Il posto della Chiesa è con il popolo.
Prosegue il dibattito all’incontro dei movimenti popolari Non smette di sorprendere l’incontro dei movimenti popolari in Vaticano “Terra, Labor, Domus”: dopo l’apprezzatissimo discorso del papa, si è svolto, nell’Aula Vecchia del Sinodo, un dibattito inimmaginabile fino a poco tempo fa, in cui il riferimento alla lotta dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale per un mondo “con giustizia e dignità” – espresso da Victor Hugo Lopez Rodriguez, indigeno messicano del Centro Bartolomé de las Casas – è stato accompagnato dalla memoria di martiri a lungo mal visti in Vaticano, primo fra tutti mons. Oscar Romero, più volte ricordato dai rappresentanti dei movimenti. E in cui, a fronte di una profonda simpatia per papa Francesco, non sono mancate critiche all’istituzione ecclesiastica: al ruolo da questa giocato nel passato, nei confronti per esempio dei popoli indigeni, e nel presente, riguardo, ad esempio, al sostegno prestato al colpo di Stato in Honduras, sulle cui conseguenze si è soffermata un’appassionata lettera consegnata a papa Francesco dal Copinh (Consejo civio de organizaciones populares e indigenas de Honduras) e letta in plenaria dalla dirigente Berta Caceres: “Vogliamo che in Honduras – si legge nella lettera – rinasca una Chiesa impegnata con i più impoveriti e le più impoverite, come aspiravano i nostri santi e i nostri martiri, da p. Guadalupe Carney a mons. Romero, non con cardinali che concedono la loro benedizione a colpi di Stato e a sistemi di potere che perseguitano quanti percorrono il cammino di liberazione all’interno della stessa Chiesa”. Dove il riferimento è chiaramente al card. Rodriguez Maradiaga, ribattezzato dal suo popolo, all’epoca del colpo di Stato, “cardinale golpista” o “cardeMal”, per il suo aperto appoggio al regime golpista, e poi scelto da papa Francesco per presiedere il gruppo di cardinali incaricato di elaborare un progetto di riforma della Curia. Sull’accompagnamento dei movimenti popolari da parte della Chiesa si è soffermato invece il gesuita Michael Czerny, del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, il quale, interrogando i movimenti riguardo alle loro aspettative sulle forme di accompagnamento ecclesiale, ha posto l’accento sulla necessità di “trovare la strada insieme”. Ma anche al gesuita è stata posta, dall’indigeno maya guatemalteco Daniel Pascual, una domanda precisa: quale importanza i vescovi attribuiscono realmente alla realtà del mondo? Il loro ruolo è forse simile a quello esercitato dai tanti preti assassinati, da vescovi martiri come mons. Gerardi o mons. Romero? E a Czerny ha risposto anche lo spagnolo José Antonio Vives Ruiz: “Chiedere cosa può fare la Chiesa per noi – ha affermato – è già un modo per creare distanza. La Chiesa deve stare con il popolo, deve condividere le sofferenze delle persone che si sentono sconfitte e alle quali, con il suo accompagnamento, può ridare forza. Se la Chiesa sta con il popolo, sa bene di cosa questo ha bisogno”. Ma a concludere il dibattito è stato l’argentino Juan Grabois, della Confederazione dei lavoratori dell’economia popolare, sottolineando quattro principi fondamentali per la lotta dei movimenti: “il tempo vale di più dello spazio”, nel senso che è più importante avviare o consolidare processi che occupare spazi di potere; “l’unità è superiore al conflitto”, il quale non deve essere ignorato, ma risolto in vista dell’azione da portare avanti; “il tutto viene prima della parte”, contro ogni tentazione individualistica; “la realtà – infine – è superiore all’idea”, affinché si possa continuare a lavorare insieme trovando convergenze e generando nuovi linguaggi, senza fare concessioni sul piano delle convinzioni ma compiendo uno sforzo per “rendere compatibili le diverse forme di percepire la realtà”. Claudia Fanti – Adista
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Dalla resistenza all’appropriazione del potere politico.
