NOI SIAMO CHIESA
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I senatori a vita chiedono con forza il voto sulla legge sul testamento biologico. Ma il Senato è bloccato. Ora tutto dipende dai vescovi se desisteranno dalla loro opposizione nei confronti di un testo fondato sul buonsenso e su un ragionevole compromesso
I quattro senatori vita (Elena Cattaneo, Mario Monti, Renzo Piano,Carlo Rubbia) hanno diffuso un testo in cui con determinazione chiedono che le legge sul fine vita sia approvata al più presto per impedire che essa decada con la fine della legislatura. Questa insolita presa di posizione, anche se ha avuto poca eco sulla stampa, ha rilanciato una questione che era ferma da luglio. Altre notizie informano che per bloccare i 3500 emendamenti ostruzionistici non ci sia altra possibilità che quella di cercare di andare alla discussione in aula (ammesso che ci si riesca) in una situazione del tutto incerta per manovre parlamentari di ogni tipo e per calcoli elettorali soprattutto della destra.
L’opposizione alla legge, che è passata alla Camera a stragrande maggioranza, è costituita da una rumorosa e aggressiva area di centrodestra che viene supportata da alcuni movimenti cattolici prolife , che hanno ottenuto fino ad oggi appoggio nelle posizioni della Conferenza episcopale e dell’Avvenire. Ma l’opinione della maggioranza dell’opinione cattolica, a quanto si sa dai sondaggi, è favorevole al testo. Esso viene anche supportato da prese di posizione esplicite, come quella recente dei gesuiti di Aggiornamenti sociali. In questa difficile situazione ci sembra che possa essere determinante un nuovo atteggiamento dei vescovi che hanno una nuova guida nel Card. Bassetti. Esso dovrebbe fondarsi su ascolto e rispetto piuttosto che su diffidenza e “paura di derive eutanasiche” che non trovano alcun fondamento reale nel dettato della legge e neanche nelle intenzioni della gran parte di quelli che la appoggiano. Anche il quotidiano cattolico potrebbe avere, di conseguenza, una linea diversa assecondando in tal modo la linea più aperta che si sembra stia assumendo negli ultimi tempi. Il nuovo corso di papa Francesco piò essere alle spalle di questa auspicabile modifica di posizione.
Noi Siamo Chiesa ha da tempo espresso una argomentata posizione che alleghiamo in una nuova edizione aggiornata. Essa si conclude con queste parole: “Accompagnamento del malato, senza accanimento e senza abbandono, con una vera comprensione della sua sofferenza, educazione degli operatori sanitari a una relazione non solo terapeutica, qualità dei servizi e loro diffusione sul territorio, diritti del malato e rispetto prioritario della sua coscienza, sempre. Perché non deve essere possibile una concordia che comprenda ed accetti?”
Roma , 21 ottobre 2017 NOI SIAMO CHIESA
Sul fine vita: domande, ipotesi, risposte. Una riflessione di “Noi Siamo Chiesa” con un’opinione complessivamente positiva sul progetto di legge approvato dalla Camera e ora in attesa di essere discusso dal Senato (terza edizione)
Negli ultimi mesi il problema del fine vita è rientrato con irruenza nello “spazio pubblico” dopo essere già stato tale e al massimo livello, prima e dopo il caso di Eluana Englaro tra il 2007 e il 2011 . La vicenda di Fabo e poi, in ottobre, di Loris Bertocco e la questione del testamento biologico sono di nuovo all’attenzione dell’opinione pubblica, con le istituzioni coinvolte come mai negli ultimi anni. Il progetto di legge sul consenso informato e sul testamento biologico è stato approvato il 21 di aprile dalla Camera dei Deputati con 326 voti favorevoli, 37 contrari e 4 astenuti. Un consenso così vasto, secondo logica, dovrebbe dare per scontata una sua rapida approvazione da parte del Senato. Ma così non è e i rischi che il progetto decada con la fine della legislatura sono più che concreti.
Volendo anche noi, come in passato, dare un contributo sul problema da credenti e da cittadini della Repubblica, ci pare che si debbano premettere alcune constatazioni ed opinioni generali fondate, oltre che sul buon senso, sull’esperienza diffusa, e spesso sofferta, che ognuno di noi ha di situazioni di fine vita e sul come queste questioni possano essere affrontate e regolamentate avendo come orizzonte delle stesse tutti i diversi valori che vi sono coinvolti.
