Mi sembra una feconda
ipotesi interpretativa quella che, contrariamente a quello che si pensa,
riconosce nel Vaticano II due distinti concilii, ognuno con i suoi protagonisti e con la sua coerenza
interna.
Suggerisce questa ipotesi la riflessione sulla costante contrapposizione, che si è verificata all’interno del Vaticano II e dei testi finali, malgrado la loro apparente convergenza, di due correnti teologiche, preoccupate l’una di avvalorare le possibilità di innovazioni aperte dal Vaticano II e sollecitate da Giovanni XXIII; l’altra di salvaguardare la continuità dottrinale e l’ortodossia della Chiesa cattolica. Paradossalmente protagonisti della prima corrente erano i padri della maggioranza conciliare e i periti che li accompagnavano (fra i quali bisogna ricordare Karl Rhaner, Yves Congar e Joseph Ratzinger); protagonisti della seconda corrente erano i padri della minoranza conciliare e i loro periti (fra questi, in primo luogo, i membri della curia romana) che li ispiravano. È importante citare, tra i membri di questa minoranza, la presenza attiva di Karol Wojtyla, che interpretava il Vaticano II come una mobilitazione della Chiesa nella lotta contro il marxismo e l’ateismo.
Mi si permetta una
testimonianza personale. Come perito conciliare sono
stato membro, con l’arcivescovo di Cracovia, della sottocommissione
sull’ateismo del documento “La Chiesa nel mondo contemporaneo” (la Gaudium et spes). Durante i lavori della sottocommissione fu evidente il contrasto fra l’atteggiamento combattivo di Karol Wojtyla e la volontà di
dialogo manifestata dalla maggioranza conciliare. Questo contrasto non si
riferiva unicamente ai tempi dell’ateismo e del marxismo, ma in generale alla
relazione del Vaticano II con il mondo moderno. Ora, il dialogo con il mondo
moderno è stato forse l’atteggiamento caratterizzante della maggioranza
conciliare e pertanto del Vaticano II. Certamente non era facile, in quel
momento, prevedere che questo vescovo sarebbe giunto ad essere l’interprete
“autentico” del Vaticano II, che egli interpretava in una prospettiva
conservatrice e del quale non aveva percepito la novità.
Oltre al tema dell’ateismo,
altri esempi mettono in luce il significato di questo conflitto teologico permanente:
il tema della libertà religiosa e quello della Chiesa. La libertà religiosa era
stata rifiutata prima del Vaticano II dalla curia romana che difendeva
l’obbligo di subordinarla alla “verità”, concretamente alla dottrina cattolica
e al magistero della Chiesa. L’argomento fondamentale della curia era che non
si possono porre sullo stesso piano la verità e
l’errore (la “verità” è qui evidentemente quella cattolica). Il concilio
conservatore manteneva la stessa posizione, mentre il concilio innovatore
proclamava, fra i diritti umani fondamentali, il diritto alla libertà
religiosa.
Nella concezione della
Chiesa, il concilio conservatore difendeva come fondamentale il carattere
gerarchico, fondato sull’infallibile autorità personale (ex sese e non ex consensu ecclesiae) del papa, mentre il concilio innovatore
riscopriva come fondamentale il “popolo di Dio” e pertanto il carattere
popolare e comunitario della Chiesa e delle relative autorità. Si
contrapponevano così due ecclesiologie.
Questi esempi obbligano a
riconoscere che i membri dei due concili avevano concezioni diverse dello
stesso concilio. Come si spiega allora la quasi unanimità con la quale furono
approvati i documenti conclusivi? Il “dualismo” sembra escludere la possibilità
di documenti comuni ai due concilii. Ma se si
analizzano più da vicino questi testi si scopre che
quasi tutti sono caratterizzati da un certo sincretismo e che pertanto occupano
coerentemente il loro posto in ognuno dei due concilii.
L’ipotesi di “due concilii” spiega le due interpretazioni o ermeneutiche
attuali. Il papa Benedetto XVI, nel suo discorso di auguri
alla curia romana, segnala queste interpretazioni e propone allo stesso tempo
la sua valutazione di esse. È importante notare che, nella sua prospettiva, non
esistono nel Concilio due tendenze contrapposte, ma un pronunciamento unitario
e coerente, caratterizzato dalla ricerca della “novità nella continuità”:
continuità con il Concilio ma anche con il preconcilio,
cioè con l’integrità della dottrina cattolica tradizionale.
