Da: "la Repubblica", 31 marzo 1999 La lunga storia delle persecuzioni nei Balcani L’ARMATA MUTA DELLA DIASPORA di Paolo Rumiz Arrivano nella polvere, chiedono acqua, è come se venissero da altri mondi. Per questo né Vukovar né Srebrenica - i primi massacri dopo il ‘45 in Europa - ci hanno lasciato qualcosa. Accadrà anche stavolta. Non ci sarà nessun Spielberg per il Kossovo. Per questo, quando appare l’armata silenziosa, siamo sempre colti di sorpresa. Eppure è da secoli che i Balcani macinano diaspore, deportazioni, dolore e sradicamenti, consumano sé stessi in un andirivieni insensato di migrazioni. Secondo lo storico dell’Europa Orientale Marco Dogo, "attraverso la storia dei flussi incrociati di profughi si potrebbe addirittura scrivere la storia dell’accesso dei popoli balcanici all’epoca moderna". Poco è cambiato dall’inizio dell’Ottocento a oggi. Anche le vittime sono quasi sempre le stesse: i musulmani. "Non andatevene, restate vicino ai vostri cimiteri e alla vostra memoria! Nessuna fertile terra straniera sarà meglio di questo Paese arido, ma nostro". Così, cent’anni fa, vanamente implorò il poeta serbo Aleksa Santic, davanti all’ennesima fuga dei fedeli dell’Islam per la pressione cristiana. In un mondo di pogrom, finisce persino che il radicamento sia vissuto come rischio e la migrazione come rifugio. "L’uomo non è un albero", scrisse Mesha Selimovic, autore del tristissimo "Derviscio e la morte", "se si lega a un posto solo sarà sempre infelice".La sequenza è impressionante: 1820, espulsione dei turchi da Belgrado, 1821 massacri e deportazione dei turchi dalla Grecia, che nasce come Stato confessionale puro; 1874, rivolta antiturca in Bosnia e fuga verso Est di tanti slavi di religione musulmana. Guerre balcaniche del 1912 e 1913: interi villaggi turchi bruciati in Macedonia, orrendi scannamenti anti-islamici in Bulgaria. Nel 1918 tocca agli albanesi in Kosovo. Sono ammazzati a decine di migliaia, la propaganda ortodossa li descrive come scimmie con la coda; nei terreni abbandonati arrivano veterani serbi della Prima guerra mondiale. Nel 1922 Atene e Ankara decidono uno scambio di popolazione di dimensioni bibliche: via i greci dall’Asia Minore, via i turchi dalla Tracia. Il resto è storia recente. I musulmani non hanno mai costruito su questi episodi mitologie revansciste. Anche per questo i pogrom hanno lasciato pochi sedimenti nella memoria dei cristiani. L’Europa finge di non vedere, sembra "una dama vittoriana con le sottane mangiate dai topi, che non si accorge di essere entrata in questo secolo col genocidio degli armeni e di uscirne col genocidio dei musulmani". Sono parole di quattro anni fa; a dirle fu il più grande scrittore bosniaco vivente, Miljenko Jergovic. Gli eventi di oggi le confermano in pieno. I cristiani — e i serbi in particolare — hanno saputo invece coltivarsi un formidabile armamentario di memoria collettiva. I serbi non sono mai stati deportati in massa, ma il loro libro più famoso si chiama "Migrazioni". In esso Milos Crnjanski racconta l’epos di mercenari straccioni che dalla Vojvodina partono per una guerra che nessuno sa dov'è, combattono per una regina austriaca che nessuno conosce e sognano in Ucraina una terra promessa che non c’è. Per loro, l’erranza è un’inquietudine dell’anima, non un obbligo imposto col coltello. Eppure per la propaganda, serbi ed ebrei sono gemelli nella diaspora. Anche la paura ancestrale che i serbi hanno di essere annientati dal mondo islamico non nasce dalla realtà, ma dalla manipolazione. Proprio il Kosovo, culla della nazione serba, è il pilastro di questo imbroglio. Quando sei secoli fa i turchi