Un sogno chiamato Concilio

Da: Rocca, 1 novembre 1999, n. 21

Nella valutazione dei risultati maggiori del Sinodo per l’Europa (1-23 ottobre 1999, in Vaticano) sembra di poter riconoscere un posto non trascurabile alla proposta fatta dall’arcivescovo di Milano, cardinale Carlo Maria Martini, nella decima congregazione generale del 7 ottobre pomeriggio. Senza pronunciare la parola "Concilio Ecumenico", il Cardinale ha reso pubblico il "sogno" di una "esperienza di confronto universale tra i Vescovi" da ripetere "ogni tanto, nel corso del secolo che si apre". Ciò nell’intento di contribuire a sciogliere ha spiegato Martini "qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese europee, e non solo europee". Alcuni di questi punti definiti "caldi" dell’agenda sono stati specificati dal Cardinale: si tratta degli "approfondimenti e sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II", della carenza in qualche luogo, già drammatica, di ministri ordinati, della posizione della donna nella società e nella Chiesa, della partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, della sessualità, della disciplina del matrimonio, della prassi penitenziale, dei rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e, più in generale, del bisogno di ravvivare la speranza ecumenica. Il Cardinale ha incluso nell’elenco dei temi urgenti "il rapporto tra democrazia e valori, e tra leggi civili e leggi morali".

Il Cardinale ha ricordato che "alcuni di questi temi sono già emersi in Sinodi precedenti, sia generali che speciali", come ad invitare con una sfumatura gentile a considerare che, se sono ancora dei nodi gravi o irrisolti nella Chiesa, i Sinodi che pur li hanno sollevati non hanno conseguito i risultati sperati sulla via di contribuire alla loro soluzione. "È importante trovare luoghi e strumenti adatti per un loro attento esame" ha argomentato Martini, il quale ha scartato "le indagini sociologiche o le raccolte di firme e i gruppi di pressione" come strumenti validi all'uopo.

Qui egli ha toccato l'argomento decisivo per la definizione della forma istituzionale dello strumento da lui proposto: "Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente" ha specificato. "Alcuni di questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera".

"Siamo cioè indotti ad interrogarci" ha aggiunto Martini "se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio. Vi è in più la sensazione di quanto sarebbe bello e utile per i Vescovi di oggi e di domani, in una Chiesa ormai sempre più diversificata nei suoi linguaggi, ripetere quella esperienza di comunione, di collegialità e di Spirito Santo che i loro predecessori hanno compiuto nel Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni (...) "

L’intervento di Martini è stato definito "un grido lanciato con coraggio", secondo l'ampio commento dedicatogli da "La croix" (11 ottobre): "Si può discernere in esso" ha scritto il quotidiano cattolico francese "una irritazione sui limiti dell’apparato sinodale e, soprattutto, una volontà di progredire nell’esercizio reale della collegialità. Come? Con una assemblea di tutti i vescovi del mondo, dotata di un potere deliberativo sotto l’autorità del papa. Ciò che si chiama, canonicamente, un Concilio".

Secondo una dichiarazione "in esclusiva" attinta dallo stesso giornale al Cardinale, egli ha precisato di aver invitato "a promuovere forme di collegialità più ampie per rispondere ai problemi precisi che ci sono posti. Tale è la buona interpretazione di ciò che io ho voluto dite. Al Sinodo noi non possiamo trattare tutti i problemi e tutti i vescovi non sono riuniti".

Dall’inferno al paradiso?

Degli applausi hanno salutato in aula l’intervento di Martini. Tuttavia delle riserve sono emerse, e addirittura delle critiche nei circoli più vicini ai settori direzionali del governo centrale della Chiesa. "L'Osservatore romano" ha contenuto il proprio entusiasmo limitando a poche righe lo spazio dedicato alle proposte di Martini nel resoconto della seduta. Nella Sala Stampa della Santa Sede è stata fatta circolare nelle ore successive una voce tipica delle operazioni di disinformazione pilotata, secondo la quale la segreteria del Cardinale, interpellata, aveva escluso che egli volesse riferirsi all’ipotesi di un Concilio, mentre una semplice lettura del testo integrale del suo intervento non lasciava adito, per la sua chiarezza, ad alcun dubbio interpretativo delle parole dette.

Infine è riapparso in scena il solito monsignor Sandro Maggiolini, vescovo di Como, autore di un articolo di infiammata protesta "spirituale" per le preoccupazioni di riforma istituzionale espresse dal suo metropolita. Pubblicato su "Il Giorno", il dissenso di Maggiolini è stato fatto conoscere anche attraverso il giornale cattolico "L’Eco di Bergamo", che ne ha ripubblicato integralmente l’articolo, non senza suscitare meraviglia nella Chiesa lombarda e altrove.

