Le voci assenti a Verona

Il "convegno ecclesiale" di Verona è senz'altro una grande assise in cui sono chiamate a confrontarsi le migliori intelligenze presenti nel mondo cattolico italiano, ma, com'è ovvio, solo quelle di un determinato, ben preciso indirizzo metodologico e ideologico; non c'è posto, come non ce n’è nell'amministrazione delle diocesi e delle stesse parrocchie, per quanti non fossero in sintonia non con il credo ufficiale ma con le sue correnti interpretazioni, in altre parole per i sostenitori di una ricerca, più libera da vincoli precostituiti, che potesse portare, può darsi, a una comprensione della proposta di fede più pertinente e più convincente.

Ma anche se non convocati, per fortuna essi fanno egualmente parte della stessa chiesa in cui si trovano quegli "altri"; per questo, pur fuori dal "coro", non è loro impedito di parlare, magari da clandestini, e di contribuire in qualche modo alla chiarificazione ecclesiale in corso.

Non è detto che abbiano un messaggio strabiliante da far pervenire - ma chi ce l’ha d’altronde – solo quello che lo Spirito, che non ha canali obbligati, sembra dettar loro.

1.        La chiesa gerarchica non sembra accorgersi del suo isolamento né cogliere l’urgenza di scendere dal suo piedistallo, come aveva provato a fare nell'immediato postconcilio, facendo subito dopo marcia indietro per ricollocarsi sui piccoli "troni" in cui i suoi alti esponenti si erano trovati sempre assisi.

Bisogna riprender posto in mezzo al popolo di Dio per conoscere i suoi veri bisogni e non continuare a dare risposte generiche, alla fine inutili anche se forse “facenti al caso”. Una volta, la notizia “l’ha detto il papa” o “l’ha detto il vescovo” faceva opinione, oggi forse neppure nei monasteri e a malapena nei conventi.

Se il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona ha avuto una ripercussione mondiale è stato solo per ragioni indirette, trasversali, altrimenti sarebbe passato quasi inosservato come avviene per i discorsi del mercoledì o della domenica, di cui solo la RAI per necessità di cose qualche volta fa menzione.

 

2.        Il proposito o il programma di "tornare al Vangelo" è sempre il più opportuno, ma ciò non significa rispolverare certe ormai superate interpretazioni del testo sacro, ma provarsi a rivivere e a far rivivere più che la "vera dottrina", che nessuno sa bene qual è, l’autentica testimonianza di Gesù Cristo che si può ancora riscoprire nel sottofondo delle pagine che i primi discepoli hanno scritto su di lui. Gesù non si è in primo luogo trovato impegnato a cambiare gli indirizzi delle scuole rabbiniche di Cafarnao, Tibériade o Gerusalemme, ma a contestare, cioè a combattere gli abusi e i soprusi esistenti non nel mondo romano o greco, bensì nel suo contesto quotidiano, tra la sua gente, e nemmeno per interposta persona ma direttamente, prendendo posizione a favore delle categorie più bisognose nello spirito e nel corpo, i "peccatori", i poveri, i malati, la donna, lo straniero, unanimemente esclusi dal consorzio comune. Ha detto una parola anche contro "Cesare", ma appena casualmente, solo perché indottovi dai suoi avversari; la sua lezione era rivolta innanzitutto ai suoi seguaci. "Tra voi non sia così", "chi vuol comandare cominci a servire", "chi vuol essere il primo diventi ultimo". E il "servo" non è quegli che da gli ordini in casa, ma che li riceve e li esegue. Secondo la “Lumen gentium” il primo posto nella comunità spetta al popolo di Dio. Solo nel suo alveo operano i carismi, le mansioni, i servizi, i ministeri, quindi sono posti alle sue dipendenze.

Essi aiutano il popolo credente, e non con comandi, parole d'ordine, ma con attestazioni benefiche atte a far comprendere e a far realizzare il suo impegno cristiano che è innanzitutto umanitario.

