GIOVANNI FRANZONI. UNA STORIA
E’ una gioia e un privilegio introdurre – a nome della Comunità cristiana di base di san Paolo – questo convegno che vuole ricordare Giovanni Franzoni scomparso il 13 luglio dell’anno scorso. Celebriamo ora il suo “dies natalis”, a ridosso dell’8 novembre, giorno in cui egli avrebbe compiuto novant’anni. Abbiamo scelto di fare memoria di lui a partire da questo monastero dove iniziò il suo e nostro percorso di ricerca comune. Percorso che, ormai da più di quarant’anni, continua nello spazio di via Ostiense 152b.
In quanto Abate della basilica di san Paolo fuori le mura, Franzoni partecipò alle due ultime sessioni del Vaticano II, nel 1964 e ’65: fu, dunque, a tutti gli effetti, un “padre” del Concilio. In quella sede egli non intervenne mai nelle sedute plenarie, ma soltanto nelle riunioni dell’episcopato italiano; racconterà, poi, che egli entrò in quella solenne assemblea come “conservatore” e, a poco a poco, cambiando opinione su molti temi “caldi”, si avvicinò ai “progressisti”. Non inventiamo noi, queste categorie che, prese con discrezione, allora erano usate dagli stessi padri conciliari.
“Padre” del Concilio, Giovanni volle diventarne “figlio”, e cioè impegnato a fare di quel magistero la stella polare del suo agire come monaco, come abate e come cristiano. Da questa scelta programmatica tutto, logicamente, discese. Fu un cammino coerente e, proprio per questo, cosparso di spine. Del resto, non fu facile per nessuna persona nella Chiesa cattolica romana fare propri i nuovi paradigmi ecclesiali dischiusi dal Vaticano II, e calarli nella propria realtà, personale e istituzionale, per meglio vivere l’Evangelo.
Giovanni si impegnò, dunque, nell’ecumenismo, promuovendo i “Colloqui paolini” dove studiosi cattolici ed evangelici approfondivano insieme il messaggio dell’apostolo delle genti; accogliendo con grande calore, nella basilica Ostiense, il patriarca di Costantinopoli Athenagoras e il patriarca di Alessandria e papa copto, Shenouda III.
Si impegnò nel campo liturgico, per dare attuazione a quella partecipazione del popolo di Dio alla celebrazione eucaristica, tanto raccomandata dal Concilio. Proprio questa decisione portò a conseguenze che, là per là, non furono forse previste. A livello locale, cioè nella concreta situazione del minuscolo territorio sul quale l’abate aveva autorità magisteriale, e nella parrocchia di san Paolo, “popolo di Dio” significava operai, operaie, casalinghe, impiegati e insegnanti uomini e donne, teologi, ragazzi e ragazze variamente impegnati in attività sociali. I diversi gruppi di giovani, sia quelli dell’Azione Cattolica che quelli appartenenti agli scout, cominciarono a incontrarsi e, con le loro riflessioni, aiutarono a incarnare il Vangelo nella realtà quotidiana, anche realizzando concreti episodi di solidarietà come, ad esempio, quello che vide la partenza di una di loro come “missionaria laica” per curare malati di lebbra in Ruanda.
Giovanni più e più volte invitò i suoi fedeli a partecipare, sabato sera, nella “sala rossa” del monastero, a riflettere con lui sulle letture bibliche della domenica seguente. L’avvio fu timido e lento ma, a poco a poco, un centinaio di persone si unì all’impresa. Quella fu per tutti e tutte una grande scuola: per la prima volta – almeno in quella zona di Roma – la gente comune prendeva la parola di fronte al suo pastore e, insieme con lui, iniziava a confrontarsi sulla Bibbia. E, da parte sua, l’Abate imparò a rendersi più consapevole dei problemi della gente. Dunque, collegare i messaggi delle Scritture con la vita delle persone e con i drammi del mondo, spostò l’asse di una predicazione ecclesiastica, prima, di solito, astratta e lontana.