Questo pronunciamento corrisponde al Concilio che abbiamo definito
“conservatore” e che è stato rappresentato dalla minoranza conciliare e dalla
curia romana. Pertanto, secondo Benedetto XVI, l’interpretazione corretta del
Vaticano II è quella “conservatrice”. Quella “progressista”, invece, è
un’interpretazione arbitraria ed estremista.
Gli sviluppi del Vaticano
II si sono orientati in queste due direzioni. Le analizzeremo alla fine. Per
adesso ci limitiamo a considerarli come un’eloquente conferma del dualismo che
abbiamo segnalato.
Nonostante la molteplicità
di luoghi e di forme nel quale si manifesta questo dualismo, è possibile
avvertire in esso una profonda coerenza. Per
approfondire il senso di questo dualismo e di questa coerenza interna dobbiamo
individuare il punto di vista e il principio unificante di ognuno dei due concilii, posto che, secondo la nostra ipotesi, non esiste
nel Vaticano II un solo punto di vista né un solo principio unificante, ma per
lo meno due. Ora, con sicura (inevitabile) schematizzazione, penso che i punti
di vista e i principi unificanti siano l’antropocentrismo,
che interviene nel Vaticano II come principio di innovazione,
e l’ecclesiocentrismo, che interviene come principio
di continuità.
Una prima indicazione
riguardo al posto che la Chiesa (cattolica) occupa nella prospettiva
conservatrice, proviene da un dato quantitativo che ha un grande
significato qualitativo. Lo desumo dall’edizione dei documenti conciliari
pubblicata dal Centro Dehoniano di Bologna. L’indice
di questa pubblicazione prende 111 pagine. Di queste, alla voce “poveri” sono
dedicate sei righe, a “povertà” cinque, alle parole “amore” e “carità” circa
una pagina ciascuna, altrettanto alle parole “Dio”, “Vangelo”, “Mondo”. Alla parola “uomo” 3 pagine, a “Cristo” 6, a “Chiesa” 20.
Se passiamo in rassegna tutti i documenti, possiamo constatare che in
ognuno di essi la Chiesa cattolica è effettivamente al centro della
prospettiva. Si riferiscono direttamente alla Chiesa i due documenti chiave, la Lumen gentium e
la Gaudium et spes. Così è per i documenti sulle Chiese cattoliche
orientali (Orientalium ecclesiarum);
sull’attività missionaria (Ad gentes); sulla liturgia (Sacrosanctum
concilium), che inizia collocando il posto della
liturgia nel mistero della Chiesa; sul ministero e la vita dei sacerdoti (Presbyterorum ordinis),
che analizza il presbiterato nella missione della Chiesa; sui vescovi (Christus Dominus),
che sono studiati nelle loro relazioni con la Chiesa universale e le Chiese
particolari; sulla vita religiosa (Perfectae
caritatis), osservata soprattutto in relazione
alla Chiesa; sull’apostolato dei laici (Apostolicam
actuositatem) che il Vaticano II valorizza come
partecipazione alla missione della Chiesa; sulle relazioni della Chiesa
cattolica con le altre confessioni nel contesto dell’ecumenismo (Unitatis redintegratio)
e con le religioni non cristiane (Nostra aetate);
la parola di Dio (Dei Verbum) si presenta
anche all’interno della Chiesa cattolica, a cui è stata data in deposito e che
è la sua unica interprete autentica.
Lo stesso documento sulla
libertà religiosa (Dignitatis humanae), il cui titolo
lasciava sperare in un’impostazione antropocentrica e laica, comincia
avvertendo che tale libertà lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica,
sul dovere morale degli individui verso la vera religione e l’unica Chiesa di
Cristo. Della quale, del resto, si dice che, oggi come ieri,
riconosce e favorisce la libertà religiosa. Infine
anche una relazione con l’educazione (Gravissimum
educationis) e con i mezzi di comunicazione
sociale (Inter mirifica).