L’invito di Evo Morales ai movimenti popolari Se una delle grandi sfide dei movimenti popolari è, come ha evidenziato Margaret Archer, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, quella di tradursi in “forma legittima di governo”, secondo il principio di “una democrazia partecipativa che trasmetta dal basso verso l’alto le esigenze dei poveri”, nessuno era più indicato di Evo Morales, leader cocalero diventato presidente della Bolivia, per affrontare la questione. Ed è proprio con le sue parole che si è conclusa la seconda giornata dell’incontro dei movimenti popolari “Terra, Labor, Domus”, dedicata alla riflessione sulle cause strutturali dell’esclusione: “non c’è nulla di sacro nel capitalismo”, il “parto malato dell’umanità”, in quanto, “nelle sue mani, tutto diventa merce, e si vende e si compra la vita stessa”. Ma è sull’esperienza di rifondazione della Bolivia che si è soffermato Morales, evidenziando la necessità per i movimenti di passare dalla fase della resistenza a quella dell’appropriazione del potere politico, dalla lotta sociale alla lotta elettorale, in nome di una democrazia che rappresenti gli interessi del popolo e non del mercato – non è certo un caso che il Ministero del Lavoro sia passato dalle mani di un imprenditore a quelle di un operaio – e che sia dominata non dalla logica della maggioranza e della minoranza, ma da un processo decisionale fondato sul consenso. Un’appropriazione del potere politico che immediatamente si traduce, come appunto dimostra il caso boliviano, nella rinuncia alla guerra, “massimo spreco di vita”, come l’ha definita Morales (“dopo una guerra – ha detto – la vita non torna mai più ad essere la stessa”), e nella promozione di una cultura della pace. Ed è questo rifiuto di ogni invasione – la forma di guerra che l’America Latina conosce così bene, avendola subita innumerevoli volte – che ha portato all’espulsione dell’ambasciatore degli Stati Uniti in Bolivia: dove c’è un ambasciatore Usa c’è un golpe, scherzano spesso i latinoamericani, e se negli States non c’è mai un colpo di Stato è proprio perché non hanno un ambasciatore statunitense. Sono sempre dei pretesti, ha evidenziato Morales, a giustificare l’intervento militare a stelle e strisce: se non è il terrorismo, sono i diritti umani o il narcotraffico. E che quello del narcotraffico sia appena un pretesto lo ha mostrato chiaramente il governo boliviano, riducendo – senza violenza e senza conflitti, solo offrendo altre opzioni di vita – la superficie destinata alla coltivazione della coca da 32mila ettari a 23mila. E, dopo la rifondazione politica, quella economica, a cominciare dalla nazionalizzazione delle risorse naturali: se lo sfruttamento degli idrocarburi portava prima nelle casse dello Stato appena 300 milioni di dollari, ora sono più di 5 miliardi di dollari quelli su cui può contare il Paese, una cifra consistente che ha permesso di sradicare l’analfabetismo, contrastare l’abbandono scolastico e migliorare i servizi di base, che, ha insistito Morales, non devono mai ridursi ad un affare privato. Senza contare l’avvio di un processo che, dall’esportazione di materie prime senza valore aggiunto, sta promuovendo, per la prima volta, l’industrializzazione del Paese, per muovere poi il passo successivo, quello della promozione di un’economia della conoscenza. Infine, la difesa della Madre Terra, la Pacha Mama, il nostro pianeta ammalato di capitalismo: non si può accettare, ha detto, che la Terra sia ridotta a semplice merce, comprata e venduta in base alle leggi del mercato. E ha ammonito: il pianeta può continuare ad esistere senza di noi, ma noi non possiamo vivere senza la Terra, il nostro focolare, la nostra casa comune. Da qui l’impegno del governo per un nuovo modello energetico, per la promozione di un’agricoltura a conduzione familiare e per l’incremento del consumo di prodotti locali, come pure la lotta contro i transgenici e la speculazione finanziaria sugli alimenti. Claudia Fanti – Adista
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