3.        La comunità cristiana è utopica, impegnata cioè per una convivenza ideale in cui non c'è posto per le prepotenze, le violenze, le sopraffazioni, le guerre di qualsiasi genere, difensive o preventive, dove ognuno è fratello, amico, eguale all'altro, qualunque sia la sua origine, provenienza, appartenenza, razza. La chiesa non è un ghetto in cui entra solo chi ha un determinato distintivo o la tessera. Piuttosto è sempre la rete che racchiude pesci buoni e cattivi, il campo in cui cresce il grano e la zizzania senza che sia dato ad alcuno il diritto di recidere l’uno e di far crescere l’altro.

La chiesa, le chiese, di Cristo non sono veramente cristiane poiché non percorrono nei programmi e nei propositi le sue strade. Non suscitano nessuno scalpore, non infastidiscono nessuno, anzi si ritrovano "alleate" (v. i concordati, le delegazioni, le rappresentanze diplomatiche) con quasi tutte la nazioni, perfino con i regimi totalitari o capitalistici, invece di contestarne l'esistenza e soprattutto le metodologie di arricchimento.

I tempi sono cambiati si cerca di ripetere; la società si è evoluta, è passato il periodo delle catacombe, c'è una nuova congiuntura storica da tener presente; tutto può essere vero ma come si fa ad immaginare un Gesù Cristo schierato dalla parte di Erode, Pilato, Caifa, Anna, i sadducei i gestori del potere politico, religioso, economico contro il popolo degli oppressi e dei sofferenti? Dov'è la libertà del profeta, dell'uomo di Dio che offre ogni giorno la sua vita per il bene delle moltitudini? Se si accettano le alleanze dei potenti, se si stipulano accordi per avere le loro protezioni, non si è più in grado di redarguire le loro malefatte.

4.        Certo fin tanto che esistono e funzionano "i palazzi vaticani" la chiesa italiana ha ben poco da pensare e meno ancora da sognare, tuttavia potrebbe provarsi a "rivendicare" una certa sua autonomia operativa. La CEI più che un organo vaticano è la voce dell’episcopato italiano al quale è demandata la cura spirituale di un popolo che ha i suoi problemi da risolvere prima che quelli degli altri. In una società plurietnica e multiculturale la chiesa dovrebbe contribuire alla composizione pacifica delle differenze più che preoccuparsi della salvaguardia dell'identità dei suoi aderenti, della difesa dei diritti o privilegi di alcuni a discapito di altri. La terra è la madre di tutti e nessuno dovrebbe impedire all'altro di scegliersi la dimora che gli aggrada. Le frontiere, per guanto spiegabili da un punto di vista giuridico, rimangono sempre un attentato a un diritto che si può definire naturale, prioritario. Gesù non ha dato ragione ai discepoli che invocavano il fuoco dal cielo sui samaritani inospitali (Lc 9,54-55), nè ha permesso di chiudere la bocca all’«estraneo» che parlava in suo nome (Mc 9,38-39). La tolleranza non è un atto di cortesia ma un dovere, e per il cristiano una virtù che purtroppo la chiesa non è abituata ad esercitare nemmeno con i propri figli. L'intolleranza, faceva osservare il  grande Papa Giovanni, è contro il peccato, non contro il peccatore, meno ancora contro chi non ha le nostre abitudini.

5.        C’è una società nuova, una situazione culturale diversa a cui bisognerebbe andare “incontro” non “contro”. I problemi, un tempo sottaciuti ovvero conculcati, sono ora venuti prepotentemente alla ribalta e tra questi la libertà etica, che non è libertinaggio, ma una valutazione diversa e può darsi più adeguata delle responsabilità di ciascuno, dei doveri e dei diritti, anche di quelli irrinunciabili delle persone come delle collettività. Come tempo addietro si riteneva che il potere venisse dall'alto e che la monarchia fosse di diritto divino, la stessa ambigua supposizione potrebbe essersi verificata anche a proposito di altre scelte comportamentali, a cominciare, mettiamo, dall'etica sessuale, I’eterno tabù della chiesa. È ormai forse inutile stare a ribadire antichi quanto inutili divieti. Le campagne anti-contraccettivi non impressionano più nessuno, si e no qualche seminarista. Tutti gli ufficiali o ufficiosi pronunciamenti sulle leggi di natura, che nessun competente sa bene quali in realtà a rigore siano, rimangono alla fine sterili, accademici. L'indissolubilità del matrimonio pur tanto affermata, in realtà non è chiara né sul piano naturale (altrimenti una buona parte della popolazione mondiale vivrebbe sregolatamente) né sul piano religioso, ossia evangelico. Gesù ha preso sì posizione contro il matrimonio mosaico, che era la codificazione di un barbaro costume maschilista, ma non si è poi pronunciato per la irreversibilità della scelta matrimoniale cristiana. Per questo Matteo (19,9) e Paolo (1 Cor 7,12-16) testimoni della prima ora, parlano di una possibile rescissione del primo vincolo matrimoniale.