La situazione
In sintesi per punti ci sembra che :
- anzitutto, per quanto ci riguarda come credenti, il fine vita è un compimento e un nuovo inizio. Ne parliamo troppo poco. Certe volte non siamo noi stessi succubi, inconsapevolmente, di una cultura materialista diffusa, quasi dimentichi del cammino della creatura verso il suo fine ultimo? Paolo nella Lettera ai Romani (8, 18-20) dice “Ritengo infatti che tutte le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi….. la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”;
- nella nostra società, c’è in modo diffuso, molta rimozione dei temi legati alla morte. Stimoli di ogni tipo, idoli invadenti, una accelerazione della civiltà (sia nel bene che nel male) inducono a una vita vissuta molto nel presente e ciò anche perché la conclusione della vita è più lontana nel tempo che in passato. Sul fine vita ha scritto Enzo Bianchi (“Repubblica” del 21 febbraio) “non c’è informazione né educazione e si è ormai smarrita la sapienza e la naturalezza con cui in passato la si affrontava”. Ciò sia in campo civile che , a volte, anche ecclesiale;
- forse ciò avviene perché questo momento supremo dell’esistenza, che si intreccia con domande esistenziali di fondo, risente in questo momento storico di una maggiore difficoltà ad avere, e a dare, risposte ultime. Esse erano più facili prima della crisi delle fedi e delle ideologie che avevano in sé molte certezze e prima dello svilupparsi della secolarizzazione con i dubbi, le ricerche e il senso del mistero che essa porta con sé;
- ogni fine vita ha caratteristiche molto legate alla personalità del singolo e alle circostanze di ogni tipo in cui essa avviene. Non è facile fare discorsi generali e fare casistiche;
- è difficile per la legge intervenire sul fine vita stante l’intreccio tra coscienza del malato, presenza dei famigliari e del personale sanitario e condizioni concrete dell’assistenza. L’attuale cd “area grigia” è quella dove si discute, ci si angoscia e alla fine si decide. Essa è difficile da definire, è mutevole da caso a caso, e sicuramente non scomparirà anche in presenza di buone leggi. La norma deve essere consapevole dei suoi limiti. Si è parlato giustamente di “diritto mite” o “gentile” che deve limitarsi a stabilire dei paletti e a indicare dei percorsi. Ma la norma ci pare necessaria per affermare diritti e obblighi nella situazione troppo indeterminata di adesso. I medici devono avere alle spalle norme che li tutelino se rispettano la volontà del malato e che li sollecitino a farlo. In ogni modo siamo convinti che, nel campo del fine vita, prima delle leggi siano necessarie culture ed etiche che le preparino e le informino e che percorsi ed esperienze di spiritualità (laica o religiosa) abbiano un ruolo molto importante;
- le patologie relative al fine vita che si devono affrontare sono cambiate. I medici ci raccontano dell’aumento delle malattie neurodegenerative, di quelle psichiatriche e di quelle croniche, parlano di multimorbilità. E’ una nuova situazione che condiziona il modo di affrontare un fine vita spesso dopo una vecchiaia lunga e vigile;
- i progressi della medicina sono continui e non accennano a fermarsi, ponendo problemi sempre nuovi, rispetto ai quali, ha detto il card. Parolin, “neppure la società è preparata a rispondere”. Queste continue novità tendono a rendere sempre più complessi i problemi da affrontare che presentano, a volte, differenti variabili, tutte ugualmente possibili;
- siamo abituati a ragionare solo sui fine vita nel mondo occidentale. Bisogna essere consapevoli che il problema si pone in modi molto diversi nei paesi della povertà, della miseria o della guerra dove l’accanimento terapeutico non c’è e semmai l’esatto contrario è la norma, anche se le situazioni ormai diffuse nel Nord del mondo esprimono tendenze che tenderanno a generalizzarsi.
Che cosa è la vita?
La riflessione sul fine vita pone la questione fondamentale sul cosa è la vita. Senza addentrarci in discussioni filosofiche e solo in relazione a ciò di cui ci stiamo occupando, ai tempi del caso Englaro ci ponemmo ripetutamente il problema della differenza tra la vita biologica (quella di Eluana) e la vita biografica (quella che non aveva Eluana). Non stiamo mitizzando, ideologizzando la vita in sé, anche se nel caso concreto essa è priva di coscienza e di dignità ?
