Per un Papa che aveva scandito all’esordio del regno, venti anni fa, l’invito ad "aprire le porte alla potenza del Cristo", la figura di sé che egli rimanda, resa tremebonda e stanca dall’infermità, evoca una rivelazione della redenzione senza dubbio meno trionfale dei tempi abbaglianti delle copertine dedicate all’"atleta di Dio". Ma in questa fragilità è visibile anche un messaggio più pertinente alla verità storica del mistero fondativo della Chiesa, quell’innocenza crocifissa, quel Cristo piagato che, secondo l’iconografia classica, emana la sua luce precisamente dai fori dei chiodi nel corpo offeso, in una potenza che non è più umana o istituzionale, ma solo scaturita dalla grazia per chi ha il dono della fede. Di qui la previsione che la lettura di questa forma papale possa ispirare non solo l’ammirazione per la sua resistenza al dolore e all’invecchiamento, ma anche una revisione pedagogica del papismo idolatrico annidato in certa cultura cattolica e che influenza anche la papolatria di alcuni paggi mediatici.
L'incertezza si intreccia all’ansietà, negli ambienti vaticani. Nella stessa Bolla d’indizione del Giubileo, scritta in prima persona da Wojtyla, la prudenza ha suggerito il ricorso alla forma impersonale nel passo in cui si annuncia che "il Papa per primo varcherà la porta santa nella notte tra il 24 e il 25 dicembre 1999". Il documento traduce l’incertezza istituzionale ad un livello più istituzionale, nella tensione tra il tema della "porta" da varcare per la salvezza nella Chiesa, e il tema del "pellegrinaggio", nella storia, tra l’indulgenza che si lucra visitando le basiliche e quella con le visite agli handicappati, agli anziani, ai carcerati, ai bisognosi.
Questo pontificato si illumina al tramonto di accensioni inattese, che arrivano a denunciare l’inattendibilità teologica, dal punto di vista cristiano, delle logiche clericali. La prospettiva del Terzo Millennio è utilizzata come una forma di pressione sull’istituzione perché riapra i processi di riforma. La questione della riforma del papato, aperta dall’enciclica Ut unum sint nel 1995, ha prodotto un dibattito teologico anche in Vaticano sulle nuove forme di esercizio del primato, un progetto che prenderà "lo spazio di un secolo", secondo il teologo cattolico Luigi Sartori. Ma allo stesso tempo si osserva la riproduzione di logiche clericali ansiose di installare un regno di Dio in terra nello sfarzo della potenza, o delle verità definitive e irreformabili, e di assicurarsi nuove protezioni temporali con il riciclaggio del regime di cristianità, rimuovendone i principali fattori di crisi. Si cercano perciò nuovi strumenti di presenza che garantiscano alla Chiesa romana non solo di traversare indenne le perdite della secolarizzazione, ma anzi di trarre vantaggio dalla crisi della modernità e dai bisogni di certezze salvatrici che la inquietano.
Ambivalenza di una crisi istituzionale
Al culmine del processo che ha liberato il papato dall’emarginazione del 1870, ne ha ridimensionato le aspettative politiche e lo ha restituito con il Concilio Vaticano II alla missione spirituale ed etica che gli compete, l’istituzione papale ha raggiunto l’obiettivo del proprio reinserimento nella comunità internazionale. Sono pochissimi gli stati che non dispongano di un ambasciatore presso la Santa Sede. Da versanti ideologici diversi forze politiche di tutto il mondo riconoscono al papa o alla Chiesa cattolica un ruolo umanistico compensativo delle carenze e derive di una civiltà in ricostruzione. Il papato è divenuto un fattore di speranza per molti popoli e ha dato voce alla sete di giustizia dei più deboli. In una società tentata di appiattirsi sul "pensiero unico". Esso ricorda che esistono delle frontiere all’inumano che non si possono infrangere e dei valori che meritano di essere mantenuti nel mutamento vorticoso delle forme della civiltà. Con l'opposizione all’operazione angloamericana contro l’Iraq e con la richiesta di abrogare universalmente la pena di morte, il papato non ha esitato a riproporre un confronto di sapore medievale con l’imperatore contemporaneo, cioè con Bill Clinton.
E tuttavia anche questa istituzione al suo apogeo nei tempi moderni dà segni di disfacimento e di inadeguatezza, che le misure di centralizzazione e le terapie di riabilitazione non solo non sanano, ma finiscono per aggravare, i motu proprio estivi che hanno esteso il campo dell’infallibilismo alle "verità definitive" della gerarchia ecclesiastica e messo alle corde l’autonomia delle conferenze episcopali in materia dottrinale sono stati considerati da non pochi teologi come segnali di debolezza. Non si esita a riconoscere che il disegno di ridimensionare la concezione conciliare di una Chiesa di comunione costituisce uno dei maggiori fattori di questa crisi.
