LE RADICI CRISTIANE
(Gianfranco Monaca su “Tempi di
Fraternità” N.7/2004)
Nel Seicento scoppiò in Piemonte una
voglia travolgente: una vera epidemia tra le famiglie economicamente
emergenti che avevano accumulato per secoli beni mobili e immobili. Diventava importante
darsi un albero genealogico che affondasse le radici nel!a notte dei tempi, e
spuntarono come funghi i discendenti di eroi omerici o di patriarchi biblici.
I Savoia certificarono ricerche
anagrafiche inverosimili (in cambio di considerevoli diritti di cancelleria),
procurandosi così una legione di conti e marchesi presentabili come
ambasciatori e ministri nelle corti europee. “Come nasce?” era la domanda con
cui si indagava sull’identità di una persona, molto più che sulle sue
individuali qualità.
La compravendita di titoli nobiliari
assunse proporzioni bibliche: l’allusione non è fuori luogo, poiché qualcosa di
simile avvenne nella redazione dello genealogie, quando fu necessario
consolidare l’anagrafe del popolo ebraico legittimandone la presenza fra le
nazioni, dopo il ritorno dall’esilio babilonese.
Quanto più labile è l’identità
personale, tanto più diventa importante il bisogno di appartenere a un gruppo
riconosciuto e socialmente importante.
È il meccanismo che scatta per far
includere “le radici cristiane” nella costituzione europea, una vera ossessione
per la diplomazia vaticana e per onorevoli personaggi in cerca di appoggi
elettorali.
È curioso come si finga di non
accorgersi che questa operazione capovolge diametralmente i criteri evangelici
di valutazione. “Se un albero é buono, darà frutti buoni; se è cattivo darà
frutti cattivi. Così li riconoscerete dai loro frutti” (Matteo 7, 16-17). Sono
i frutti che garantiscono le radici, e non viceversa.
Il Vangelo qui è di una laicità e di
un empirismo radicale: la salvezza non viene dalle ideologie né dalle
genealogie, ma dai “frutti”. In
psicologia sociale questo si dice dare il giusto rilievo alla “comunicazione
indiretta”, che è molto più efficace dei messaggi diretti e intenzionali.
Basiliche megalitiche, marmi preziosi,
mitre, turiboli, suppellettili liturgiche in metalli preziosi, opere firmate da
costosissimi architetti sono messaggi inequivocabili, parlano al mondo dei
poveri - cioè all’ottanta per cento della popolazione mondiale - il linguaggio
imperiale dello sfruttamento e degli intrighi delle anticamere. Si ha un bel
cercare di coprirne le vergogne con sacratissime mutande (vere e proprie
bestemmie) dedicando a Francesco d’Assisi basiliche miliardarie o al Volto
Santo girandole e ingranaggi dal disastroso impatto ambientale con o senza la
reverente connivenza di soprintendenze compiacenti o commissioni edilizie
ammaestrate. Restano comunque frutti avvelenati di radici putrescenti.
Gianfranco
Monaca
Da “REPUBBLICA” - DOMENICA 18 LUGLIO 20O4 - CRONACA DI BOLOGNA
Vogliamo dirlo? Intorno al
dibattito sull'assenza nello Statuto della Regione Emilia-Romagna di un
riferimento alle radici cristiane c'è da registrare qualche disagio.
Il motivo della critica è noto: si fa riferimento
al Risorgimento e alla Resistenza, ma non al sostrato cristiano della cultura
della regione. Qualcuno ha chiosato la protesta dicendo: che cosa caratterizza
il paesaggio che attira il turista o comunque il visitatore? Chiese, conventi,
statue di santi. Insomma si tratta di un paesaggio cristianizzato, che conserva
nei suoi monumenti una eredità religiosa ben percettibile. E su queste
osservazioni non si può non consentire.