Ci si richiama al diritto naturale. Ma un orientamento, con sempre maggiore consenso in diverse discipline, riflette criticamente sull’esistenza di diritti propri di ogni essere umano come sempre e comunque validi. Si ragiona su un approccio alle gravi questioni che stiamo ponendo che sia legato alle circostanze, al contesto in cui esse si determinano. Si pensa alla qualità di ogni atto morale anche (ma non solo) in relazione a come la coscienza del soggetto si autodetermina, in relazione a come è condizionata e si è formata. Sono molti quelli che apprezzano di più l’impegno a favore del cd “durante” cioè a quanto c’è nel corso dell’esistenza dell’uomo che ama , soffre, gioisce e che è vivo, piuttosto che a favore dell’embrione o della persona che è in stato vegetativo permanente. Nel mondo cattolico non si discute in modo altrettanto intenso delle questioni dell’embrione su chi decide le guerre o su chi provoca tanti lutti sui posti di lavoro. Ciò premesso, naturalmente siamo ben convinti del valore della vita anche quando essa è priva della caratteristiche che associamo a una vita “piena”: è il caso di tante persone che non hanno, o hanno perso in parte, capacità intellettive o fisiche eppure sono in qualche modo pienamente vivi. La vita è sempre un mistero.
Una nuova consapevolezza sullo sfondo della discussione in corso
Attualmente c’è una grande area grigia attorno al malato terminale, essa è densa di affetti, di conflitti e di sofferenze. Bisogna riconoscere che sono stati fatti dei passi in avanti negli ultimi anni almeno a livello della consapevolezza della situazione. L’accanimento terapeutico, così come l’abbandono, vengono esclusi da tutti ma gli operatori sanitari dicono che essi, in alcune situazioni concrete sono difficili da distinguere. La sedazione palliativa profonda e continua del morente viene ammessa nel progetto approvato dalla Camera mentre da tempo è stata approvata la legge sulle cure palliative (n.38 del 2010). Se essa fosse osservata in modo generalizzato, se essa fosse un vero concreto obbligo, oltre a ridurre tante sofferenze, risolverebbe molte situazioni “al limite”, riducendo anche le tentazioni suicidarie o eutanasiche che nascono in situazioni estreme. Rappresenterebbe anche il miglior modo di realizzare nel concreto l’alleanza terapeutica tra paziente e medico, di cui tanto si parla e che deve essere uno dei cardini di ogni intervento di tipo sanitario .
Dell’accompagnamento (relazioni famigliari, attenzione alle condizioni psicologiche del malato ed alle sue esigenze concrete) se ne parla molto mentre è posto il problema dei problemi, quello di un “modello biomedico puro di tipo prestazionale che vede l’uomo malato come una macchina guasta da riparare a cui bisogna aggiungere un modello relazionale che metta la persona al centro” (Matilde Leonardi del Neurologico “Besta” di Milano, sull’Avvenire dell’11 febbraio). Questo possibile nuovo modello esige l’educazione dei medici a un modo nuovo di studiare (a partire dagli studi universitari) e di fare poi medicina oltre che l’informazione e il consenso del malato. Tutto ciò è la premessa per la cd alleanza terapeutica che non sia solo una bella proposta (il progetto di legge la chiama “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico” art. 1 comma 2). Nell’ambito di questa alleanza il malato deve avere diritto a un’informazione esatta, completa e paziente da parte del personale sanitario, rispettoso della sua sensibilità e delle sue indicazioni. Nell’alleanza il medico non deve decidere ma aiutare il malato a decidere. A questo scopo, la qualità e le modalità dell’informazione e del dialogo sono uno dei problemi centrali dei trattamenti terapeutici e, in particolare, della gestione del fine vita.
