Giancarlo Zizola Che sta succedendo in Vaticano? Poche cose hanno reso evidenti gli squilibri che si determinano tra il soggetto papale e la curia romana nel clima di una fine di pontificato quanto una serie di documenti pubblicati in Vaticano nell’estate 1998, emanati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Essi apportavano una ennesima conferma alla tesi sostenuta dall’ex arcivescovo di San Francisco mons. John Raphael Quinn nella sua celebre conferenza di Oxford due anni prima, secondo la quale è quasi ineluttabile che col declino delle forze del papa il potere della curia centrale riemerga come un tertium quid interposto tra l’ufficio papale e i vescovi, in un ruolo le cui frontiere tendono a dilatarsi. Le domande si intrecciavano, nella stessa Roma: "Cosa sta succedendo in Vaticano? Chi dirige, chi comanda? Quale è la mano, o le mani responsabili delle catastrofi che ci minacciano? Dove andiamo? Verso uno scisma?". Del papa in vacanza nelle Dolomiti un cronista diceva: E' stata creata intorno a lui una cortina di isolamento. Anche le persone del suo entourage sono tenute lontane. E del papa in Vaticano un prelato di curia confidava: "una cortina di fumo nero lo nasconde anche alla nostra vista. Noi della curia romana siamo tenuti all’oscuro. Non sappiamo nulla di ciò che avviene e come avviene. Saremo gli ultimi a sapere quando sarà arrivata la sua ora. Tutto è nelle mani del segretario. Da quando mons. Dziwisz è divenuto vescovo, egli fa parte del collegio episcopale. E dunque è il collegio episcopale che in lui collabora con Pietro per il governo della Chiesa...". Dilatazione dell’infallibilità Due documenti introducevano delle nuove norme nel codice di diritto canonico pubblicato nel 1983. Entrambi avevano la forma di lettere apostoliche "ad instar motu proprio", un genere letterario nuovo, che significa "date a guisa di", "simili per aspetto" ad un "motu proprio", dunque sfornite del valore giuridico vincolante di un "motu proprio", quasi per lasciare aperto il terreno alle evoluzioni. Entrambi i testi, in fine, portavano l’impronta di un cx Sant'Offizio più preoccupato di rafforzare il controllo della situazione dottrinale della Chiesa cattolica che di promuoverne nuovi sviluppi creativi. Il primo, dal titolo Ad tuendam fidem, integrava nel Codice, al canone 750, un II paragrafo che diceva: "Si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente il deposito della fede. Si oppone dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi definitivamente". Nel nuovo testo della "Professione della fede", che tutti i candidati ad un ufficio ecclesiastico, ad esempio i teologi per l’insegnamento devono sottoscrivere, era pertanto inserita una variazione, che li impegna a ritenere non solo le verità rivelate, ma altresì tutte quelle dottrine attinenti al campo dogmatico e morale che sono necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede, sebbene non siano state proposte dal magistero della Chiesa come formalmente rivelate". Tali dottrine non sono più solo quelle definite "ex cathedra" dal papa o dal Concilio, ma anche quelle "insegnate dal magistero ordinario e universale della Chiesa come sentenze da tenere definitivamente". In una Nota illustrativa il cardinale Ratzinger spiegava: "Quando su una dottrina non esiste un giudizio nella forma solenne di una definizione, ma questa dottrina, appartenente al ‘depositum fidei’ è insegnata dal magistero ordinario e universale, che include necessariamente quello del Papa, essa è allora da intendersi come proposta infallibilmente. La dichiarazione di conferma o riaffermazione da parte del romano pontefice in questo caso non è un nuovo atto di dogmatizzazione ma l’attestazione formale di una verità già posseduta e infallibilmente trasmessa dalla Chiesa". La Nota indicava alcuni esempi di possibile dilatazione del dispositivo dell’infallibilità, messo in opera dal Vaticano I, citando la dottrina papale contro l’ordinazione delle donne, quella sull'eutanasia, sulla prostituzione, sulla fornicazione, sull’invalidità delle ordinazioni anglicane. In sostanza, Roma mostrava di preoccuparsi, alla fine del Novecento, di allargare la sfera dell’infallibilità e il valore normativo del magistero pontificio anche ordinario, con un interpretazione estensiva della dogmatica del Vaticano I, al di là delle severe clausole approvate da quel concilio per regolare i pronunciamenti dogmatici pontifici. Non solo si scuotevano da destra le basi dogmatiche del Vaticano Primo, ma si piegava anche la legge canonica, sia per la Chiesa latina che per quelle Orientali, alle necessità congiunturali della centralizzazione curiale in tutta la sua esorbitanza sulla libertà del cristiano. "Un