Proprio per favorire la partecipazione alla liturgia, l’Abate sollecitò le persone presenti ad intervenire spontaneamente alla “preghiera dei fedeli”, durante la messa domenicale di mezzogiorno in basilica: all’inizio sembrava un momento di pie orazioni ma, quando si pregò perché strutture ecclesiastiche non collaborassero ad operazioni bancarie torbide, in Vaticano cominciarono a turbarsi.
Ancora, guardando al mondo del lavoro, Franzoni espresse piena solidarietà agli operai di una fabbrica della zona, licenziati. Accolse, a “pari merito”, chi votava per partiti legati alle gerarchie ecclesiastiche, e chi sosteneva quelli di sinistra.
Scoprì, poi, l’Abate, insieme ad alcuni dei suoi “parrocchiani”, anche il mondo del disagio mentale favorendo, in ciò aiutato da psichiatri già collaboratori di Basaglia, l’uscita e la cura di ragazzi prima in pratica rinchiusi a Santa Maria della Pietà, il manicomio di Roma, fino ad accogliere in casa sua uno di loro.
Pure la questione della guerra e della pace fece il suo ingresso nel monastero benedettino di san Paolo: l’abate Giovanni, e le persone più vicine a lui, affrontarono, anche alla luce della testimonianza di Gandhi, il problema della nonviolenza come metodo per sciogliere i nodi cruciali del mondo. Nel 1970 Franzoni scrisse al presidente Saragat, perché alla festa del 2 giugno non fossero più soldati in armi a sfilare, ma rappresentanti della società civile, E, l’anno dopo, quando scoppiò la guerra che avrebbe infine portato alla nascita del Bangladesh, Franzoni digiunò invocando pace. Coerentemente con questa ispirazione, Giovanni dette piena solidarietà agli obiettori di coscienza rinchiusi nel carcere militare di Gaeta e incoraggiò poi chi decise di partire per il servizio civile.
Alfiere della libertà di parola, anche nella Chiesa romana, Giovanni diede un apporto fondamentale alla nascita, nel 1972, di Com, che poi si unì al periodico evangelico Nuovi Tempi e, infine, si trasformò in Confronti, rivista da lui sostenuta e a cui collaborò fino alla fine per riflettere sul sempre nuovo intreccio fede-politica-vita quotidiana. L’anno dopo, era il 1973, Franzoni celebrò due matrimoni anticoncordatari, significativi di un impegno civile a cui resterà sempre fedele.
Nel giugno del 1973 l’abate Franzoni pubblicò la lettera pastorale “La terra è di Dio” nella quale denunciava, fra le altre, le responsabilità vaticane nella speculazione edilizia a Roma. La misura, secondo le autorità d’Oltretevere, già preoccupatissime per le preghiere “libere” in basilica, era colma. Giovanni, in luglio, accettò di dimettersi e lasciò il monastero: lo accompagnò una parte di quelle persone più convinte della bontà dell’impegno ecclesiale e sociopolitico da lui auspicato. Sorgeva in tal modo, formalmente, la Comunità cristiana di base di san Paolo, in germe già nata con le riflessioni pubbliche sulle Scritture e la partecipazione attiva alla celebrazione domenicale in basilica.
Iniziò così la nuova vita – in certo senso – di Giovanni. Questo cammino si intrecciò da subito con un evento politico di grande rilevanza in Italia: il referendum per la legge sul divorzio. Egli, pur sempre monaco benedettino, si batté per la libertà di coscienza e, siccome il Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana nel febbraio del 1974 aveva fortemente invitato a votare “SI” per l’abrogazione, egli due mesi dopo, con un piccolo ma denso libro, intervenne sostenendo il diritto alla libertà di coscienza, anche per i cattolici, in quel voto; e precisando che lui, il 12 maggio, avrebbe votato “NO” all’abrogazione di quella legge. Gli fu allora proibito, dalle autorità ecclesiastiche, di andare in giro a fare conferenze su quel tema; egli obbedì ma, ugualmente, fu sospeso a divinis. E quando, due anni dopo, annunciò che alle elezioni del giugno del 1976, avrebbe votato PCI, fu ridotto allo stato laicale.
Valutando, ad oltre quarant’anni di distanza, questi eventi, non si può evitare di porsi una domanda: “Con quelle sue scelte, Giovanni fu fedele al Concilio, o un interprete arbitrario dei suoi contenuti?” Per noi, che abbiamo accompagnato i suoi passi per oltre quarantacinque anni, la risposta è: fu fedele.
