus inter pares". La Chiesa di Romania, "insieme all’intera Chiesa ortodossa, ha il carisma e la responsabilità di custodire e testimoniare lungo la storia la ‘fede donata ai santi una volta per tutte’ (Giuda, 3), così come si è cristallizzata nella tradizione patristica e nella confessione dogmatica dei Concili ecumenici riconosciuti dal consenso della Chiesa universale... Noi rimaniamo fedeli al principio della conciliarità, secondo il quale ‘il custode della fede è il corpo della Chiesa, cioè il popolo stesso, che vuole che la sua fede rimanga eternamente immutata e identica a quella dei suoi padri’, come afferma l’enciclica dei patriarchi ortodossi del 1848". In questa visione ecclesiologica (questa la conclusione implicita) non vi è posto per un papato monarchico.
Problemi ecclesiologici a parte, papa e patriarca hanno apertamente affrontato un problema spinoso: quello della "restituzione dei beni" tolti ai greco-cattolici nel ‘48, e in massima parte tuttora in mano ortodossa. Wojtyla ha chiesto che "ciò che è stato tolto sia, per quanto possibile, restituito", ed auspicato che la commissione mista ad hoc istituita in gennaio scorso arrivi a risultati positivi. E Teoctist si è augurato che il dialogo iniziato tra ortodossi e greco-cattolici possa "portare i suoi frutti". Frutti che darebbero concretezza agli incontri Wojtyla-Teoctist. E i contraccolpi del viaggio di Wojtyla sull’intera Ortodossia? Anche qui, il futuro darà il suo responso. Per ora si può dire che il clima di simpatia che ha accompagnato la visita favorirà, forse, la caduta di sentimenti psicologici antiromani in altre Chiese ortodosse. Quanto a dire se esso farà compiere prossimamente passi decisivi sui problemi di fondo (come un consenso sul "primato" rivendicato dal papa) ogni euforia appare del tutto fuori luogo. L’evento di Bucarest, infatti, ha forse sgretolato incomprensioni "non teologiche", ma ha lasciato intonse le radici teologiche della divisione tra Chiesa romena e Chiesa di Roma. Un segnale di questa difficoltà permanente potrebbe essere il fatto che Wojtyla e Teoctist non hanno sottoscritto alcuna dichiarazione comune di carattere ecclesiologico.
E i contraccolpi del viaggio papale sulla Chiesa russa? Il portavoce vaticano Joaquin Navarro-Valls ha detto che esso "più che una porta, ha aperto un varco verso Mosca. Ora bisogna consolidarlo e trovare il coraggio di attraversarlo, per andare avanti in questo cammino comune". Un cammino che, in ogni caso, sarà accidentato e ricco di colpi di scena.
Divisi sull’ecclesiologia, in una Dichiarazione comune Wojtyla e Teoctist si sono espressi sulla guerra nella vicina Jugoslavia:"In nome di Dio, noi domandiamo pressantemente alle parti impegnate nel conflitto di deporre definitivamente le armi e le esortiamo a porre in atto gesti profetici, perché un nuovo modo di vivere nei Balcani, contrassegnato dal rispetto di tutti, dalla fraternità e dalla convivialità, sia possibile su questa terra tanto amata. Ciò sarà agli occhi del mondo un segno potente che mostrerà che, con tutta l’Europa, il territorio della Repubblica federale di Jugoslavia può divenire un luogo di pace, di libertà e di concordia per tutti i suoi abitanti".


David Gabrielli
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SCHEDA:
L’ORTODOSSIA