documento ecumenicamente rischioso" commentava un cardinale romano, allargando le braccia in un gesto di rassegnazione. Egli ammetteva che questo documento era in contraddizione con il movimento autorizzato da Giovanni Paolo Il nella enciclica Ut unum sint in direzione di un'autolimitazione del potere di giurisdizione del papato e di un superamento dell'infallibilismo piramidale. "Ma vogliono così!" aggiungeva, alludendo al ristretto gruppo di comando della curia. "Cosa ci possiamo fare?". Le conferenze episcopali sotto tutela L'altro testo, sempre nella forma "ad instar motu proprio", usciva il 23 luglio (con la data del 21 maggio, festa dell’Ascensione) col titolo Apostolos suos. Un documento in cantiere da tredici anni, sulla "natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali". Era stata considerata anzi la possibilità di pubblicarlo come Istruzione della Congregazione per la Dottrina. Apparse nel corso dell’ultimo secolo e riconosciute dal Concilio Vaticano Il, queste istituzioni (attualmente se ne contano 108, mentre erano appena 43 nel 1958) hanno assunto una crescente importanza nell’organizzazione ecclesiastica. Regolate dal Codice di diritto canonico del 1983, esse hanno rappresentato un fattore di equilibrio collegiale nella struttura monarchica della Chiesa. Finora sono stati promulgati 2.331 decreti generali delle Conferenze episcopali, per adattare alle esigenze regionali 43 leggi universali emanate dal potere centrale. Inoltre è innegabile l’apporto fornito da queste entità all’orientamento complessivo della Chiesa nelle diverse nazioni, sia sul piano dell’omogeneità degli indicizzi pastorali sia nei rapporti con la società politica: basti ricordare il peso delle lettere pastorali della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti contro il deterrente nucleare e sulla "giustizia economica per tutti", o quello dei pronunciamenti della Conferenza dei vescovi francesi su Fede e Politica, senza trascurare i documenti delle Conferenze episcopali per una recezione originale dell’enciclica Humanae vitae. Ma da alcuni anni una corrente critica, a disagio con le dinamiche della collegialità e della democrazia nella Chiesa, si è fatta largo per contestare l’autorità delle Conferenze specialmente in materia dottrinale. Alcuni vescovi diocesani, in larga parte quelli in disaccordo con gli orientamenti riformatori prevalenti nelle rispettive Conferenze, hanno lamentato che la loro responsabilità era indebitamente limitata da esse. Queste voci sono state amplificate da alcuni circoli della curia romana, i quali hanno indicato il pericolo di vedere le Conferenze erigersi progressivamente in altrettanti magisteri paralleli. In un’intervista del 1985 il cardinale Ratzinger aveva negato che esse avessero una base teologica: "non hanno che una funzione pratica e concreta" osservava il Prefetto della Congregazione della Dottrina, aggiungendo che "nessuna Conferenza episcopale come tale ha una missione di magistero". Così una questione assai concreta di funzionamento dei poteri nella Chiesa portava a mettere all’ordine del giorno il problema del fondamento teologico delle Conferenze e della loro competenza dottrinale: questione posta al Sinodo straordinario del 1985, il quale si rifiutava di ridurre le Conferenze al rango di semplici organizzazioni "pratiche" e ne riconosceva piuttosto la pertinenza alla struttura collegiale della Chiesa, invocando uno studio specifico del loro statuto teologico e una più chiara formulazione della loro autorità dottrinale. Un progetto al riguardo era inviato dal Vaticano nel 1988 agli episcopati, così restrittivo da disconoscere ogni potere alle Conferenze, nel timore che la spinta centrifuga fosse eccessiva. Quasi tutte le Conferenze bocciarono il testo, tranne quelle d’Italia e del Portogallo. Nel frattempo il papa, col suoi viaggi, rimetteva in valore il ruolo delle Conferenze anche in quei paesi nei quali la Chiesa non rappresenta che una piccola minoranza. Nella conferenza stampa il cardinale Ratzinger ha ammesso che, dinanzi alle difficoltà di un accordo, egli avrebbe preferito lasciar cadere il progetto e di avere chiesto al papa "se fosse veramente necessario procedere". "Il papa ha detto di sì. Era una volontà del Sinodo. Per me era impossibile ma il papa lo desiderava fortemente". Non ha detto che il papa aveva chiesto all’inizio del 1998 un supplemento di istruttoria, ritardando la decisione perché insoddisfatto della bozza presentatagli. Dopo 13 anni dalla direttiva del Sinodo, il documento riflette la fatica del compromesso raggiunto. Del resto, come si poteva pretendere di mettete sotto tutela, anzi di trattare da appendici subalterne al potere centrale dei Corpi episcopali