Alcune nostre convinzioni
Questa nuova consapevolezza è lo sfondo che sta alle spalle del dibattito sul progetto di legge discusso Camera. In questo contesto vogliamo affermare alcuni punti che pensiamo non debbano essere messi in discussione:
–è necessario ispirarsi più che a un’etica dei principi a un’etica della consapevolezza e della responsabilità da parte di tutti i soggetti presenti sullo scenario del fine vita;
— le cure palliative sono il fondamento di ogni approccio al fine vita. Nel dibattito in corso ci sembra che siano state sottovalutate la loro importanza e la necessità che siano praticate ovunque e in modo soddisfacente ;
–nessun malato è obbligato a fare alcunché, né DAT né altro, e ha invece il diritto di decidere della sua malattia senza che le strutture sanitarie in ultima istanza si impongano;
–l’alleanza terapeutica tra medico e paziente è molto importante e deve trovare un giusto equilibrio fondato sulla volontà del malato aiutato dalla professionalità del medico;
–qualsiasi intervento legislativo o amministrativo non può e non deve essere pensato per ghettizzare i malati o per liberarsi di essi;
–la nutrizione e l’idratazione artificiali devono essere lasciate alla libera decisione del malato e non devono essere considerate sempre come un sostegno vitale obbligato, come pretendono molti medici che ritengono questa la questione principale della legge. In caso di stato vegetativo permanente e irreversibile esse devono essere sospese, sentita, se del caso, l’opinione dei famigliari. Altri trattamenti sanitari , come la dialisi o la respirazione artificiale, devono essere ugualmente considerati a disposizione del paziente;
–l’eutanasia è fuori dall’ordine delle decisioni da prendere ora e non è accettabile usarne il fantasma per bloccare quanto si è rinviato per troppi anni e che è l’oggetto del ddl;
–è importante pensare a esiti di fine vita in cui il malato sia il meno possibile ospedalizzato e resti o ritorni in famiglia, ogni volta che ciò sia possibile.
Il progetto di legge in discussione
Tutto ciò premesso, il progetto di legge ci sembra complessivamente equilibrato, ragionevole e condivisibile con alcune riserve (per esempio sul comma 7 dell’art.1, si legga di seguito). Esso ha come suoi pilastri il consenso informato, le DAT (Disposizioni anticipate di Trattamento) e la “Pianificazione condivisa delle cure” (art.4), atto simile alle DAT ma concordato col medico di fronte a una prognosi infausta della malattia (questo programma concordato è fondato su una norma nuova che potrebbe essere positiva se non fosse più che ambiguo il concetto di condivisione; significa che al medico rimane un diritto di veto rispetto a un diverso orientamento del paziente?).
Altre norme riguardano i minori e le modalità di manifestazione del consenso. In particolare , in tutta le dinamiche del fine vita, ci sembra importante sottolineare il ruolo importante dei famigliari (quando ci sono) e della figura del fiduciario, qualora sia stato designato nei casi di perdita irreversibile di coscienza del malato. Siamo di fronte a un rovesciamento del progetto di legge Calabrò che stava per essere definitivamente approvato dal Parlamento nel novembre 2011 ma che cadde col governo Berlusconi e non fu ripreso. “Noi Siamo Chiesa” in un lungo testo del 15 ottobre 2009 (www.noisiamochiesa.org/riflessioni-di-noi-siamo-chiesa-sul-testamento-biologico-O/) approfondì molte delle questioni ora in discussione, denunciando la non accettazione da parte della CEI della linea ufficiale della Chiesa contenuta nel paragrafo n. 2278 del Catechismo della Chiesa Cattolica (linea che invece viene accettata da altri episcopati del nordEuropa). Da qui la linea tenuta da “Noi Siamo Chiesa” sul caso Englaro. Ci richiamiamo al nostro testo di allora per analisi ed opinioni che non abbiamo modificato.
Siamo convinti che la coscienza e la libertà del malato siano i veri valori non intaccabili dalle istituzioni, che “la sacralità della vita libera, dell’autodeterminazione” (Vito Mancuso) non possa essere sottratta a chi è già in condizione di debolezza, che il malato debba essere aiutato a decidere della sua malattia, che il medico (come i famigliari, come i preti) lo debbano ascoltare lasciando che parli anche del suo vissuto attuale o precedente. Naturalmente si dovrà curare, con norme severe, che la volontà del malato sia espressa con il massimo di consapevolezza, lontana da momenti di sconforto o di depressione e come conclusione di una relazione col medico che valuti attentamente la situazione specifica della malattia e che aiuti il malato ad orientarsi. In questo percorso il malato non dovrà avere, come a volte succede, un atteggiamento di sufficienza o anche di arroganza nei confronti delle proposte che gli sono fatte, magari dando fiducia irrazionale a terapie non sicure, di dubbia provenienza. Noi pensiamo che la vecchia medicina paternalista ed autoritaria debba essere superata ovunque e che i tutti malati debbano avere un uguale trattamento, anziani e giovani, ricchi e poveri, prostitute e nobildonne, terminali e cronici ecc…Un esempio della posizione della linea secondo la quale le pretese istanze etiche del medico dovrebbero prevalere sempre è quello dell’Appello dei giuristi promosso dal Centro Studi Livatino del 27 marzo. Mentre invece un documento di particolare equilibrio che ci piace segnalare è quello congiunto della Fondazione Cortile dei Gentili, della SIAARTI (Società Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) e SICP (Società italiana Cure Palliative) del 17.9.2015. Esso nasce con tutta evidenza da una riflessione interna sia alla sensibilità cattolica sia alla pratica clinica. In esso si tratta della proporzionalità delle cure, della loro pianificazione condivisa, del fiduciario, delle DAT, del rifiuto delle cure. Vi si afferma in conclusione: “L’esercizio di autodeterminazione va assecondato e sostenuto senza contrastare la scelta del paziente che voglia affidarsi a persona di fiducia o direttamente al medico stesso”.