Nelle chiese cristiane oggi la ricerca biblica è quasi unanimemente concorde nell’affermare che in nome dì Dio o di Cristo non si possa imporre a nessuno un giogo che va al di sopra delle sue forze, condannandoli a vivere in un contesto familiare impossibile. Come tutte le sceIte umane anche quella del proprio partner, nonostante tutte le cautele messe in atto, può andar soggetta a errore e una volta appurato seriamente lo sbaglio non rimane che correggerlo, per cui la separazione, il divorzio e la possibilità di provarsi ad intraprendere una nuova esperienza sono conclusioni possibili e legittime.

6.        La nostra gerarchia, presa da chissà quali paure, è chiusa al confronto su queste ipotesi e non riesce nemmeno ad immaginare un approccio diverso nei riguardi di coloro che hanno dovuto registrare nella loro vita esperienze matrimoniali infelici e infine si sono decisi a compiere una nuova scelta.

Si potrebbe una buona volta smettere di considerare i "divorziati risposati" come "pubblici peccatori" esclusi dalla piena, effettiva comunione ecclesiale, poiché secondo il vangelo nessuno sa chi sia veramente nel peccato (cfr. Gv 8,9). Per la stessa ragione non si vede come qualcuno possa arrogarsi il diritto di escludere chicchessia dal banchetto eucaristico pur sapendo che Gesù si ritrovava spesso, se non abitualmente, "a mensa" con i peccatori, compresi i pubblicani, non escludendo esplicitamente nemmeno le prostitute. Dissenzienti da tale prassi solo i puritani del momento (i farisei) che in ogni tempo hanno avuto sempre difensori e continuatori. Ma anche se gli attuali "benpensanti" non si sentissero di condividere il passo compiuto dai divorziati, potrebbero rilasciare alla loro coscienza il giudizio etico sul loro operato. D'altronde la stessa morale tradizionale ha sempre affermato che il peccato più che dall’infrazione della legge dipende dal giudizio (soggettivo) che l'uomo si è fatto di un comportamento o dell'altro. Non si tratta di "connivenza" (ammesso che lo fosse ce ne sarebbero di ben peggiori, come il mantenimento dei cappellani militari nonostante il proclamato ripudio della guerra e addirittura il consentire ad un vescovo di fregiarsi del grado militare di “Generale”) ma di "pazienza", di attesa prima di impancarsi a giudice di uno che in fondo è l’unico in grado di capire e di valutare il peso e la gravità della scelta che ha compiuto. Se c'è una parola nei vangeli, che certamente proviene da Gesù, è quella di non giudicare, cioè di non pronunciare apprezzamenti ostili verso chicchessia, per questo più di una volta egli ha preso la difesa dei peccatori e non li ha mai esclusi dalla sua compagnia. Anzi, si è meritato l’appellativo di essere loro "amico". Se Dio non spezza la penna all’ "eretico" e neanche fulmina sull'istante neppure il ladro, vuol dire che quella della "scomunica" non è la tattica che egli suggerisce, meno ancora comanda.