L’Ortodossia raccoglie un gruppo di Chiese sorelle di antica origine o area bizantina, unite dalla stessa fede cristiana, ed in piena comunione eucaristica e canonica tra loro. Ciascuna di queste Chiese, tuttavia, di diritto e di fatto è pienamente "autocefala", cioè "indipendente", il che significa ad esempio che una Chiesa può fare delle scelte ecumeniche o "politiche" anche diverse, se non opposte, da quelle di una Chiesa ortodossa "sorella". Il patriarca ecumenico di Costantinopoli non è il "papa" degli ortodossi, ma solo un "primus inter pares" tra i gerarchi ortodossi, con un primato di onore ma non di giurisdizione.
Dopo nove secoli di contrapposizione - la data ufficiale dello "scisma" reciproco tra Roma e Costantinopoli è il 1054; e invano i concili di Lione (1274) e di Firenze (1439) tentarono di ricucire lo strappo - è solo con papa Giovanni XXIII e con il patriarca Athenagoras I che il clima comincia a cambiare. Il dialogo è poi favorito dal Concilio Vaticano II (1962-65) e dall’incontro di Paolo VI con Athenagoras, a Gerusalemme, nel ‘64. Nel ‘65, i due "cancelleranno" formalmente le reciproche scomuniche del 1054. Dopo questo "dialogo della carità", nel 1979, con l’istituzione di una commissione mista, inizia il "dialogo teologico" tra la Chiesa cattolica romana e l’Ortodossia nel suo insieme.
Paolo VI (‘67) e Wojtyla (‘79) hanno visitato a Istanbul il patriarcato ecumenico, il cui titolare ha restituito la visita a Roma. Ma, oggi, in Turchia gli ortodossi sono poche migliaia, una goccia in un paese formalmente laico ma a maggioranza musulmana. Sono invece paesi a maggioranza ortodossi (nel senso, e con i limiti, per cui - analogamente - l’Italia è cattolica o la Svezia luterana) Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldova, Romania, Bulgaria, Serbia, Grecia, Cipro. Con i suoi 60-100 milioni di fedeli, la Russia è il più grande paese ortodosso del mondo; seguono l’Ucraina, la Romania e la Grecia.
Oltre a formidabili contrapposizioni politiche ed economiche (l’impero romano d’Oriente, cui era legato il patriarca ecumenico, era in rotta di collisione con il papa di Roma e le sue varie alleanze con i nascenti poteri d’Occidente) anche motivazioni teologiche motivarono la rottura dal 1054: tra queste, la questione del Filioque (in latino:"e dal Figlio") e quella del potere papale. Il tutto, rafforzato dai fattori psicologici e dai pregiudizi innescati dal reciproco "estraneamento". Il Credo fissato dal primo Concilio ecumenico di Costantinopoli (381) afferma che lo Spirito santo "procede dal Padre". Ma, sotto Carlo Magno, i latini cominciarono ad aggiungere nel Credo - che doveva invece rimanere inalterato - la parola Filioque. Una eresia, per i greci. Attualmente, però, seppure non eliminata, questa questione pare in via di superamento: per i latini dire che "lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio" significa mettere in evidenza un aspetto del mistero della Trinità; per gli ortodossi spiegare che "lo Spirito procede dal Padre attraverso il Figlio" significa sottolinearne un altro. Insomma, si tratterebbe di due legittime diversità teologiche nell’ambito della stessa fede.
Dunque, uniti dallo stesso Credo, dagli stessi sacramenti, dalla stessa struttura gerarchica (ineliminabile differenza tra ministeri ordinati e semplici fedeli), dalla stessa pietà popolare (come la devozione alla Madonna e ai santi), dallo stesso no alla donna-prete, cattolici romani e ortodossi sono oggi divisi quasi unicamente dal papato. Nessuno, tra gli ortodossi, dubita che il vescovo di Roma abbia un "primato" nella Chiesa; ma, per essi, si tratta di un primato "nella carità", o di "onore". Per questo l’Ortodossia è granitica nel respingere i dogmi del primato (papale) di giurisdizione e l’infallibilità pontificia definiti nel 1870 dal Concilio Vaticano I. L’autorità suprema nella Chiesa, per l’Ortodossia, è il Concilio ecumenico; e i Concili ecumenici da essa riconosciuti sono sette (dal Niceno I del 325, al Niceno II del 787), tutti celebrati in Oriente. I Concili celebrati in questo millennio, e considerati "ecumenici" dalla Chiesa cattolica romana, per gli ortodossi sono solo Concili "generali" della Chiesa latina, e quindi niente affatto per loro obbliganti. (D. G.)




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