E’ stata introdotta la possibile obiezione di coscienza del medico. La nostra opinione è contraria
Nel testo Calabrò il medico aveva l’ultima parola, ora non più, prevale la volontà del paziente che è affermata con chiarezza (art. 1 comma 5). O perlomeno dovrebbe prevalere perché una modifica introdotta tra il testo della Commissione votato in gennaio e quello votato in febbraio prevede che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali” (art.1 comma 7). In sostanza si dice che il medico si può rifiutare alla volontà del malato appellandosi alla sua morale professionale. Ma chi la decide? Nel Codice Deontologico dell’Ordine dei medici, all’interno di giuste parole sulla relazione di cura, si afferma che il medico “tiene conto”della volontà espressa dal paziente . Questo semplice “tenere conto” (artt. 16,38,39) apre la strada, con tutta evidenza, a diverse possibili obiezioni di coscienza, con motivazioni non difficili da trovare.
Ci chiediamo se non entri dalla finestra quello che sembrava uscito dalla porta, cioè la negazione della possibile obiezione di coscienza da parte del medico (si legga il lucido ed efficace intervento di Michele Ainis su “Repubblica” del 26 febbraio; il parere della Commissione Giustizia della Camera propone la soppressione di questo comma). Analogo ragionamento si può fare per le “buone pratiche clinicoassistenziali”. Chi decide delle loro caratteristiche? Anche per esse si apre una incontrollata possibilità di usarle per praticare obiezione di coscienza di fatto. Sappiamo che lo scontro in Commissione Affari Sociali è stato molto duro. Il compromesso raggiunto su questo punto specifico ci sembra inaccettabile. Esso è stato poi peggiorato da un testo aggiuntivo votato dall’aula della Camera che recita: “A fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali”.
Bisogna dire le cose come stanno: questo comma 7 dell’art.1 permetterà al medico una vera e propria obiezione di coscienza anche se essa si manifesterà caso per caso e non in modo istituzionalizzato (come invece è previsto nella legge n.194). Spetterà poi (art.1 comma 10) “ad ogni azienda sanitaria pubblica o privata garantire con proprie modalità organizzative” la piena attuazione dei principi della legge. Potremmo avere nel tempo una situazione simile a quella della legge sulla IVG, con la necessità di rincorrere medici, qua e là, disposti a non opporsi alla volontà del malato. Non vorremmo cioè che, in nome della difesa della vita e grazie a questa norma che indirettamente lo consente, una parte della classe medica si arrocchi a difesa del suo ruolo e vanifichi almeno in parte una legge complessivamente positiva.
Non è un buon sintomo di quanto ci aspetta la dichiarazione dell’ARIS (Associazione religiosa Istituti Sociosanitari) che ha assicurato: “l’impegno di applicare rigorosamente la legge in approvazione in ordine alle DAT, salvo la facoltà di non assumere la responsabilità di assistere pazienti la cui dichiarazione anticipata di trattamento faccia presumere un conflitto difficilmente sanabile con il nostro fermo orientamento etico. Massimo rispetto per la legge, chiediamo però rispetto anche per la nostra libertà di coscienza”.
Indipendenza del medico?