Intanto, anche – ma non solo – per la nuova situazione canonica in cui era stato posto Giovanni, nella Comunità di san Paolo si avviò una corale ed approfondita riflessione su un problema di straordinaria importanza: i ministeri ecclesiali. Con l’aiuto di illustri esegeti, approfondimmo il pensiero e la prassi di Gesù in proposito: scoprimmo che egli, per i suoi, non parla mai di “sacerdozio”, ma ipotizza “ministeri”, cioè servizi alla comunità, e ci spiega che solo l’amore per l’altro, tanto più se questi è uno degli ultimi della terra, è sacro. Su questa premessa cadono dunque antiche certezze e si delegittimano strutture di potere che caratterizzano le religioni e le chiese, a cominciare dalla Chiesa cattolica romana.
Questa comprensione portò con sé una nuova consapevolezza della questione “donna nella Chiesa”, prima solamente accennata nella nostra comunità. Infine, con la coscienza e comprensione evangelica via via acquisite nel nostro percorso di ricerca, le nostre celebrazioni andarono cambiando, fino ad arrivare ad una celebrazione corale, in cui nessuno occupa il posto di presidente dell’Assemblea e dove, tutti e tutte, insieme ripetiamo le parole pronunciate da Gesù nell’ultima cena e, indifferentemente, qualcuno o qualcuna di noi ripete il gesto di spezzare il pane. Nel nostro piccolo, “l’altra metà della Chiesa” aveva ritrovato il suo posto, il suo protagonismo e la sua dignità.
Giovanni, da parte sua, seppe interpretare in maniera condivisa il suo ruolo pastorale: nessun gesto magico nella nostra celebrazione, nessun riferimento al “sacro” come alibi per mantenere strutture gerarchiche e oppressive, ma solo l’affermazione di quell’amore emblematicamente, e più volte, ricordato nella parabola del buon samaritano.
La Comunità nel corso dei decenni, e sempre con l’apporto fecondo di Giovanni, è stata partecipe del movimento delle comunità cristiane che si è caratterizzato per i suoi connotati anti-autoritari e non-violenti. Le nostre prese di posizione laiche e anticoncordatarie hanno conosciuto momenti di mobilitazione e partecipazione a campagne di opinione sui temi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e contro le figure istituzionali dei cappellani militari nell’esercito.
Il ricordo di una figura emblematica come quella di Giordano Bruno e del suo martirio ha visto sempre Giovanni partecipe e consapevole.
Coerentemente, quando abbiamo celebrato i quarant’anni di vita della nostra Comunità, l’abbiamo definita come uno spazio di libertà e un cammino di ricerca; non quindi una struttura monolitica ma un mosaico di storie e di sensibilità personali capaci di convivere e interagire nelle loro diversità. Tutti, a turno, organizzati in diversi gruppi su base territoriale o tematica, propongono argomenti su cui incentrare la celebrazione eucaristica, letture, preghiere, non necessariamente mutuate dal calendario liturgico, Da questo materiale Giovanni sapeva attingere e animarlo con le sue interpretazioni “spiazzanti” del vivere la fede ma anche con le sue battaglie civili come quella in cui si schierò con le donne, con tutte le donne, a favore dell’autodeterminazione delle stesse e per la difesa della legge n°194 che regolamentava l’interruzione volontaria di gravidanza.
Tutti noi ricordiamo i suoi interventi domenicali, ricchi di dottrina e di vita quotidiana, capaci di spaziare fra suggestioni buddiste, sure coraniche o midrash della tradizione ebraica; così come la sua umana capacità di accogliere la signora Welby che si era vista rifiutare i funerali religiosi per il suo Piergiorgio e da lì prendere lo spunto per avviare una riflessione sul cosiddetto fine vita, o, meglio, sul diritto a “vivere la propria morte”.