L’ecclesiocentrismo
svolge un ruolo fondamentale nella storia contemporanea della Chiesa cattolica,
e, in particolare, nel progetto di restaurazione che ha caratterizzato il
pontificato di Giovanni Paolo II e, giudicando dall’andamento di questi primi
mesi, caratterizzerà il pontificato di Benedetto XVI. Ora, questo progetto non
intende in alcun modo opporsi al Vaticano II, ma al contrario fondarsi su di esso. A nostro parere, il progetto restauratore non si fonda
sull’integralità del Vaticano II, ma sul
concilio conservatore e ignora (di fatto, anche se non sempre nelle parole) il
concilio innovatore. Tuttavia, la minoranza conservatrice, e soprattutto la
potente curia romana (e in particolare il cardinal prefetto della Congregazione
per la Dottrina della Fede) pretenderà di imporsi come interprete autentica del Vaticano II e come freno alle “deviazioni” del
postconcilio. Con questa pretesa autorità dottrinale,
procederà a reprimere i teologi che si arrischieranno
a sviluppare gli orientamenti della maggioranza conciliare, in particolare i
teologi e le teologhe della Liberazione, i teologi e le teologhe indigene, e i
sostenitori e le sostenitrice del pluralismo religioso.
Ecclesiocentrismo
nel senso di dottrina teologica, costante storica e meccanismo ideologico. Ma è soprattutto, la
dottrina teologica che può essere trovata nei testi conciliari. Pertanto, la
centralità del “punto di vista della Chiesa gerarchica” per guardare la storia
si fonda su una ecclesiologia secondo la quale la
Chiesa sta al centro del progetto salvifico di Dio, coincide con il Regno di Dio e costituisce pertanto il luogo
teologico fondamentale… Questa Chiesa terrestre, unica Chiesa di Cristo,
costruita e organizzata in questo modo, germe e inizio sulla terra del Regno di
Dio, sussiste nella Chiesa cattolica e non è diversa dalla Chiesa già in
possesso dei beni celesti. Pertanto la Chiesa terrena e la Chiesa dotata di
beni celestiali non devono essere considerate come due cose distinte, perché
formano una realtà complessa, costituita da un elemento umano e uno divino (LG, 2,5,7,8,15).
Questa tesi la formulata
crudamente la teologia preconciliare: “fuori dalla Chiesa (cattolica) non c’è salvezza”. Il
Vaticano II propone la sostanza di questa condanna, però allo stesso tempo la
rinnova sotto la pressione dell’antropocentrismo.
I Padri non sembrano,
quindi, aver raccolto in proposito le indicazioni di Paolo VI quando affermava:
“la Chiesa è per il mondo” (Discorso di chiusura
della III sessione); e inoltre: “La Chiesa, in questo mondo, non è fine a
se stessa, è al servizio di tutti gli uomini; deve rendere presente Cristo a
tutti, individui e popoli, nel modo più ampio e generoso possibile; questa è la
sua missione. Essa è portatrice dell’amore, promotrice della vera pace, e
ripete con Cristo: ignem veni mittere in terram, sono
venuto a portare il fuoco sulla terra (Lc 12, 49, Discorso
di apertura della IV sessione).
In definitiva, il Vaticano
II si pone, sebbene con molta cautela, il problema suscitato drammaticamente da
Bonhoeffer: che significa parlare di Dio in un mondo
che non ha bisogno di Lui, che si è organizzato senza di Lui? La Chiesa
cattolica, che ha avuto nel Sillabo la sua espressione più drastica, ha condannato, fra i più gravi “errori moderni”,
la pretesa di autonomia da parte dell’uomo, considerata evocazione del
diabolico “non serviam”: cioè come una
ribellione collettiva dell’uomo verso Dio.
In questo preciso punto il
Vaticano II rappresenta un cambio di direzione, antropologico
e antropocentrico: è questa la novità più caratteristica. Ed è questo, mi sembra, il principio unificante del concilio
innovatore. Il Vaticano II riconosce, in effetti, che, alla luce della fede,
l’assunzione della responsabilità storica da parte dell’uomo, cioè il processo di secolarizzazione, è pienamente
legittima, e costituisce anche un progresso. “Principio, soggetto e fine di
tutte le istituzioni è e deve essere la persona umana”.
Perché, nel suo senso
profondo, questa autonomia non nega la dipendenza da
Dio, ma paradossalmente si fonda in essa. Allo stesso modo, che l’uomo sia protagonista e fine della storia non esclude il suo
protagonismo storico dalla dipendenza da Dio, ma si fonda nel protagonismo
ultimo dello stesso Dio. In effetti, “l’uomo è l’unica creatura della terra che
Dio ha amato per se stessa” (Gaudium et spes). Ed
è nella libera e creatrice iniziativa dell’uomo che Dio manifesta il suo potere
creatore (Gaudium et
spes): si rivela così come creatore di creatori.
