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A che punto siamo sulla pedofilia del clero? I vescovi italiani sono a una prova decisiva nella loro assemblea di lunedì 20 maggio
Dopo l’incontro di febbraio in Vaticano dei Presidenti di tutte le Conferenze episcopali il problema della pedofilia del clero è rimasto più che mai aperto. Papa Francesco è intervenuto ora con un suo Motu Proprioma interventi concreti sembrano essere affidati alle Conferenze episcopali nazionali. Ci sono però molti elementi per capire cosa stia avvenendo almeno per quanto riguarda il nostro paese.
La discussione tra i vescovi
In premessa bisogna sapere che siamo ora a conoscenza di quanto veramente discusso dai vescovi in febbraio. Ne fa un resoconto un libro curato da p. Federico Lombardi, “Consapevolezza e purificazione”, per la Libreria Editrice Vaticana. Vi si leggono affermazioni impegnative, per certi versi sorprendenti per la loro provenienza. Vi si parla con forza di “rompere e superare la cultura del silenzio”, di sviluppare “una positiva cultura della denuncia”, vi si parla di clericalismo per le“connessioni fra gli abusi di potere, di coscienza e sessuali”.“Le ferite profonde nelle vittime sono causate non solo dagli abusi ma anche in gran parte dall’esperienza del rifiuto di essere ascoltate”; esse dovrebbero avere un maggiore ruolo nel corso dei processi canonici. Si è parlato della maggiore partecipazione dei laici e delle donne su tutte le questioni inerenti la pedofilia, della formazione nei seminari, dei rapporti tra diocesi ed ordini religiosi, della necessità di norme vincolanti. Infine si è posto con forza il problema dell’abolizione del segreto pontificio in queste procedure. La conoscenza di queste discussioni mette in luce che c’è un’area vasta dei vertici ecclesiastici a livello internazionale che ha le idee chiare e ciò dovrebbe fare bene sperare.
I decreti di papa Francesco per la Curia romana e la Città del Vaticano
Il sostanziale rinvio alla periferia del problema è stato rotto, un po’ a sorpresa , il 26 marzo dal Papa che ha firmato tre documenti: una legge, delle “Linee Guida” ed una Lettera Apostolica, tutti “sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili”. Sono documenti che hanno vigore solo per gli abitanti del Vaticano, gli uffici della Curia romana e le nunziature. Essi dicono, nella loro diversa articolazione, cose importanti ed impegnative. La figura della vittima è centrale, deve essere ascoltata, accolta e accompagnata. È previsto per esse “un adeguato supporto spirituale, medico, psicologico e legale”. Idem per i suoi famigliari. Inoltre è istituito un referente a cui rivolgersi e c’è l’obbligo della denuncia (“salvo il sigillo sacramentale”) al Promotore di Giustizia (cioè al pubblico ministero), il reato è perseguibile d’ufficio. La prescrizione interviene dopo vent’anni (a partire dalla maggiore età della vittima), il condannato deve essere rimosso dai suoi incarichi. Le Linee Guidadescrivono le persone coinvolte (canonici, parroci, cappellani, religiosi e chi abita in Vaticano), le caratteristiche e i compiti del vari soggetti attivi (Referente ed operatori pastorali) ed il rapporto coi genitori dei minori (è previsto un rigido consenso informato). L’elenco delle prescrizioni pastorali per i comportamenti (compresi i divieti) per chi si occupa dei minori è molto analitico, impegnativo e fin troppo esigente. Ugualmente sono molto esplicite le indicazioni per le segnalazioni dei presunti casi di abuso o maltrattamento.
Questi decreti sono un messaggio per i vescovi
Questi documenti del Vaticano hanno suscitato una certa sorpresa, da una parte per la loro severità (del tutto al di fuori di quanto praticato usualmente nelle tantissime strutture giovanili che fanno capo alla Chiesa), dall’altra soprattutto perché riguardano un’area di persone interessate del tutto esigua, quasi inesistente (Quanti sono i bambini nella Città del Vaticano?, è stata l’ovvia domanda che tutti si sono posti). L’unica interpretazione che ci sembra possibile di questi tre documenti, così fuori dal ritmo ordinario delle competenze curiali, è il messaggio che essi hanno voluto lanciare a tutti gli episcopati. Come potranno essi assumere posizioni più arretrate di quelle del Papa? D’altronde il summitdi febbraio, a quanto si capisce, ha lasciato dei segni nei prelati soprattutto per quanto riguarda le testimonianze delle vittime e i tre interventi femminili inusuali e di insolita efficacia. Forse qualcosa si potrebbe muovere nella giusta direzione.