Franzoni a tutti riconosceva diritti di cittadinanza: nella società civile e nella Chiesa. E noi con lui abbiamo faticosamente imparato le vie difficili della solidarietà: per popoli oppressi, per il Guatemala attraverso la fraternità pluridecennale con l’esperienza del “Mojoca” animato da Gerardo Lutte, per i profughi richiedenti asilo, per gli afgani, per i rom. Ciascuna di queste realtà ha trovato in comunità diritto di cittadinanza e ascolto ospitale: dalla scuola di italiano, alla mensa solidale de “La sosta”, pensata e voluta proprio da Giovanni. A queste si aggiungono altre occasioni di solidarietà che ci siamo sforzati, pur coi nostri limiti e contraddizioni, di coltivare nel corso degli anni. E non è certo un caso se gruppi o associazioni di omosessuali o LGBT, ogni tanto celebrino con noi l’assemblea domenicale sentendosi riconosciuti nelle loro identità.
Giovanni decise di unire la sua vita a quella di Yukiko: questo incontro con la cultura giapponese e le religioni orientali gli aprì scenari ignoti ad un occidentale e lo avvicinò ancora di più alle problematiche del pacifismo attraverso la riflessione di una società che aveva conosciuto la bomba atomica.
Continuò a spendersi per le cause ecclesiali, sociali e politiche che gli stavano a cuore. Sostenne la causa palestinese, visitando i campi profughi del Libano; ebbe (avemmo) incontri festosi e fraterni con vescovi dell’America latina legati alla teologia della liberazione, e partecipe solidarietà con l’azione e il martirio di monsignor Oscar Romero; con vari libri approfondì la questione femminile nella Chiesa e fu sensibile alle istanze della teologia e della prassi femminista; affrontò temi teologici tabù, come quello esaminato nel libro “Il diavolo, mio fratello”; si impegnò nella città, come esponente eletto in un municipio, per il bene-essere di Roma. Pur affaticato, per i malanni dell’età, egli non abbandonò nessuna battaglia. Ma, inevitabile, arrivò a poco a poco il tramonto fisico: la quasi cecità che, negli ultimi anni, lo afflisse, fu per lui un doloroso handicap. In merito, possiamo testimoniare che egli affrontò la malattia con pazienza e, anche, con una rara dose di humour. Anche del tumore che lo colpì – e che, e lo sapeva bene, avrebbe affrettato la sua fine – egli ragionava con ammirevole distacco.
Per quanto non inattesa, il 13 luglio 2017 ci giunse, come un fulmine, la notizia della sua morte improvvisa. Nella veglia funebre, in comunità, venne a pregare con noi pure l’abate di san Paolo. E il 15 luglio, quando la bara di Giovanni veniva portata nella sala polivalente del Centro “Parco Schuster”, nei giardini antistanti la basilica, ove si sarebbe celebrato il funerale – e ad esso fu presente anche umile gente del quartiere che aveva amato, oltre a persone cristiane non cattoliche, e musulmane – per disposizione di don Roberto le campane della basilica suonarono.
Per noi Giovanni Franzoni è stato un profeta che ci ha fatto capire cosa voglia dire essere “chiesa altra”: non dunque un’altra chiesa risultato di una divisione o di uno scisma, ma un modo radicalmente altro per cercare, pur consapevoli dei suoi e nostri limiti, di vivere la memoria e la testimonianza di Gesù. Giovanni si è battuto, anche nei suoi ultimi scritti su Confronti, contro le facili canonizzazioni e noi non gli faremo questo torto; possiamo solo testimoniare che per molti di noi è stato maestro di fede e di speranza, al di là e oltre le religioni. E’ dunque responsabilità nostra, e dell’intera comunità dei credenti, che la sua eredità non vada perduta. Egli ha onorato, in un tempo, ecclesiale e politico, diversissimo da quello di Benedetto da Norcia, l’antico mandato ora et labora.
Questo ha fatto Giovanni, ormai “cattolico marginale” (come lui amava definirsi), segnato da grande mitezza, passione ecclesiale e rigore laico. La sua memoria sia in benedizione.
Luigi Sandri Roma, 9 novembre 2018
Radio radicale ha registrato tutti gli interventi . Li puoi ascoltare digitando su:
https://www.radioradicale.it/scheda/556957
https://www.radioradicale.it/scheda/556958
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