Lo stesso Giovanni Paolo II, che si è profuso per i diritti umani e per lo smantellamento del sistema totalitario sovietico, ha dichiarato ai vescovi austriaci di essere contrario all’ammissione di forme di partecipazione democratica nella Chiesa, che pure erano praticate nella tradizione apostolica. D’altra parte, si constata anche che il papato si presenta ai contemporanei come un punto di riferimento non solo per la sua Chiesa, e per i credenti, ma anche per la società, in molteplici campi critici del futuro umano, sui quali la Chiesa ritiene, non da sola, che l’ultima parola non possa essere lasciata agli economisti, ai tecnici e agli scienziati.
Questa ambivalenza di una crisi istituzionale non superficiale con la credibilità (benché a volte discussa) del messaggio pontificio potrebbe autorizzare conclusioni solo apparentemente contraddittorie. Da un lato si deve considerare come evidenza storica che il "Tevere più largo" non solo non ha impedito, ma ha favorito l’espansione universale del messaggio spirituale ed etico della Sede romana. La spoliazione dei suoi apparati politici e delle sue pretese a privilegi mondani ha cominciato a far cadere i guanti d’oro ecclesiastici che occultavano i buchi delle mani del Crocifisso. E' un processo ancora in corso, che conosce delle ricadute e degli arresti in paesi come l’Italia dove la Chiesa tenta di compensare la perdita dei tradizionali strumenti politici recuperando sicurezze sul piano concordatario.
Vi è una clausola di universalità che le inchieste di opinione a questo proposito mettono in luce: l’efficacia della parola pontificia sarebbe tanto più incisiva fuori quanto più profetica dentro e disinteressata. Essa sarebbe tanto più significativa per la coscienza quanto meno pretendesse di essere una parola piena, esaustiva della verità, immagine trionfalistica di Dio, fino a riempire di sé l’orizzonte umano, svalutando le ricerche e i silenzi dell’uomo. Giovanni XXIII non era un papa moderno, ma arcaico. Tuttavia la sua presa sui contemporanei era altissima a causa del suo profetismo. Lo stesso Paolo VI, papa considerato "diplomatico", aveva i brividi della profezia e i dubbi dei contemporanei.
Un balzo all’indietro
Con Giovanni Paolo II è il linguaggio della sicurezza cattolica che è tornato in auge. Egli ha mobilitato enormi energie per ricomporre il monolito cattolico, ricostruendone le figure qualificanti, i santi a iosa, il papa, il clero, le suore, i frati, i concordati, i nunzi, la curia romana con in testa l’ex Sant’Offizio, il Catechismo, il dogma, il consenso organizzato, l’uniformità coatta, l’allineamento dei media, il culto mariano, le indulgenze. Essendo polacco, non poteva che essere romano-centrico: nella storia polacca Roma ha avuto la funzione di anima della nazione. Senza questo riferimento sarebbe difficile pensare che un papa "di confine" come Wojtyla avesse potuto prodigare una tale sensibilità nei confronti delle esigenze della centralizzazione della cattolicità, a cui i viaggi nel mondo hanno fornito una spinta e una spettacolarizzazione senza precedenti. Di più, non si può evitare di risalire alla sua storia nazionale per cogliere la chiave di uno dei motivi continuamente insistiti del pontificato, il tema pre-politico della nazione come radice e supporto neocarolingio della cristianità, almeno in Europa. E l’idea simmetrica, neo-medievale, di una funzione civile del papato, di un ruolo della Chiesa come potenza spirituale normativa fra le potenze del mondo.
Ma al tramonto di un pontificato così impegnato nel recupero di motivi tipici della Controriforma, con nuove strategie di presenza missionaria e di espansione etico-politica nella società secolarizzata, le sicurezze vacillano i bisogni del sacro dei moderni rimangono, ma non producono l’attesa revisione dell’emancipazione della società civile dalla società clericale. Quel processo, che alcuni nella Chiesa speravano reversibile, continua ad allargarsi. Secondo le statistiche, la pratica religiosa non cessa di diminuire. Un gesuita francese, Albert Longchamp, ha paragonato la Chiesa di Wojtyla a quella di Innocenzo III, sette secoli prima: la Chiesa crollante del famoso sogno di Francesco d’Assisi. "In venti anni di regno questo Papa ha polverizzato qualsiasi record" ha detto Longchamp. "Ma esiste il rovescio della medaglia: laici imbavagliati, teologi sotto tutela, vescovi in libertà vigilata, iniziative locali bloccate, centralismo forsennato. L’atmosfera è pesante, carica di tensioni, colma di risentimento. Il grande slancio spirituale si è infranto, frenato dagli interdetti, paralizzato dai giuramenti, polarizzato dal Catechismo. Dopo aver superato tante tempeste, la barca di Pietro ora si è ancorata alla cittadella, dove la macchina lavora a pieno ritmo".
La conseguenza di questo balzo all’indietro rispetto alla Chiesa conciliare è una crisi di creatività, un logoramento dei circuiti della partecipazione, una difficoltà di dialogo della Chiesa all’interno, e con la società: corpi separati di nuovo emergenti all’interno, nuovi storici steccati all’esterno (proprio sulle questioni etiche nelle quali non l’ordine della redenzione, ma quello della creazione è in questione, e dunque la ricerca dei valori-guida possibili e condivisibili coinvolge tutti).
