Il cammino ecumenico tra protestanti e cattolici degli ultimi decenni è caratterizzato da due elementi, che appaiono particolarmente evidenti dall’osservatorio italiano, ma che hanno una portata più generale.
1.1. Da un lato, i contatti a livello di base si sono, se non moltiplicati, consolidati. Le nostre chiese, pur non senza difficoltà, perplessità e a tratti resistenze, hanno inserito l’ecumenismo tra le loro priorità, investendovi passione ed energie. Per quanto riguarda il cattolicesimo italiano, il confronto con i protestanti non costituisce in generale una priorità, per evidenti ragioni sociologiche. Quotidianamente, tuttavia, constatiamo per tale tema un interesse non superficiale. La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è per molte diocesi cattoliche un momento di informazione e di confronto non formale; la collaborazione nella Società biblica è da tempo consolidata e feconda; pastori e membri di chiesa evangelici sono spesso invitati da parrocchie cattoliche per incontri di preghiera e formazione comune; il Segretariato per le attività ecumeniche continua la propria opera con efficacia; nel suo ambito è anche maturata l’iniziativa giovanile denominata “Osare la pace per fede”, che ha già prodotto due incontri nazionali che hanno molto arricchito i partecipanti. Tutto questo, e molto altro ancora, rappresenta un dono di Dio che le nostre chiese hanno il compito e la volontà di custodire e far fruttificare, anche nella situazione attuale, caratterizzata da un senso di stanchezza, quando non di ripiegamento.
1.2. Dall’altro lato, la chiesa romana si esprime frequentemente, mediante i suoi organismi ufficiali, in termini che vengono percepiti dagli evangelici come poco costruttivi per il confronto. Vanno menzionati, in particolare, due ambiti.
1.2.1. Sul piano ecclesiologico, Roma ribadisce con insistenza il suo rifiuto di riconoscere quelle protestanti come chiese cristiane “in senso proprio”. Gli evangelici sono consapevoli che proprio tale insistenza costituisce una reazione a quella che Roma sa essere l’opinione, del tutto diversa, di molti suoi membri di chiesa. La pretesa della gerarchia romana di giudicare l’ecclesialità altrui, tuttavia, costituisce un problema che, al momento, appare difficile da affrontare. Tale pretesa, infatti, non esprime una semplice differenza tra chiese diverse. E’ perfettamente possibile, infatti, vivere la comunione tra chiese significativamente diverse sul piano teologico e organizzativo, e il protestantesimo è un esempio di tale possibilità. Quella che divide Roma dalle chiese evangeliche è invece una asimmetria nel modo di comprendersi. Mentre le chiese evangeliche si comprendono come espressioni, accanto ad altre, della chiesa una, santa, cattolica e apostolica, Roma identifica soltanto se stessa con la chiesa di Gesù Cristo. Il Concilio Vaticano II, pare ad alcuni, aveva aperto spiragli importanti su questo punto, ma il magistero vaticano successivo ha provveduto a chiuderli, sconfessando quanti, all’interno della stessa chiesa cattolica, sostengono opinioni diverse. Ciò provoca, all’interno di quella chiesa, la profonda sofferenza di molti, ai quali battisti, metodisti e valdesi esprimono la loro solidarietà e la certezza di una comunione che, al di là delle sentenze magisteriali, si sa voluta e creata dallo Spirito di Dio. Al tempo stesso, non possiamo non vedere che l’idea di ecumenismo proposta dal magistero romano continua a essere imperniata sulla concezione cattolica del ministero episcopale e sulla rivendicazione di quello che è chiamato “primato petrino” e che è invece, semplicemente, il primato papale. Su questi due punti, gli evangelici possono solo ribadire che:
a) il Nuovo Testamento e la tradizione bimillenaria della chiesa conoscono diverse forme di esercizio del ministero episcopale, nessuna delle quali può pretendere validità esclusiva;
b) il papato è un ministero interno al cattolicesimo romano, dunque confessionale, non ecumenico.
La discussione sulle forme che esso dovrebbe assumere per svolgere una funzione ecumenica è del tutto prematura e per tale motivo fuorviante. A parte il fatto che l’obiezione evangelica non riguarda le forme di esercizio di tale ministero, bensì la sua essenza, va rilevato che le forme innovative e collegiali di esercizio del ministero papale sono state evocate più volte, ma mai attuate, in alcuna forma.
Non sappiamo quali saranno le direttrici del dibattito ecumenico nel futuro prossimo. Nella misura però in cui il modello di unità che si persegue continuerà a essere imperniato in forma esclusiva intorno al nucleo della visione cattolico-romana della chiesa, il nostro compito sarà di rendere attenti al fatto che tale progetto rischia di condurre l’intero movimento ecumenico in una situazione di stallo dalla quale non sarebbe facile uscire.