Gli argomenti adottati dalla critica sono principalmente i seguenti. I. È velleitario parlare di un Concilio Vaticano II quando ancora il Vaticano II non è stato assimilato in profondità; II. Le questioni fondamentali da affrontare per ravvivare la fede dei contemporanei non sono quelle indicate da Martini; III. Non si può mutare un insegnamento, da considerarsi "definitivo" circa la morale coniugale e il sacerdozio delle donne: "se la Chiesa’ dovesse promettere il paradiso per domani a persone alle quali ha minacciato l’inferno ieri a motivo dei medesimi comportamenti, ignoro" ha scritto Maggiolini "quanto credito essa meriterebbe in futuro. Prima dannati e poi beati? Prima eretici e poi perfetti? Boh (sic.)".

Al secondo argomento si e associato il vescovo polacco di Lublino mons. Josef Zycinski, segretario speciale del Sinodo, il quale ha dichiarato che "se argomentiamo che nuove strutture possano risolvere i nodi fondamentali, abbiamo una visione di tipo magico e non teologico" ("Avvenire" 12 ottobre).

Si è così ripresentata, con leggere variati, la retorica lefebvriana di coloro che, a disagio con alcune direttive di un Concilio da loro interpretate restrittivamente, usano la scarsa recezione del Vaticano II, soprattutto sull’ecclesiologia di comunione e sul pluralismo religioso, per contrastare l’eventualità dell'apertura di una nuova fase conciliare nella Chiesa cattolica, in accordo con i nuclei tradizionali della curia romana. Essi trascurano di ammettere l’evoluzione dei dogmi e i progressi compiuti dalla Chiesa nell’approfondimento nella Rivelazione, e sono gli stessi che distillano il loro disgusto sulla raccomandazione di Giovanni Paolo II ad ammettere con spirito di pentimento gli errori compiuti nei secoli, con l’ovvio effetto di liberare dall’inferno le vittime di tali errori, se ivi effettivamente finite.

Fonti ecclesiastiche hanno fatto notare il paradosso di questi difensori intrepidi del principio di autorità, inclini ad anatemizzare i dissenzienti, ora in scena nelle vesti di chi non esita a farsi dissenziente, in atti pubblici e soprattutto in mene sotterranee, nei confronti di altri Pastori autorevoli, così dando spettacolo non molto edificante di divisione nel corpo episcopale su temi di non secondaria importanza per la pastorale della Chiesa e per la Fede del popolo. Le stesse fonti non escludono tuttavia che costoro, frequentando come sogliono le redazioni dei giornali, abbiano fatto intendere qualche disponibilità a rivedere la loro intransigenza di facciata per abbracciare i principi democratici di quella "opinione pubblica nella Chiesa" riconosciuta già da Pio XII, addirittura fino ad impegnarsi a riconoscere, se necessario, eguale diritto di critica e di dissenso al loro gregge, pur di attingere cattedre più elevate.

Ma l’aspetto più preoccupante della controversia ha riguardato la presunta opposizione tra spiritualità e riforma delle strutture istituzionali, come se San Bernardo di Chiaravalle e Santa Caterina da Siena fossero divenuti spiritualmente discutibili quando, mossi dal desiderio di rendere più vitale la spiritualità della Chiesa nella loro epoca, denunciavano la cupidigia di potere e l’immobilismo della curia romana e raccomandavano ai papi di "porre la scure alla radice" con profonde riforme strutturali. Essi non esitavano ad accusare i conservatori di nuocere alla spiritualità della Chiesa, un rimprovero che non ha perso col tempo il suo valore.

In realtà la storia bimillenaria della Chiesa, coi suoi ventun Concili Ecumenici, testimonia che precisamente gli interventi dottrinali e disciplinari adottati in Concilio furono normalmente importanti, a misura del grado di recezione ecclesiale, per sanare i difetti di spiritualità riscontrati nell’istituzione ecclesiale, a causa di un attaccamento troppo forte agli interessi politici e alle tendenze temporalistiche del clero.

Il terzo potere

Al crepuscolo del pontificato polacco, si può notare che il valore principale dell’intervento sinodale di Martini sembra consistere meno nel suo contenuto programmatico per il futuro pontefice che nel richiamo forte da lui operato alle prerogative irriducibili del collegio episcopale, che effettivamente trovano la loro piena espressione in un Concilio universale. Già molteplici sono state le voci significative levatesi nella Chiesa in anni recenti per invocare un maggiore rispetto da parte dell’apparato burocratico del Vaticano dei compiti relativi alla collegialità propri dei vescovi, bloccando le pretese indebite della curia romana di surrogarli nel governo della Chiesa universale, con e sotto Pietro. Si ricorderanno le denunce espresse al riguardo dall'ex arcivescovo di Vienna cardinale Franz König e dall’arcivescovo emerito di San Francisco mons. John Quinn, secondo il quale l’eccesso di centralizzazione romana rischia di costituire una controtestimonianza per la spiritualità necessaria alla Chiesa e di agire come "un terzo potere" autonomo interposto tra il papa e i Vescovi.. L'ex presidente della Conferenza dei Vescovi cattolici degli Stati Uniti aveva indicato, tra le conseguenze di tale processo patologico, il sovvertimento dell’articolazione canonica dei poteri nella Chiesa cattolica e la preclusione di ogni seria discussione su questioni gravi come la contraccezione, l’ordinazione delle donne, l’assoluzione generale e il celibato dei preti latini, col connesso diritto prioritario dei fedeli all’eucarestia: questione di assoluta natura spirituale e sacramentale, come quella del matrimonio cristiano. Sembra di poter considerare che l’originalità dell’intervento di Martini sta principalmente nell’aver mostrato la congiunzione tra questi "problemi caldi" e lo spazio più elevato possibile dell’esercizio della responsabilità collegiale dei vescovi, nel loro compito sacramentale di coadiuvare il Pastore supremo nell’esercizio del governo universale della Chiesa (che è questione spirituale anch'essa, e non anzitutto giuridica e tanto meno politica).