La posizione di Giovanni Paolo II è stata definita "tragica" da Hans Küng. "Ha viaggiato in tutto il mondo parlando e ammonendo le persone e scrivendo encicliche, e quale il risultato? Non ha cambiato nulla. Ci sono più cattolici che mai contro l’insegnamento ufficiale sulla sessualità e il matrimonio; e più cristiani opposti a Roma di quanti non ve ne fossero ai tempi di Giovanni XXIII". Vi è certo dell’esagerazione in tale giudizio, ma è un fatto incontrovertibile che i maggiori problemi della Chiesa sono sistematicamente rinviati al successore e non si trovano più vicini ad una soluzione.
La realtà è che, malgrado gli sforzi immensi prodotti dal Papa, lo stesso progetto di riconquista cristiana della modernità (che aveva già mostrato i suoi limiti sotto Pio X, Pio XI e Pio XII e che tuttavia si è ritenuto di ripresentare con le varianti del caso) si è trovato nell’impasse. Uno dei contraccolpi sull’assetto degli equilibri vaticani è il tentativo di rilanciare un antimodernismo di movimenti, con la psicosi dello stato d’assedio e la cultura dell’intransigenza cattolica che tenta di trasformarsi in cultura direzionale della Chiesa romana. Ormai si possono identificare gli spazi assegnati ai diversi movimenti nei gangli dell’istituzione, a macchia di leopardo.
Verso un nuovo concilio?
Ma non è la sola risposta visibile nella Chiesa, in questa fine del Novecento. Lo stesso papa ha ammesso l’insostenibilità delle posizioni integraliste nell’enciclica Fides et Ratio, la quale ha segnato un mutamento di tono rispetto alle precedenti, che avevano radicalizzato le critiche e le diffidenze del mondo laico alla Chiesa. Nella Bolla di indizione del Giubileo del Duemila egli ha ribadito, malgrado le opinioni difformi di alcuni settori ecclesiastici, che "anche noi, figli della Chiesa, abbiamo peccato". Egli ha raccomandato dei mutamenti spirituali e strutturali di grande respiro, nel senso indicato dal Concilio Vaticano Il, per rilanciare la speranza di una rigenerazione della Chiesa malgrado le sue imperfezioni. Echeggiando la visione della Lettera a Diogneto, un testo del II secolo, questo Papa ha proposto sulla soglia del III millennio che i cristiani vivano nel mondo "sapendo di dover essere il fermento e quasi l’anima della società umana".
È la prospettiva medesima di chi, come lo stesso cardinale Ratzinger, non teme di riconosere la disfatta irreversibile della "nuova cristianità" e ammette che, essendosi la società cristiana frantumata a vista d’occhio, l’aspettativa di una fede divenuta nuovamente un fenomeno di massa, in forma più o meno carolingia, sarebbe illusoria. La constatazione che la strategia della "religione di società", nella quale si è tentato di voler essere ad ogni costo una forza rilevante della società, non ha raggiunto gli obiettivi sperati e ha determinato una sorta di riabilitazione, sia pure tardiva, della visione conciliare. Notevole al riguardo la posizione adottata pubblicamente dal cardinale Martini, nell’allocuzione. per la festa di Sant’Ambrogio, per sostenere che l’opzione più modesta, a favore di una Chiesa consapevole della propria condizione minoritaria, plasmata sulle metafore diminutive del piccolo gregge, del seme, del lievito, è tutt’altro che insensibile ai suoi compiti etici pubblici, anzi diventa più capace interiormente di fecondare la società e di essere persuasiva, allorché si china sulle debolezze emergenti dell’uomo senza fini di potere e con la consapevolezza della propria poca rilevanza.
L’opinione di Paul Valadier, gesuita, ex direttore della rivista Études, è che l’ultima enciclica rivela "un Papa differente nel suo modo di pensare" e che "siccome il pontificato non è ancora finito, può riservarci chissà quali sorprese". Malattia e debolezza incidono. Ma l’accumulo dei problemi evasi è tale da aver fatto risuonare per la prima volta, in una sede ufficiale a Roma, la proposta di un rimedio d’emergenza, un nuovo Concilio ecumenico. E accaduto durante il Sinodo per l’Oceania, il 24 novembre: "all’inizio del nuovo millennio" ha detto l’irlandese Michael Curran, superiore generale dei missionari del Sacro Cuore al Papa presente in assemblea e ai vescovi dell’Oceania "ritengo che un Concilio ecumenico sia necessario. Esso dovrà affrontare in modo diretto ed efficace le questioni dell’ordinamento e del governo della Chiesa. Tenendo conto del principio di sussidiarietà, di quali servizi abbiamo bisogno a Roma per proseguire la missione della Chiesa nel terzo millennio? Quali ambiti di responsabilità potrebbero essere affidati alla Chiesa locale, alle sedi patriarcali e alle conferenze episcopali? Come e da chi deve essere svolto il ministero ordinato? Sono questioni urgenti".