7.        La chiesa italiana non può fare miracoli soprattutto perché troppo vicina, quindi subordinata alle gerarchie trasteverine, ma potrebbe provarsi a gettare qualche pedina o qualche ponte che la prepari a risolvere la sua "crisi”. Questa certo è generale, ma essa è tenuta a pensare a se stessa, a provvedere al suo futuro. Se i seminari sono vuoti e il clero è più che senescente, non c'è da farsi illusioni su quello che verrà un giorno o l'altro ad accadere. Mancherà chi spezza il pane della Parola e quello dell'eucarestia. È inutile stare ad aspettare il miracolo dal cielo, invocare che Dio mandi operai nella sua vigna. Tutto quello che egli poteva fare l’ha fatto, il resto l’ha rilasciato alla diligenza e alla solerzia dei suoi collaboratori. La storia, anche quella della salvezza, la mandano avanti gli uomini. Dio c'è senz’altro, ma rimane dietro le quinte. Se c'è un arresto nel cammino dell’umanità non è mai perché lui ha cessato di operare, sono invece i suoi fiduciari che si rivelano pigri o inetti. I "tempi" di cui Papa Giovanni aveva invitato a leggera i "segni", stanno additando l'opportunità o necessità di una riorganizzazione ecclesiale. Non sarebbe ora di chiamare a tutte le sue responsabilità la stragrande porzione della chiesa, rimasta sempre inattiva o passiva, chiamata anche “discente”, quasi per esonerarla da qualsiasi incombenza, mentre il Concilio l’ha onorata delle più lusinghiere attribuzioni che purtroppo sono rimaste lettera morta. L'intero popolo di Dio, tutti i battezzati condividono i poteri e i compiti di Cristo, il suo triplice ufficio profetico, regale e sacerdotale e sono autorizzati, anzi obbligati per vocazione ad esercitarlo (Lumen gentium n.ri 10-14). Gesù d'altronde si è rivolto alle moltitudini, ha consegnato a tutti il suo messaggio e ha chiesto a tutti di testimoniarlo davanti agli altri nel tempo. Non ci sono cristiani di serie A, B o C. Sono tutti tenuti a raggiungere la stessa "misura" che quella del loro maestro. D'altronde non è neanche sufficientemente chiaro che Gesù abbia voluto un sacerdozio sulla falsa riga di quello ebraico. Anzi, sembrerebbe certo che non lo ha mai proposto. Se il Nuovo Testamento parla di ministeri li intende non come "uffici" o "poteri sacri", ma come "diaconie", cioè ancora una volta "servizi", per questo il titolo "ministro" è l'equivalente di "inserviente". Ma senza entrare in questi aspetti scabrosi o rischiosi del problema, che la gerarchia italiana non può permettersi perché dovrebbe cominciare a demolire se stessa, questa potrebbe proporsi di ricuperare più concretamente il ruolo dei laici, per affidare ad essi vere incombente ecclesiali (la predicazione e l'assistenza nelle celebrazioni a cominciare dalla liturgia eucaristica) in modo che quando, per sfortuna o per fortuna, non ci sarà più il clero, ci sia chi possa prendere il suo posto, operai o intellettuali, uomini o donne che siano. L'unica virtù necessaria oltre il timor di Dio è l'amore verso il prossimo. La comunità non ha bisogno tanto di teologi quanto di profeti, di persone che lasciano trasparire dalle loro azioni e operazioni la presenza nascosta di Dio. Per farlo non sono indispensabili titoli di studio o gradi accademici ma solo una grande capacità, volontà di bene. Gesù si è circondato di comuni operai, di pescatori e di umili donne aggiunge Luca. E così è cominciata l'avventura cristiana. Noi non siamo profeti di sciagure, siamo ottimisti a tutti i costi. Crediamo anche alle rivoluzioni, ma di più ai piccoli passi che possono portare agli stessi traguardi a cui le grandi sommosse mirano. Speriamo e aspettiamo. "Purché Cristo si annunzi non importa come", confessava Paolo ai filippesi (1,18). Purché in un modo o in un altro qualcosa si faccia, non tanto per la salvaguardia dell'istituzione ecclesiale, quanto dello stesso messaggio evangelico di cui il mondo ha avuto e avrà sempre bisogno.

Ortensio da Spinetoli

 

Recanati 15.09.2006