Per parte nostra, riteniamo che il movimento ecumenico che fa capo al Consiglio ecumenico delle Chiese abbia elaborato, dal 1948 a oggi, due nozioni fondamentali che ci paiono poter costituire, insieme, la stella polare del cammino comune delle chiese. La prima è la nozione di “comunione conciliare”, secondo la quale “la chiesa una dev’essere vista come comunione conciliare di chiese locali, che sono esse stesse realmente unite” (Dichiarazione di Salamanca, 1973). La seconda nozione è quella di “diversità riconciliata”, secondo la quale l’unità cristiana è tra chiese diverse e la riconciliazione della diversità non comporta il loro appiattimento. Nella futura comunione conciliare occorrerà quindi che le diverse chiese e confessioni siano presenti nella loro robusta individualità storica e spirituale, liberata però da settarismi, faziosità e parzialità.
1.2.2. Nel nostro paese, inoltre, assistiamo assai spesso a prese di posizione, soprattutto della Conferenza episcopale italiana, che vorrebbero orientare in modo marcato il dibattito politico, in particolare su questioni etiche oggi molto dibattute. Le nostre chiese non intendono contestare ai vescovi italiani, né ad alcun altro, il diritto di interloquire nel dibattito pubblico, nelle forme che agli interessati paiono opportune, fatti salvi i limiti stabiliti dalla legge. Dal punto di vista ecumenico, riteniamo di dover formulare alcuni rilievi. Gli interventi dell’episcopato cattolico evidenziano la tendenza a proporre come normativa sul piano legislativo la propria posizione confessionale, argomentando che essa corrisponderebbe a una “legge di natura”. Tale atteggiamento sottovaluta:
a) il carattere pluralista della società italiana;
b) il fatto che, sul tema della “legge di natura” non sussiste un consenso neppure tra le chiese, le quali nella loro ricerca di obbedienza all’evangelo presentano una pluralità di posizioni etiche.
Quella che alcuni considerano l’intransigenza delle gerarchie cattoliche ha prodotto negli ultimi decenni una polarizzazione assai perniciosa nell’opinione pubblica del paese. Più volte questioni etico-politiche di enorme rilevanza sono state ridotte ad alternative troppo schematiche. Le nostre chiese ritengono che la testimonianza delle esigenze etiche dell’evangelo nella società richieda ai cristiani:
a) un confronto aperto e serrato sulla base della Scrittura e delle domande poste dalla realtà che cambia;
b) un atteggiamento di ascolto e di dialogo nei confronti di chi professa altre visioni della realtà;
c) la capacità di promuovere, in sede di elaborazione legislativa, compromessi qualificati. Non, cioè, basati sui puri equilibri di potere, bensì sulla capacità di integrare istanze diverse e, per non pochi aspetti, opposte, nella consapevolezza della diversità tra le visioni del mondo che convivono nella nostra cultura.
E’ in questo spirito che le nostre chiese cercano di affrontare questioni complesse e controverse come quelle riguardanti l’inizio e la fine della vita, l’ingegneria genetica, le questioni di genere e di orientamento sessuale, le problematiche ambientali, e i vari aspetti della globalizzazione.
Rileviamo infine, con dispiacere, una certa reticenza della chiesa romana a proposito del dibattito in corso in vista di una legge, attualmente in discussione in Parlamento, sulla libertà religiosa. Le nostre chiese hanno sottoscritto da tempo intese con lo Stato italiano e ne sono soddisfatte. Il loro interesse per una legge sulla libertà religiosa non riguarda in primo luogo la difesa dei loro diritti, bensì l’esigenza, di un’effettiva neutralità religiosa dello Stato e della tutela dei diritti di tutti: anche di comunità religiose che non hanno nulla a che vedere con noi e che non hanno ancora potuto, per diversi motivi, giungere a intese. La libertà è indivisibile e dove quella di alcuni è conculcata o limitata, è la collettività intera a risentirne.
2. La polarizzazione ideologica che abbiamo menzionato ha contribuito a scatenare nel paese, insieme ad altri effetti nefasti, una controffensiva anticlericale che manifesta una marcata tendenza a diventare anticristiana e che riprende contenuti e toni che si ritenevano da tempo superati. Non ci riferiamo a quanti si battono per una radicale laicità dello stato: questa è sempre stata anche la nostra battaglia. Riteniamo però che essa non abbia nulla a che vedere con un tipo di ateismo che, oltre a banalizzare la fede altrui, rischia anche di squalificare l’atteggiamento di chi, alla grande domanda su Dio, dà risposte diverse da quelle dei credenti.