Se non interpretiamo male, quella di Martini può essere stata quasi una mano tesa al papa per sottrarlo alla "solitudine istituzionale" in Vaticano, e per assicurare alle proposte da lui incoraggiato poi il Giubileo del Duemila, contenuto nella Tertio Millennio adveniente, uno strumento adeguato di esecuzione, idoneo a convalidare anche dopo il Giubileo, a festa finita: non si può trascurare il fatto che, nell’intervento di Martini, ricorrano alcuni fra i temi della riforma ecclesiale rilanciati dal papa in quella Lettera, in particolare il tema dello sviluppo dell’ecclesiologia di comunione e quello dei progressi del cammino ecumenico. Una cosa però è l’auspicio generico, un’altra la registrazione istituzionale delle riforme enunciate: al primo si applaude, alla seconda si fischia, perché opera sul nervo scoperto e disturba i conducenti.

E' ben noto del resto il fatto che, impotente ad affrontare questioni di drammatica impellenza pastorale, Roma preferisce censurarle e rinviale al prossimo pontefice, mentre il papa regnante è entrato nel ventunesimo anno dirottandosi nei viaggi e lanciando per quanto affaticato delle sonde nei cieli dell’avvenire. Si ricorda peraltro che ai problemi di solitudine istituzionale rispetto alla curia Giovanni XXIII seppe rispondere, avendo quasi 80 anni, proprio ricorrendo ad un Istituto di consolidata tradizione apostolica e restituendo la parola ai vescovi col Vaticano II. Forse. Martini fa intendere tra le righe di pensare persino ad una convocazione periodica del Concilio, come disposto "per sempre" dal decreto Frequens al Concilio di Costanza nel 1417 per scadenze ogni dieci anni, che invece non furono osservate.

Se un nuovo Concilio…

Non si saprebbe sottovalutare la difficoltà dell’impresa d’un Concilio, all’alba del millennio. Esso riunirebbe, come i precedenti, tutti i vescovi cattolici del mondo. Nel 1870, il Vaticano I aveva riunito 704 padri e nel 1962-1965 il Vaticano II ne riunì circa 1.900, in quattro sessioni. Oggi un Concilio riunirebbe oltre 4.300 vescovi, ai quali bisognerebbe aggiungere i superiori degli Ordini e Congregazioni religiose, gli uditori laici ci rappresentanti delle altre confessioni cristiane: un’impresa mastodontica.

D’altronde, i problemi sul tappeto non lo sono meno, quelli della ricomprensione del mistero cristiano in rapporto alla modernità e alla mondialità in prima linea. Basterebbe solo la questione posta sul tappeto da Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962, nell’allocuzione inaugurale del Vaticano II, a giustificare un nuovo Concilio: "l’autentica dottrina va esposta e studiata attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno". È una ritrattazione degna di una nuova Calcedonia, di una nuova Nicea, per rilanciare l’inculturazione del seme evangelico nei diversi linguaggi di un mondo di globalizzazione. Un’impresa destinata a coinvolgere tutte le Chiese cristiane d’Oriente e d’Occidente, uno spazio effettivamente "conciliare", dunque unificante.

L’idea che un Concilio sia ormai maturo circola da tempo in ambienti ecumenici. Ne avevo io stesso trattato in un Convegno del Sae nel 1992, e poi nell’edizione francese del Successeur (Paris, 1995). Ne parlò Konrad Raiser, pastore luterano, segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, nel 1997 (Cfrt. "Confronti", maggio 1998, con un'intervista a Raiser). Nello stesso anno, il teologo ortodosso Clivier Clément inseriva nel volume Rome, autrement la proposta della convocazione di un concilio veramente ecumenico", come quelli tenuti insieme dall’Oriente e dall’Occidente nel primo millennio, per approvare da parte di tutte le Chiese le decisioni, riformulate, adottate durante i secoli della divisione, e proclamare la ritrovata unità delle Chiese cristiane intorno a un vescovo di Roma da tutte accettato.

Il cardinale Martini ha parlato di un "sogno". Tra i sogni e la realtà, delle mediazioni si impongono. Il Sinodo sull’Europa ha mostrato, in più di un intervento riformistico e ricco di speranza, che la Chiesa avverte più di ieri il bisogno di inverare, dinanzi ai pessimisti, la profezia di Gioele di cui parlano gli Atti (2, 17): "Negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio spirito sopra ogni persona e i vostri anziani faranno dei sogni".

 

Giancarlo Zizola




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