Qui il Vaticano II evoca l’intuizione di sant’Ireneo:
“La gloria di Dio è l’uomo vivente”.
Sempre in questa
prospettiva, “La Chiesa afferma che il riconoscimento di Dio non si oppone in
alcun modo alla dignità umana, poiché questa dignità ha in Dio il suo fondamento e perfezione”… “perché,
sebbene lo stesso Dio sia Creatore e Salvatore, e anche Signore della storia
umana e della storia della salvezza, tuttavia, in questo stesso ordinamento
divino, l’ordinamento del creato, e specialmente dell’uomo, non viene soppresso, ma anzi viene restituito alla sua dignità
propria e in essa consolidato”.
Il senso cristiano dell’antropocentrismo emerge con chiarezza ancora maggiore
quando si comprende la sua prima e fondamentale implicazione pratica: la
centralità dell’amore per l’uomo. Rinnovarsi significa, per la Chiesa
conciliare, riscoprire il comandamento nuovo e dimenticato dell’amore;
riscoprirne la carica innovatrice nel mondo di oggi;
vedere in esso “la legge fondamentale della perfezione umana e, per ciò stesso,
anche della trasformazione del mondo” (Gaudium
et spes). Questo tema è
una delle prospettive centrali del Vaticano II, che lo ricorda insistentemente,
e fa di questo la conclusione del suo messaggio.
Inoltre, l’antropocentrismo imprime a tutto il Vaticano II un tono di euforia e di ottimismo. Per esempio
quando afferma: “La Chiesa riconosce e stima molto il dinamismo dell’epoca
attuale, che sta promuovendo ovunque i diritti umani” (Gaudium
et spes).
Ora, se effettivamente
l’essenza del cristianesimo e la sua novità stanno nell’amore umano, significa
che nell’identità cristiana c’è un essenziale componente
profano. Una componente, quindi, che non si definisce
in funzione di chi crede e di chi non crede in Dio, che non vede, ma tra chi
ama e chi non ama suo fratello, che vede…. L’altra componente
essenziale è l’amore di Dio che, tuttavia, nell’ottica di Gesù
- ricorda il Vaticano II - non può darsi senza l’amore umano, itinerario
obbligato della stessa conoscenza di Dio.
L’interpretazione del
Vaticano II assunta dalla maggioranza conciliare trova una decisiva conferma
nell’autorità di Paolo VI, conferma e difesa contro le accuse formulate dalla
prospettiva ecclesiocentrica; in particolare contro
l’accusa di “relativismo”, insistentemente formulata da papa Ratzinger. Sarebbe un importante servizio all’unità della
Chiesa che Benedetto XVI tenesse in conto anche il pensiero del suo
predecessore Paolo VI.
Nel Discorso di chiusura
della IV sessione, Paolo VI affermava: “Forse mai
come in questa occasione la Chiesa ha sentito la necessità di conoscere, di
avvicinarsi, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la
società che la circonda e di seguirla; per dir così, di raggiungerla nel suo
rapido e continuo cambiamento. Questo atteggiamento, determinato dalle distanze
e dalle rotture successe negli ultimi secoli, nel secolo passato e in questo,
particolarmente tra la Chiesa e la civiltà profana – atteggiamento ispirato
sempre dall’essenziale missione salvatrice della Chiesa -, ha operato
intensamente nel Concilio, fino a punto di far sorgere in alcuni il sospetto
che un tollerante ed eccessivo relativismo rispetto al mondo esterno, alla
storia che scorre, alla moda attuale, alle necessità
contingenti, al pensiero diverso abbia dominato persone e atti del
sinodo ecumenico a costo della fedeltà alla tradizione e con danno per
l’orientamento religioso dello stesso Concilio. Noi non crediamo che questo equivoco si debba imputare né alle sue vere e
profonde intenzioni né alle sue autentiche manifestazioni”.