sfondarono a Nord e vicino a Pristina, sul Campo dei Merli, sconfissero l’esercito del duca Lazar, la classe dirigente serba tradì. Anziché far restare la gente, i nobili e i preti ortodossi fuggirono a Nord. A quel punto il popolo scappò perché si sentì abbandonato dai capi, non solo per la paura del turco. A proteggere i monasteri cristiani rimasero le truppe del Sultano e a coltivare i campi abbandonati arrivarono gli albanesi. Una vergogna. Da allora, per coprire il senso di colpa per quella fuga, generazioni di monaci, cantastorie, suonatori di "guzle" e bardi di corte costruirono il mito della sconfitta come santificazione del popolo serbo. A quella sconfitta — caso unico in Europa — si consacrarono inni di vittoria, in versi pieni di luce e gioia, "perché la Serbia, benedetta da Dio, aveva ricevuto la corona del martirio". Milosevic non ha fatto che sfruttare 1’ esplosivo potenziale revanscistico di questa falsa mitopoiesi. Ha disseppellito le spoglie di Lazar, le ha portate per la Serbia catalizzando l’orgoglio nazionale, poi ha radunato un milione di persone al Campo dei Merli per dire che 1’ ora della riscossa era tornata, stava scritta nel destino. Gli Ottomani non c’erano più, ma fa niente: gli albanesi andavano bene lo stesso come capro espiatorio. Tutto l’armamentario propagandistico post-comunista fu mobilitato per esasperare il vittimismo nazionale: l’Islam avanzava, i serbi erano in pericolo come sei secoli prima. Fu così che un popolo pacifico, ubriacato di memoria avvelenata, aggredì, pensando di difendersi, i musulmani della Bosnia e del Kosovo. E fu così che una guerra costruita sull’esasperazione della memoria divenne fatalmente "memoricidio", distruzione dei simboli dell’appartenenza altrui: minareti, ponti, biblioteche, cimiteri. Lo sradicamento doveva essere totale, ogni possibilità di ritorno impedita. Era un salto di qualità: la fuga non era più solo fatale "conseguenza" della guerra, ma il suo scientifico obiettivo. C'è un rischio tremendo nel raccontare la storia di queste diaspore: quello di accettarne la fatalità ricorrente, quasi lo scontro e le deportazioni fossero maledizioni genetiche e non quelle che sono: scelte di potere, trucchi per sdoganare espropri su scala industriale. E' esattamente la teoria di Milosevic e della sua corte: il crogiuolo balcanico è una "Cudovisna Tvorevina", un’entità demoniaca. Conseguenza: se la multietnicità è una mina per l'Europa, la pulizia etnica è un lavoro sporco necessario alla stabilità planetaria. Ci vuole poco a capire che non è così. Quando nel ‘45 Tito espulse dalle ricche terre danubiane i coloni di lingua tedesca che vi abitavano da secoli, mise nelle loro case i pastori delle montagne dinariche. Li traslocò con treni interi, in una demenziale operazione di ingegneria demografica. Gente tribale, bellicosa e lunatica, i nuovi arrivati furono un fallimento: distrussero l’equilibrio sociale e mai si assimilarono agli slavi nativi. Alla fine, furono i loro figli a sostenere Milosevic e poi a incendiare Vukovar, compiendo l’omicidio rituale di una città che avevano sempre sentito estranea. Oggi nella croata Osijek, etnicamente ripulita, è comparsa una scritta: "Tudjman, ridacci i nostri serbi, tieniti i tuoi croati". Tanto forte è stata la delusione degli autoctoni per i nuovi arrivati che parlavano la stessa lingua ma la facevano da padroni. Pare che la multietnicità destabilizzi qualsiasi Stato che non possa contare su un senso di lealtà istituzionale radicato e tale da sovrastare le differenze etniche. È vero anche il contrario: un Paese dalla monoetnicità imposta ha già in sé il seme di nuove guerre.
|