In effetti è sul ruolo del medico che si gioca tutto. Una DAT a cui il medico può non dare seguito sarebbe una bella immaginetta a cui il paziente e la più vasta opinione non presterebbero fede in partenza. Per sostenere nella legge una norma che preveda un’obiezione formalizzata e piena da parte del personale sanitario ( tipo quella prevista per la legge 194) si dice che l’alleanza terapeutica ha un limite, perchè la “scienza e coscienza” del medico alla fine devono avere l’ultima parola. Non siamo d’accordo con la FNOMCEO (Ordine dei medici) quando, nella sua delibera del 17 febbraio a proposito del progetto di legge in discussione, ha scritto: “Il nostro compito di medici è quello di stare vicini alle persone, vivere per loro difendendo la nostra autonomia. Perché per noi l’autonomia è requisito imprescindibile per difendere la libertà del cittadino”. A noi sembra che questa autonomia, concepita come preliminare e non condizionata, può venire in conflitto col malato-cittadino, che ha invece diritto di gestirsi la sua libertà e di essere aiutato a decidere e non a subire una decisione. Quella parte del personale sanitario che ha queste opinioni non può arrogarsi il diritto di essere l’interprete della Costituzione e del suo articolo 32, a pena di essere o di essere considerato una casta, facendo dimenticare così i tanti suoi meriti in tanti campi e in tante occasioni.
Sullo sfondo c’è la preoccupazione di “derive di tipo eutanasico”, secondo l’espressione che il Card. Ruini usò ai tempi del caso Welby e che è stata ripresa dal Card.Bagnasco. Ma il progetto di legge in discussione , come è stato detto tante volte, non si occupa di eutanasia, anche se in queste settimane nella vasta area dell’opinione le diverse questioni relative al fine vita si sono piuttosto confuse e intrecciate nei media e nell’opinione pubblica. Riteniamo che si debba affrontare un problema per volta e che sia stato un errore quello dei radicali di presentare un progetto di legge che affrontava insieme le varie questioni, consenso informato, testamento biologico ed eutanasia
Welby, Englaro e i valori non negoziabili
L’opposizione al progetto di legge non è tanto quella degli otto deputati di centro e di altri gruppi che hanno fatto le barricate alla Camera nella Commissione Affari Sociali e in aula. E’ quella del circuito ecclesiastico che assilla l’opinione pubblica e le istituzioni come già, su versanti in qualche modo analoghi, è avvenuto con la legge n. 40 e con le unioni civili, per fermarci a tempi recenti . Ci sono invece due buchi neri la cui cancellazione deve essere la premessa per quel nuovo corso della Chiesa italiana che noi auspichiamo. Ci riferiamo ai casi Welby ed Englaro e alle relative “campagne” che allora hanno compromesso la credibilità della Chiesa per chi guardava alle posizioni ufficiali e non alle parole di misericordia e di accoglienza del Vangelo. Da tempo aspettiamo una riflessione autocritica da parte dei vescovi ed anche un vero e proprio atto penitenziale collettivo.
La seconda questione riguarda i “valori non negoziabili” uno dei quali sarebbe il fine vita secondo quanto pretendono Ruini e Bagnasco e inoltre l’Avvenire con la non piccola area di opinione che influenza. Essi difendono il prevalente ruolo del medico, il valore di ogni vita anche solo biologica e ritengono sempre eccessiva la libertà del malato che sarebbe frutto di un individualismo esasperato e inaccettabile. Riteniamo che questi “valori” non possano essere supportati da un preteso diritto naturale di cui sopra e in altre occasioni abbiamo detto. Nel mondo cattolico esiste poi, in un modo che è ora abbastanza sotterraneo, una concezione mistico-religiosa che considera la sofferenza fisica come elemento di purificazione “in espiazione dei peccati” e di santificazione che deve essere accettato e vissuto con pazienza nella convinzione che esso faccia parte di un disegno soprannaturale che ha una sua logica imperscrutabile. Ci sembra un’ottica legata ad una forma di religiosità estranea ad una concezione positiva e serena della fede, che invece accetta il mistero della sofferenza, che è più che legittimo cercare di contenere e che è parte del percorso della vita, senza ragionamenti artificiosi che pretendono di capire (Gv.9, 3).