2.1. Diversi libri recenti, tradotti o di autori italiani, e numerosissimi articoli nelle pagine culturali dei grandi giornali, ripropongono in modo assai rozzo la contrapposizione tra credere e pensare. Chi pensa, si dice, non ha bisogno di credere e viceversa. Ad alcune parole-chiave – come rivelazione, dogma, miracolo, ispirazione – vengono attribuiti significati che prescindono in modo totale dall’uso effettivo che di tali termini viene fatto all’interno del cristianesimo. Alcuni risultati dell’esegesi biblica, assodati da secoli, vengono presentati come novità finora deliberatamente censurate, perché demolirebbero le basi stesse della fede cristiana. Si sostiene che la chiesa cristiana non avrebbe fatto i conti con esiti fondamentali delle scienze empiriche, da quelle astrofisiche a quelle biologiche. Il dato più sconcertante è costituito dall’ignoranza che tale pubblicistica manifesta. Nessuno potrebbe oggi decentemente parlare in pubblico di sociologia o di fisica senza conoscere i rudimenti di tali discipline. Si ritiene invece di poter interloquire in materia religiosa non solo in assenza di qualunque competenza specifica, ma anche di un’informazione minimale, che la scuola italiana, in effetti, non garantisce. Particolarmente impressionante è, in tale quadro, il fraintendimento grossolano della nozione di “fede”, presentata come adesione immotivata a contenuti arbitrari e anche assurdi. Credere, cioè, significherebbe sostenere quanto non si è in grado di sapere. Il fatto che ciò non corrisponda affatto alla fenomenologia dell’esperienza credente è considerato del tutto irrilevante: più precisamente è, anch’esso, ignorato. La critica che ne esce non raggiunge, nella quasi totalità dei casi, la dignità del pensiero critico e rimane sul piano del dileggio.
2.2. Parallelamente, si assiste anche alla ripresa di un tipo di argomentazione che squalifica le religioni in quanto ideologie violente e fomentatrici di intolleranza. Il problema esiste e assumerlo con rigore è oggi essenziale per una visione non ideologica e non apologetica della storia del cristianesimo. Che il problema sia noto non significa che sia stato risolto; e nemmeno intendiamo minimizzarlo mediante la semplice constatazione che violenza e intolleranza non sono caratteristiche delle religioni soltanto, bensì della condizione umana, oppure ricordando solo i contributi, pure innegabili, che momenti della storia del cristianesimo hanno dato allo sviluppo delle libertà e all’affermazione dei diritti umani. Sappiamo che quelle religiose, come tutte le grandi forze spirituali dell’umanità, celano nel loro intimo un’ambiguità profonda e anche pericolosa, che va conosciuta e contrastata, combattendo ogni forma di integralismo e di intolleranza, anche e specialmente al proprio interno. Gli sforzi in questa direzione, sul piano teologico, pastorale e del confronto interculturale sono intensi e non sterili. Sappiamo che il cammino sarà lungo. Che però chi proviene dal XX secolo possa identificare semplicisticamente violenza e intolleranza con il retaggio religioso in quanto tale, senza riflettere su quanto la storia ha mostrato in termini tragici e inequivocabili, non è segno di sensibilità culturale.
In questo quadro, le nostre chiese desiderano rendere la loro testimonianza. Il Dio ipotetico al quale l’essere umano può giungere con i suoi calcoli e i suoi ragionamenti, le sue emozioni o le sue impressioni, i suoi desideri o le sue paure, i suoi entusiasmi o le sue frustrazioni, non è il Dio della fede, il quale non chiede di essere dimostrato, ma testimoniato. Le nostre chiese sanno bene che la fede non è figlia della ragione, né della volontà, né del sentimento, ma di una parola che, come accadde ad Abramo, chiama ad “uscire” dal guscio del nostro io verso l’altro, e verso un altrove che Dio indicherà. Esse sanno anche che la loro vita rispecchia in modo debole e inadeguato la loro fede e sanno quindi di essere testimoni manchevoli del Dio che confessano. Esse sono consapevoli dei peccati gravi e ripetuti, di ieri e di oggi, che hanno accompagnato e accompagnano il cammino delle chiese nella storia. Esse prendono sul serio il giudizio del mondo su di loro, cercandoci i segni del giudizio di Dio stesso. Ciò nondimeno, la Parola che le ha chiamate alla vita e alla vita nuova è più forte della “poca fede” che Gesù trova abitualmente nei suoi discepoli di allora e di oggi. Lo Spirito, però, non si stanca di trasformare questa poca fede in un’incrollabile fiducia in Dio come colui che “ama nella libertà”. Perciò le nostre chiese, pur coscienti delle mille obiezioni e contraddizioni nelle quali si situa la loro testimonianza, non taceranno il suo Nome in mezzo alla nostra generazione.
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