"Al mio nuovo vescovo...". Lettera aperta di un parroco di città al nuovo Arcivescovo Dionigi Tettamanzi

di don Luigi Pozzoli

(da "La Comunità", n. 129, settembre 2002, Parrocchia di Santa Maria al Paradiso e San Calimero, Milano, Corso di Porta Vigentina, Milano)



Anzitutto, un affettuoso benvenuto. E scusami se non mi sento di darti del lei. Ci siamo conosciuti troppo bene in tempi ormai lontani, quando ci è capitato di insegnare insieme nei seminari milanesi e abbiamo familiarizzato allora con tutta la spontaneità e la freschezza dei nostri anni giovanili.

Poi le vie del Signore, come si diceva una volta, ci hanno separati e ci hanno avviati su percorsi diversi, il tuo prestigioso ma non so quanto più invidiabile del mio. Il ricordo di quegli anni non si è comunque cancellato e mi permette di parlarti ora con una confidenza che altrimenti non mi sarebbe possibile.

E tu, sempre per il ricordo di quegli anni, vedi di prestare un po’ di attenzione a questa mia lettera che nella forma e nei contenuti potrà sembrare stravagante ma certo non irrispettosa.

Che cosa vorrei dirti? Alcune cose molto semplici che di solito un vescovo non si sente mai ricordare, perché la cospirazione dell’ufficialità impedisce spesso la franchezza. Te le dirò confidandoti cosa farei io da vescovo se mi trovassi al posto tuo.

Cercherei anzitutto di evitare il linguaggio ecclesiastico e devozionale che porta il nuovo vescovo a dire: "Vengo in mezzo a voi con tutto il senso della mia indegnità per questa nomina che mi trova impreparato e sgomento. Sapeste quanta sofferenza mi è costata il dire di sì...".

Se anche fosse vero, non lo direi. Perché questo linguaggio si sa che è stato usato anche da chi (non è certo il caso tuo) a quel posto aveva prestato un certo interesse, naturalmente con la santa ambizione di servire meglio la Chiesa.

Mi leggerei invece, più volte, quel passo del Vangelo che dice: "Ma voi non vi fate chiamare ‘rabbi’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ‘padre’ sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare ‘maestro’, perché uno solo è il vostro maestro, il Cristo" (Mt 23, 8-10).

È importante riflettere su questo testo, soprattutto quando attorno a un vescovo di sprecano i titoli elogiativi della retorica più servile. Cercherei di stare in guardia, disincantato e sospettoso.

Mi viene in mente quello che si racconta di padre Giulio Bevilacqua, grande maestro di papa Montini. Quando il papa, dopo averlo fatto cardinale, gli telefonò dicendogli confidenzialmente: "Le faremo una grande accoglienza a Roma. Le manderemo la banda alla stazione", padre Bevilacqua ripose prontamente: "Allora non si dimentichi i tromboni, visto che lì ne avete tanti".

Di tromboni ce ne sono dappertutto, anche a Milano. Se fossi io vescovo, me ne ricorderei.

Per quanto riguarda la scelta dei collaboratori, mi preoccuperei di conoscere i nomi degli aspiranti a certe cariche di prestigio. Ce ne sono, e si fanno notare. Riterrei importante conoscerne i nomi per cancellarli immediatamente dalla rosa dei candidati.

Cercherei invece la collaborazione di persone umili, che siano ricche però di libertà di pensiero (a che serve avere accanto dei semplici esecutori?) e soprattutto di grande umanità. I burocrati di Dio sono i peggiori burocrati di questo mondo. È triste quando, dietro a una scrivania di curia, non c’è più il prete o l’uomo, ma solo il burocrate. [...]

Una parola ora sul programma pastorale. Cercherei di non proporre troppe iniziative, con il rischio di creare una congestione tale da affaticare eccessivamente coloro che sono chiamati a realizzarle e da risultare alla fine inconcludente perché una iniziativa può elidere l’altra.

È successo. Se è vero che c’è un tempo per aggiungere, è anche vero che c’è un tempo per sottrarre. Forse è venuto il momento di alleggerire. Si sente il bisogno di una pastorale più snella, più leggera, che sia libera da certe pesantezze curiali e dia respiro alle persone senza nulla togliere alla generosità dell’impegno.