Due linee diverse nella Chiesa
La mobilitazione contro questa legge continua dopo il voto a larghissima maggioranza della Camera in previsione del dibattito al Senato, con la esplicita speranza che questo testo decada per la non lontana fine della legislatura. Un elemento nuovo, in questa linea di scontro, è costituito dal recente intervento di Francesco D’Agostino, Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici e, da sempre, portavoce della linea rigida sui problemi etici. Egli, in un articolo del 30 marzo su “Avvenire”, si è espresso in modo critico nei confronti di chi accusa la legge di portare a una deriva eutanasica (“la legge dice altro”), sostiene che una legge è necessaria e che “è storicamente superato e quindi anche eticamente discutibile” il paradigma paternalista nel rapporto medico-paziente. Quella di D’Agostino è una linea in evidente contraddizione con la campagna in corso (anche se poi egli sostiene essere preziosa la norma del comma sette dell’art.1, che noi apertamente critichiamo). Anche la rivista dei gesuiti “Aggiornamenti sociali” in un documento del 15 giugno ha affermato che il “testo approvato dalla Camera contiene numerosi elementi positivi e rappresenta un punto di mediazione sufficientemente equilibrato da poter essere condiviso”. Vogliamo poi ricordare il volumetto “Vivere e morire con dignità” del centro Ernesto Balducci di Zugliano in cui Pierluigi Di Piazza argomenta, con rigore, in modo completo e da un punto di vista cristiano, a favore di una posizione ben diversa da quella della campagna in corso. Da tempo ci rammarichiamo che la Chiesa si isterilisca su queste questioni. Essa potrebbe invece richiamarsi al suo intervento nelle strutture sanitarie, nel volontariato, in associazioni per i disabili, per i tossici , per ogni forma di recupero. E’ un intervento che esiste, che è importante, che attua forme vere di compassione e di misericordia alle quali questa campagna contro questa legge ci sembra estranea.
Il Vaticano è prudente
In questa situazione , all’interno della quale si colloca la discussione in Parlamento, stanno venendo alla luce nella Chiesa due ottiche diverse che attraversano negli ultimi anni il mondo cattolico, anche se le diverse posizioni emergono sempre molto sottotono.
Dalla posizione di Bagnasco e dalla martellante campagna dell’Avvenire si passa a un moderato comunicato conclusivo del Consiglio Permanente della CEI di gennaio fino alla linea del Vaticano che è stata espressa oralmente il due marzo dal Card. Parolin con due parole “ascolto e rispetto”. Questa linea sembra essere quella stessa di papa Francesco che più volte ha toccato il tasto giusto: no alla cultura dello scarto, no all’abbandono degli ultimi , dei più deboli , dei più sofferenti. Essa si è manifestata con la decisione di una funzione religiosa per Fabo nella parrocchia milanese di S. Ildefonso nel cui oratorio egli crebbe. A questo proposito ha scritto Alberto Melloni (su “Repubblica” del 7 marzo): “La Chiesa ogni tanto è il luogo dove la grazia fa vivere il Vangelo. Ed è la grazia che ha fatto capire che, proprio nella vita ridotta così a niente da desiderare di lasciarla, c’è la traccia del Figlio di Dio, fatto uomo per piegarsi fino al sepolcro e agli inferi”.
La riflessione continua
La riflessione sul fine vita continuerà a lungo. “Noi Siamo Chiesa” vi è coinvolta sia per quanto riguarda gli aspetti etici e spirituali attinenti al comportamento di ogni credente, sia per quanto riguarda l’intervento delle istituzioni e le discussioni presenti nella società. Pensiamo che debba sempre essere forte e rilevante la compassione e la misericordia per ogni scelta di coscienza, coerente o no con le opzioni di principio che si possono sostenere e che questo atteggiamento potrebbe avere conseguenze nel campo del diritto e soprattutto nel rifiuto di ogni stigmatizzazione morale per scelte fatte in un campo così delicato. Ci riferiamo, in particolare, ai recenti casi di Fabo e di Loris Bertocco. Nella Repubblica ideale descritta da Tommaso Moro nella sua famosa “Utopia” si ragiona su come sia possibile uscire dalla situazione di un “malato inguaribile, con continue sofferenze, inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri, gravoso a sé stesso e che sopravvive alla propria morte”.
Auspichiamo, come molte volte in passato, che il rapporto tra cultura cattolica e cultura laica (per usare due generalizzazioni) si incontri in una comune corresponsabilità su queste tematiche e che una possibile pacificazione non si fermi dopo la possibile approvazione di una legge che non merita, per la sua importanza e la sua delicatezza, di essere coinvolta o travolta da fondamentalismi di ogni tipo. Accompagnamento del malato, senza accanimento e senza abbandono, con una vera comprensione della sua sofferenza, educazione degli operatori sanitari a una relazione non solo terapeutica, qualità dei servizi e loro diffusione sul territorio, diritti del malato e rispetto prioritario della sua coscienza, sempre. Perché non deve essere possibile una concordia che comprenda ed accetti?
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