Allora, perché il disagio? Forse perché il tutto ha
un sapore di replica? In effetti, se non ci fosse stato nei mesi scorsi il
dibattito ben più ampio (per altro ancora in corso) sul preambolo della
Costituzione europea, forse non sarebbe neppure nato quello locale sullo
Statuto della Regione, che inevitabilmente ne trae un sapore - come dire? - un
po' pretestuoso. Visto che ci sono validi e forti argomenti per polemizzare
contro il laicismo non poco forzato della Costituzione europea, allora
attacchiamoci anche una polemichetta locale. Tutto fa brodo.
In realtà gli argomenti laici a favore di un
riferimento alle radici cristiane dell'Europa non mancano. Non occorre una
grande preparazione storica per riconoscere, se si guarda onestamente alle
cose, che l'Europa è quello che è non solo ma certo in grande, determinante
misura per l'apporto del cristianesimo (oltre, naturalmente, che per l'eredità
classica, e poi per quella ebraica cristianamente filtrata, araba ecc. ecc.). A
essere onesti, occorre dire che anche momenti largamente secolarizzati, come
l'Illuminismo, sono pensabili solo come eredità di una cultura profondamente
segnata dal cristianesimo, poi resasi autonoma e anzi polemica rispetto a
questa sua base sotterraneamente operante.
Non è un caso che la cultura dei diritti umani,
della tolleranza ecc. sia nata su suolo europeo, dove almeno la teoria
(certamente non sempre la pratica) del valore della persona era affermata sulla
base teologica della comune figliolanza divina. Quindi il riferimento alle
radici cristiane dell'Europa non sarebbe stato in alcun modo un cedimento
confessionale o un vulnus alla laicità dello stato o del meta-stato
europeo. Sarebbe stato solo una presa d' atto di una realtà storica
difficilmente contestabile.
Perché allora il disagio di fronte alla replica in
sedicesimo del dibattito rispetto alla Regione Emilia-Romagna? Proprio perché
si tratta di una regione e non dell'Europa, di una realtà circoscritta certo
geograficamente, ma anche cronologicamente o storicamente. Se il
cristianesimo ha contribuito per la sua parte alla configurazione spirituale
della cultura europea, la cultura locale della regione, che ne fa parte, ne è
debitrice al pari di tutte le altre regioni che compongono l'Europa.
Ma era necessario ribadirlo
espressamente in uno statuto locale che non intende risalire alle
origini-remote della cultura regionale, ma solo coglierne alcuni tratti recenti
che la caratterizzano rispetto ad altre realtà locali? Sono stati identificati
Risorgimento e Resistenza. Discutiamo se siano sufficienti a circoscriverne il
perimetro, se siano fondanti o meno. Non occorre risalire alle radici
cristiane, che sono comuni a tutto il continente e non definiscono la realtà
locale. Altrimenti il catalogo dovrebbe enormemente allargarsi, e cominciare
citando, che so?, gli etruschi e i romani (quante tracce ce ne rivelano gli
archeologi: l'acqua che beviamo in città arriva in parte grazie a un acquedotto di quando essa si chiamava
Bononia), o addirittura i celti (i galli Boi, che hanno lasciato tracce linguistiche
nel dialetto oltre che nel nome stesso di Bologna).
Uno statuto, che è strumento giuridico
e politico, sarebbe la sede giusta per un catalogo di questo genere? Ecco,
forse, la radice del disagio è nel sospetto che si tratti in fondo solo di una
piccola occasione di polemica spicciola, attaccata a un chiodo ben più grosso e
ragionevole, ma che in realtà è del tutto disinteressata alla storia e mira a
un obiettivo molto più modesto, oppure niente affatto modesto ma non storico,
bensì schiettamente politico, come la rimozione dall'identità della Regione dei
momenti di impegno civile riassunti nel binomio di Risorgimento e di
Resistenza.
È un problema di proporzioni o di ordini di
grandezze. La Regione Emilia-Romagna ha radici cristiane al pari del resto
d'Europa. Non in tutta Europa invece (e neppure in tutta l'Italia) Risorgimento
e Resistenza possono venire invocati come momenti caratterizzanti. Ma che cosa
deve comparire in uno Statuto che identifica l'identità dell'area di cui deve
regolare la civile convivenza?
ALBERTO DESTRO
(PRESIDE DI LINGUE)