Da: La Repubblica, 9 gen. 1999, pag. 11 La Chiesa trionfante senza umiltà cristiana di Alberto Asor Rosa LA RIAPERTURA del confronto fra lo Stato laico e la Chiesa cattolica è senza dubbio, almeno in Italia, dove il problema ha un suo innegabile spessore storico, un fatto positivo. A questa affermazione non segue, come di consueto, un "ma". Piuttosto, l' invito ad allargare i confini al di là della contingenza, come in tutti quei casi in cui è protagonista, in positivo come in negativo (e anche questa seconda eventualità, com'è noto, si è verificata più volte nella storia italiana, e per certi aspetti continua a verificarsi), la Chiesa di Roma. Osserverei perciò, per cominciare, che per essa il rapporto fra contingente e duraturo, fra attuale e perenne, ha un valore diverso che per qualsiasi altra istituzione terrena. Sul filo di questa connaturata e insormontabile diversità, occorre ragionare, anche e forse soprattutto dal punto di vista della prospettiva laica che, non sembri ormai troppo strano, a molti continua a stare più a cuore di quella religiosa (senza per questo manifestare atteggiamenti d'insofferenza o tanto meno di disprezzo nei confronti dell'altra). Dunque ha certo ragione papa Wojtyla, quando afferma che la Chiesa non è una democrazia, ma una creazione divina. Tuttavia, non si può negare che questa affermazione, sia per la sua estrema perentorietà sia per l' occasione in cui è stata pronunziata - era rivolta, infatti, ai rappresentanti più eminenti della Chiesa austriaca, colpevoli di aver lasciato troppo spazio alle comunità ecclesiali di base - pone dei problemi, anche ai non credenti, sui quali a mio avviso non si è ancora abbastanza riflettuto. Come minimo, si potrebbe osservare che il pontefice intende consapevolmente accentuare rispetto al passato la distinzione, la cesura fra storia delle istituzioni politiche umane e storia ecclesiale: anche la democrazia, per non parlare di tutti gli altri che l'hanno preceduta, non sarebbe che un momento, imperfetto e transeunte, della società umana, cui la Chiesa accondiscende ad affiancarsi per un certo tratto del suo percorso, ma senza minimamente degnarla del proprio avallo perpetuo. a "nefasta separazione" tra il sapere teologico e il sapere filosofico si sarebbe verificata niente di meno che nel tardo Medio Evo (Lett. enc. Fides et ratio, 45): dunque, tutta la storia umana degli ultimi sei secoli, secondo l'opinione ex cathedra dell'attuale pontefice, andrebbe considerata in un'unica prospettiva di errore e di decadenza. È il "moderno", dunque, tutto il "moderno", nella sua duplice componente di spirito protestante e di spirito filosofico laico, tendenzialmente non metafisico, a cadere sotto questa condanna. Si potrebbe concludere, non tirando presuntuosamente conclusioni, ma ponendo problemi. Bisognerebbe innanzi tutto ammettere che la campagna dogmatica del cattolicesimo romano s'inserisce oggi fattivamente in una crisi profondissima dell'identità occidentale, all'interno della quale la Chiesa si presenta come l'unica in grado di enunciare, senza pudori, grandi valori. Ma su questo dato di fatto converrà smettere di piagnucolare: il pensiero forte è come il coraggio, chi non ce l'ha, non se lo può dare (ciò, credo, che, con altre parole, Scalfari su queste colonne ha chiamato "perdita del padre"). E, del resto, i grandi valori davvero ci sono, dal momento in cui forze storiche reali sono in grado di caricarseli sulle spalle e di traghettarli al di là del vuoto vertiginoso delle discontinuità, che ogni tanto si aprono nella storia dell'uomo. Ma dove sono queste forze? A me pare che, in questo modo, la Chiesa di Roma, proprio mentre celebra il proprio primato, entri come in una grande solitudine rispetto all' umano. Se un giorno si vorrà superare questa divaricazione, bisognerà che la Chiesa di Roma torni ad ammettere che la mancanza di fede - lo scetticismo, il problematicismo, il criticismo, la ricerca senza pregiudiziali sicurezze, insomma tutto ciò che essa considera devianza ed errore - fa parte, allo stesso titolo della fede, della storia dell'uomo post-antico, anzi ne costituisce, come lei stessa è costretta ad ammettere dalla nuda evidenza dei fatti, una componente decisiva. Non dalla sua reiezione, dunque, ma dalla sua introiezione lo stato di crisi nostro - comune a tutti - potrà essere affrontato, se non risolto. Questo è il dominio del dubbio e della ricerca, non delle certezze né della tracotanza, ed è al tempo stesso il naturale terreno delle convergenze possibili: non a caso, della finitezza dell'uomo e della sua precarietà ci ha parlato il Cristianesimo prima (e forse meglio) del pensiero laico moderno. Si tratta di una verità molto semplice, scontata, molto banale e molte volte ripetuta: da vergognarsene, quasi. Ma questa semplice verità bisognerà tornare a enunciarla a voce alta: se non lo faremo, dovremo rassegnarci ad ammettere che tra mondo dello spirito e pratica del mondo ci sia quella scissione insormontabile (e per me nefasta), di cui Roma oggi così severamente ci parla. |