ormai arrivati alla maggiore età, privandoli della possibilità di "inculturare " le verità della fede nei complessi contesti in cui si trovano a vivere le comunità cristiane? Il principio è stato infine assicurato, che le Conferenze episcopali hanno anche una funzione dottrinale da esercitare. Ratzinger lo aveva sostenuto nel libro del 1969 "Il nuovo popolo di Dio", anche se aveva ritenuto di abiurarlo nelle posizioni " romane" successive. Prigionieri dell’unanimità Ma alla solennità del principio accettato si accompagna l’astuzia di regole procedurali che minacciano di ridurlo a mero asserto retorico nella misura in cui il controllo dei pronunciamenti dottrinali delle Conferenze episcopali è avocato alla curia centrale. Infatti si prescrive l’unanimità dei consensi dei membri della Conferenza affinché le dichiarazioni dottrinali della medesima possano costituire "magistero autentico" e impegnare i fedeli della regione in modo vincolante. In subordine l’approvazione deve essere data a maggioranza qualificata dei due terzi dei presuli membri a pieno titolo della Conferenza ed essere confermata dalla Sede apostolica. Si stabilisce anche che nessun organismo della Conferenza episcopale, al di fuori della riunione plenaria, abbia il potere di porre atti di magistero autentico e che la Conferenza non possa concedere tale potere alle commissioni o ad altri organismi costituiti al suo interno. Sono queste procedure a porre evidentemente un problema di democrazia nella Chiesa. Il potere di interdizione assegnato anche ad un solo eventuale dissenziente è tale da trasformare il criterio, certo ottimale, dell’unanimità, in un fattore di immobilismo, destinato ad inceppare le dinamiche democratiche della formazione delle decisioni in sistemi complessi come i corpi episcopali nazionali. Se anche un solo vescovo si opponesse ad una maggioranza, queste disposizioni, che il "motu proprio" provvede ad integrare nel Codice di diritto canonico, costringerebbero all’impasse la Conferenza episcopale e a ricondurla comunque a rimettere al governo centrale la decisione finale. L'esperienza politicamente vantaggiosa del potere di veto di una minoranza ridotta di conservatori nell’ultimo Concilio Vaticano II sembra essere stata un’utile lezione per la curia attuale: sebbene la dinamica democratica sia normale in Concilio, così come in un conclave, per cui ci si conta e prevale la posizione più votata, pure si è introdotto nel diritto questo criterio ultra garantista dell’unanimità, il cui effetto finale sarebbe facilmente quello di ridurre la Conferenza prigioniera dell’eventuale opposizione interna e dunque limitata proporzionalmente nella propria autonomia, per essere ridotta ad una totale subalternità alla curia romana. Di più, la preoccupazione di tenere nelle proprie mani il controllo degli episcopati ha portato gli autori di questo testo a limitare lo spazio delle Conferenze episcopali "a curare di seguire soprattutto il magistero della Chiesa universale e di farlo opportunamente giungere al popolo loro affidato" come se i vescovi non fossero "maestri della fede", "che lo Spirito pose a reggere la Chiesa di Dio" e non avessero titolo a partecipare con il loro proprio carisma all’evoluzione dogmatica e a recezioni originali del magistero, anzi si temesse dalla loro partecipazione un’indebita pretesa di infrangere un monopolio delle forme ammissibili della fedeltà alla tradizione della fede cattolica. Si raccomanda ai vescovi di svolgere la loro funzione dottrinale "ben consapevoli dei limiti dei loro pronunciamenti che non hanno le caratteristiche di un magistero universale", quasi trascurando la ricchezza della varietà cattolica e l’insostituibile apporto che il magistero episcopale, ad accentuazione soprattutto pastorale, può dare, e di fatto arreca, al magistero universale del papa. Potere anarchico della minoranza Così il principio del potere monarchico papale, il cui assolutismo il Concilio aveva inteso temperare, si rovescia nell’opposto potere anarchico della minoranza. Il cardinale Ratzinger ha giustificato la novità parlando della "fiamma della verità" che talora arde nella minoranza. La verità non può essere decisa dalla maggioranza, è l’argomento consueto. Alcuni teologi, che affermano la pertinenza della democrazia alla concezione evangelica del potere, quale servizio alla comunità e ne trovano consistenti tracce nella pratica dei primi secoli della Chiesa, sottolineano d’altronde che nemmeno una centralizzazione eccessiva potrebbe assicurare la fedeltà della Chiesa alla missione e permetterle quella creatività necessaria alla comune e incessante ricerca di una migliore verità per tutti.
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