Nello stesso discorso,
Paolo VI approfondiva l’interpretazione del Vaticano II: “Vogliamo notare come
la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità, e nessuno
potrà tacciarlo di irreligioso e infedele al Vangelo
per questo principale orientamento, quando ricordiamo che lo stesso Cristo è
colui che ci insegna che l’amore per i fratelli è il distintivo dei suoi
discepoli” (cfr Gv 13,35).
Inoltre, sottolineando la prospettiva fondamentalmente
antorpocentrica del Vaticano II, il papa ne assume
ancora, fermamente, la difesa: “Tutto questo, e quanto potremmo ancora dire sul
valore umano del Concilio, ha deviato forse la mente della Chiesa nel Concilio
verso la direzione antropocentrica della cultura moderna? Deviato no; rivolto
sì”.
Per comprendere gli sviluppi teologici del postcncilio, bisogna considerare, da un lato, quelli che esprimono una continuità con i due concilii del Vaticano II, dall’altro, quelli che esprimano un cambiamento di prospettiva.
La continuità con il
Concilio ecclesiocentrico è stata (e continua ad
essere) rappresentata specialmente da Giovanni Paolo II, dalla curia romana, in
particolare dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dal suo prefetto,
il cardinal Ratzinger. Queste autorità hanno
esercitato una dura repressione sui teologi e le teologhe, sui docenti, sugli
stessi vescovi e, in generale, sui settori innovatori della Chiesa; i vescovi
progressisti sono stati spesso sostituiti da vescovi di tendenza opposta, con
il compito di rettificare gli errori del predecessore. Si deve proprio
soprattutto all’influsso del centralismo romano il cambiamento di prospettiva
di molti membri della tendenza antropocentrica. Un
altro fattore è stato la difficoltà di molti vescovi di affrontare le
conseguenze del Vaticano II: essi si sono preoccupati per i nuovi
atteggiamenti, pratici e teologici, di sacerdoti e laici delle loro diocesi,
che sono loro sembrate interpretazioni estremiste del Concilio.
Come
effetto di questo cambiamento, la maggioranza conciliare si è
trasformata in minoranza; e la minoranza in maggioranza. Altrimenti detto, la
prospettiva ecclesiocentrica è tornata a prevalere su
quella antropocentrica. Cioè,
molti Padri del Concilii antropocentrico si sono
“convertiti” ad una prospettiva ecclesiocentrica, ed
hanno assunto un atteggiamento fortemente critico di quella antropocentrica. La
conversione più vistosa è stata quella del perito
conciliare Joseph Ratzinger,
che ha avuto un’influenza decisiva sull’evoluzione (o involuzione?) della
dottrina ufficiale della Chiesa: l’ha avuta come prefetto della Congregazione
per la Dottrina della Fede, e pertanto come principale responsabile dei
documenti promulgati da essa; l’ha avuta come principale consigliere di
Giovanni Paolo II nel campo dottrinale. Evidentemente l’avrà ancora, questa influenza, se possibile, come papa Benedetto XVI.
La continuità con il
Concilio antropocentrico è stata rappresentata specialmente dai teologi della
Liberazione, dai teologi indii, dalle teologhe
femministe. Tutti costoro hanno elaborato, ispirati dalle esperienze di fede
delle basi cristiane, una interpretazione creatrice
del Vaticano II. La centralità dell’uomo si è approfondita in opzione per i poveri, cioè per gli oppressi e le oppresse
come soggetti. Si sono fatti consapevoli dei limiti dell’antropocentrismo
conciliare, definito eurocentrico; la “apertura al
mondo” è diventata identificazione con il Terzo Mondo, cioè
con i popoli oppressi della terra.
Questo nuovo luogo
teologico ha aperto nuovi orizzonti alla ricerca teologica, ha
orientato i cristiani verso una solidarietà più efficace con le oppresse
e gli oppressi, ad una critica più radicale delle ingiustizie sociali verso i
poveri, dei quali i cristiani e le cristiane, le teologhe e i teologi hanno
dovuto condividere il destino di emarginazione e, spesso, di morte. Per ciò
stesso, la “apertura al mondo” è divenuta identificazione con il Terzo Mondo, cioè con i popoli oppressi del mondo. Pertanto, i frutti più
ricchi del Vaticano II sono la nuova creatività teologica, un impegno più
coerente per la costruzione di un mondo nuovo, la testimonianza dei nuovi
martiri della giustizia.
Giulio
Girardi
Roma, gennaio 2006