Dinanzi alle scene di guerra che si sono verificate nelle vie di
Genova in
occasione del G 8 e che la televisione continua a
propinarci quasi ogni
giorno, ho sempre in mente due domande:
"È questo il modo di aiutare i
poveri?
È quello il modo per rappresentarli?".
Sono certo di no.
Eppure il
pretesto sembra essere quello.
I nostri militari e poliziotti erano lì, una
delle due parti in lotta
e non dobbiamo dimenticare che c'erano per
fronteggiare ogni forma di
violenza che impedisse il libero svolgimento dei
lavori.
Lo scontro tra due gruppi: uno violento e disposto a tutto con
atti
di vandalismo e peggio e l'altro, rappresentante dell'ordine
pubblico, che poteva usare la forza per impedire la violenza.
La
differenza tra i due gruppi era tutta qui: violenza e forza, la
forza che doveva dominare la violenza senza diventare violenza essa
stessa.
È questo il tema fondamentale per noi militari e che la nostra
Chiesa
ha affrontato nel suo primo Sinodo.
L'uso della forza è la
caratteristica del militare.
Quando la ragione non basta e tutte le
trattative sono fallite, la
società può difendersi con l'uso della forza che
delega appunto alle
Forze Armate e i cui uomini "se rettamente compiono il
loro dovere,
sono ministri della sicurezza e della libertà dei popoli e
concorrono
veramente alla stabilità della pace" come dice il Vaticano
II.
La forza e il coraggio sono le caratteristiche fondamentali
del
soldato, la tentazione maggiore è quella della violenza.
Il soldato
cristiano deve superare questa tentazione e non soltanto
non far degenerare
la forza in violenza, quanto piuttosto farla
diventare fortezza, che è una
delle quattro virtù cardinali.
Come avviene questa trasformazione?
Essendo
padroni della propria forza e coniugandola con le virtù della
giustizia e
della prudenza, cioè usare la forza per motivi giusti e
nella misura
necessaria per dominare la violenza.
In uno scontro frontale con la violenza
non è facile individuare la
linea di demarcazione tra forza e violenza, anche
perché in quel
momento lì giocano molti elementi, non esclusa la paura di
essere
sopraffatti e la legittima difesa.
Può essere facile proiettare
immagini a senso unico facendo prevalere
la tesi che la forza è sfociata in
violenza, mentre l'attento esame
della situazione e l'ascolto delle persone
possono rivelare una
realtà più complessa e veramente difficile da
giudicare.
Si è avuta la chiara sensazione che le Forze dell'Ordine,
nonostante
le varie dichiarazioni ufficiali, si siano sentite sole e
neppure
sostenute dalla Chiesa.
In questo senso ho letto il documento del
COCER che chiedeva la
soppressione dell'Ordinariato militare perché i
cappellani non si
erano schierati con loro, come altri preti hanno fatto con
i
Ho risposto loro che i cappellani erano presenti come sempre con i
loro
carabinieri e soldati e la loro presenza era quella di preti che
sanno esser
vicino a chi compie il proprio dovere e lo aiuta a
compierlo in modo cristiano.
Neppure uno di loro è apparso in televisione,
e questo è positivo e
nel caso lo trovo molto sacerdotale.
Ma secondo il
nostro stile siamo stati vicini soprattutto a coloro
che portavano i segni
della violenza a qualunque parte appartenessero
ed avevano bisogno di sostegno per compiere il loro dovere.
A tutti quei
giovani appartenenti alle Forze dell'Ordine presenti a
Genova, vorrei
associare il ricordo di coloro che, impegnati in
missioni di pace nei
Balcani, difendono "la sicurezza e la libertà
dei popoli" e a loro rischio e
pericolo si impegnano con la forza per
contrastare ogni tipo di
violenza.
Alla magistratura italiana l'arduo compito di discernere tra
fortezza
e violenza, per esaltare la prima e condannare la seconda. Ma
l'impresa non è facile.
+ Mons. Giuseppe Mani
Ordinario Militare
per l'Italia
Testo trascritto da il Cursore. Periodico della Diocesi
per i
Militari Italiani, anno V, n. 7-8, Roma luglio-agosto 2001, p.
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