Anzi, a proposito di impegno, ridurrei al minimo indispensabile il tempo da dedicare a sedute varie (parlo qui sopratutto di riunioni tra preti) che per lo più si risolvono in esercitazioni accademiche dove a mettersi in vista sono i soliti, prevedibili, insopprimibili divoratori di microfoni.

Un volta mi sono distratto dietro un calcolo sommario. Eravamo una cinquantina di preti in quella sala, da quattro ore, ad ascoltare relazioni dove l’ovvietà era la cifra più comune. Mi sono detto: "Quattro per cinquanta fa duecento: duecento ore sottratte alla pastorale normale nelle parrocchie, a contatto con persone che forse avrebbero bisogno di un prete in grado di ascoltarle". Non c’è forse il rischio che alla domanda: "Dov’è la Chiesa?" si debba rispondere: "La Chiesa è in riunione"?

A me piace questa storiella che vale come una piccola parabola. Festa del Corpus Domini. Prevista in paese la tradizionale solenne processione. Ogni anno è un avvenimento che richiede una lunga preparazione. La processione si avvia. Tutto procede con ordine, alla fine si muove anche il baldacchino sotto il quale il parroco regge l’ostensorio. A un certo punto però, accanto al parroco, una voce fa osservare: "Nell’ostensorio manca l’ostia!". Al che il parroco, leggermente infastidito più che contrariato, risponde: "Ma che cosa si pretende? Non si può mica pensare a tutto".

Proporrei di leggere questa storiella all’inizio di certe sedute pastorali, là dove continuamente ci si affanna a elaborare piani organizzativi perdendo di vista ciò che è essenziale: che il vero problema oggi è di educare le persone a ritrovare il senso, il gusto, il fascino della loro fede.

Immaginandomi sempre come vescovo (concedimi questa fantasticheria, ingenua fin che vuoi, ma senza alcuna presunzione), mi preoccuperei di trasmettere una parola che restituisca fiducia a tante anime stanche e deluse, perché non trovano nelle nostre chiese la possibilità di coltivare una fede libera, gioiosa, umanizzante, capace di dischiudere orizzonti di grande, invincibile speranza. [...]

Importante oggi è presentare l’immagine di una Chiesa che sia finalmente sciolta da tanti fardelli del passato (ritualismi, giuridicismi, paure, diplomazie eccessive, preoccupazioni di tipo mondano...) e diventi invece lo spazio dove si possa entrare in una comunione amorosa con l’universo, con l’esistenza, con il mistero di Dio. Come epìskopos (nella Chiesa primitiva, colui che veglia sulla comunità) non mi preoccuperei di cercare una risposta a tutti i problemi di ordine morale (il cristianesimo non è anzitutto una morale), ma di essere testimone di una fede che abbia una connotazione mistica, che si nutra cioè dell’indicibile stupore nel sentirsi amati da Dio, per pura grazia, con una tenerezza che precede ogni possibile merito.

È un Dio, quello di Gesù, che si mette sempre dalla parte dell’uomo, soprattutto dell’uomo debole che anela a un possibile riscatto.

Parlerei perciò spesso della meravigliosa libertà che si respira nel Vangelo, del valore della persona che viene prima di ogni principio e di ogni norma morale ("il sabato è per l’uomo, non l’uomo per il sabato"), della coscienza matura come criterio ultimo di giudizio nell’agire. Parlerei soprattutto dell’amore fraterno come risposta generosa e gioiosa all’amore di Dio, amore che dovrebbe privilegiare i piccoli del Vangelo (i grandi, quelli che contano, i privilegi se li procurano da soli). [...]

Voleva essere una semplice lettera di saluto e di augurio. Mi accorgo che mi sono lasciato prendere la mano, un po’ come succede a certi vescovi che hanno la debolezza di rivolgersi ai loro fedeli con messaggi interminabili, quando sarebbe molto più efficace un breve scritto, semplice e trasparente. [...]

Ma forse in questa mia confidenziale chiacchierata non manca qualche spunto (confido molto nel valore delle storielle) che potrebbe servire per il tuo impegno pastorale.

Me lo auguro. E affettuosamente ti dico: buon lavoro!

Don Luigi




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