IlMotu Proprio“Vos estis lux mundi”
Dopo questo intervento, il 7 maggio papa Francesco ha emanato finalmente le norme che si aspettavano e che hanno ora vigore per tutta la Chiesa universale. Dovranno essere bene studiate, anche per capire come potranno essere interpretate ed usate concretamente dalle Conferenze episcopali. Ad un primo esame sono evidenti passaggi importanti nella direzione del superamento della situazione attuale. I reati considerati non sono solo quelli nei confronti dei minori o di “persona vulnerabile” (è una figura nuova), ma anche quelli consistenti nel “costringere qualcuno, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, a compiere o subire atti sessuali”. Come non ipotizzare in questa fattispecie la violenza nei confronti delle suore da parte di presbiteri se il concetto di abuso lo si vuole interpretare nel senso giusto? Si potrebbe così intervenire concretamente in situazioni che sono da lungo tempo state denunciate. L’altro reato previsto è quello commesso da “chierici” mediante “azioni od omissioni dirette a interferire o ad eludere le indagini” di qualsiasi tipo. Si interviene sui comportamenti di “copertura”, che sono stati quasi la regola fino ad ora nel sistema clericale. Poi il Motu Proprioobbliga tutte le strutture periferiche (le diocesi) a “stabilire, entro un anno, uno o più sistemi stabili e facilmente accessibili al pubblico a cui presentare segnalazioni, anche attraverso l’istituzione di un apposito ufficio ecclesiastico”. Successivamente si prescrive l’obbligo da parte di ogni “chierico” di segnalare al vescovo notizia documentata sui possibili reati sopra descritti (che possono essere perseguiti anche d’ufficio). Questo è un punto molto importante. La segnalazione può avvenire anche da parte di terzi. Il denunciante è tutelato, la sua iniziativa non costituisce una violazione del segreto d’ufficio, non può dare luogo a ritorsioni e non c’è alcun vincolo di silenzio riguardo al contenuto di essa.
Il sistema si modifica solo se intervengono soggetti esterni alla struttura clericale
Forse per la prima volta si dice qualcosa di importante sulle vittime nelMotu Proprio. Le autorità devono offrire ad esse “accoglienza, ascolto e accompagnamento, anche tramite specifici servizi: assistenza spirituale, assistenza medica, terapeutica e psicologica, a seconda del caso specifico”. Ma nulla si dice su possibili indennizzi di tipo economico e sappiamo che questa è una questione importante. Infine il documento prescrive la possibilità di intervenire nei confronti dei vescovi, mediante un complicato sistema di competenze distribuite tra il vescovo metropolita e la curia romana. In tutto il meccanismo può “essere offerta la cooperazione da parte dei laici”. Quanto ai rapporti con l’autorità civile, si dice: “Le presenti norme si applicano senza pregiudizio dei diritti e degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, particolarmente quelli riguardanti eventuali obblighi di segnalazione alle autorità civili competenti”. In linea generale ci sono, senza alcun dubbio, dei passi in avanti importanti se saranno accolti e non accantonati dalle Conferenze episcopali che, dopo l’incontro di febbraio, dovrebbero farsi carico seriamente di una rigenerazione della Chiesa su questa questione. Essi non vanno però, in modo univoco, nella direzione che abbiamo ipotizzato e proposto da tempo. Il fenomeno della pedofilia ci è apparso così radicato e accettato nei fatti anche dalle tante aree sane dell’universo cattolico che ci siamo convinti che per la sua modifica possa essere efficace solo un intervento esterno al sistema clericale, che provenga o dai media e dalla magistratura oppure da soggetti interni alla Chiesa che siano credibili. Quindi l’affidare a “sistemi stabili” nominati a discrezione dal vescovo la raccolta delle segnalazioni, il non stabilire nei vari iter previsti una presenza generalizzata e con autorità decisionale delle vittime, di laici indipendenti e, soprattutto, di donne rende questo testo debole in partenza. Infine non viene risolto il problema del tutto centrale del rapporto con l’autorità civile che viene lasciato alle diverse situazioni locali.
La situazione in Italia
Chi ha seguito la situazione in Italia negli anni conosce bene le caratteristiche dell’approccio al problema della pedofilia nel nostro Paese da parte dei vescovi. “Noi Siamo Chiesa” è intervenuta in modo costante e documentato negli ultimi dieci anni. In sintesi si può dire che, mentre molti casi di pedofilia del clero venivano a galla con processi ed eco sui media, i vescovi hanno sempre sostenuto, e non troppo sottovoce, che in Italia le cose erano diverse dagli altri paesi, non hanno raccolto informazioni esatte sul fenomeno (tuttora non ci sono), non hanno predisposto alcun intervento a livello centrale o diocesano, si sono arroccati nella difesa delle procedure interne al sistema ecclesiastico, in particolare ricordando che le norme concordatarie e civili non obbligano il vescovo alla denuncia alla magistratura. Niente di niente è stato fatto nella direzione dell’attenzione alle vittime, non ascoltate e lasciate sole davanti alla decisione su una denuncia alle autorità civili, che spesso veniva scoraggiata. Infatti la prassi è stata quella di chiedere alle vittime di non denunciare pubblicamente i fatti a “tutela” del buon nome della Chiesa. Il sistema più comune è stato quello del trasferimento del prete accusato da una parrocchia ad un’altra (nel migliore dei casi di isolarlo in qualche struttura protetta) e di non avere il pudore di rinunciare alla prescrizione nel caso essa fosse intervenuta nei processi davanti alla magistratura civile. Nessun referente esterno e indipendente per l’ascolto delle vittime è stato a oggi istituito (salvo che nella diocesi di Bolzano). In sostanza tutto il contrario di quanto altri episcopati hanno cercato di fare, in qualche caso anche non pubbliche e solenni celebrazioni penitenziali.
Il nuovo “Servizio nazionale per la tutela dei minori”
Le Linee Guida del 2012 (corrette nel 2014, su intervento del Vaticano) sono state l’espressione di questa linea. Ma questa passiva ordinaria amministrazione nella gestione della questione non ha potuto continuare per l’irrompere degli scandali sui media internazionali (in particolare in Cile e in Pennsylvania), per altri casi emersi in Italia, ma soprattutto per la “Lettera al Popolo di Dio” del 20 agosto 2018 di papa Francesco e per altri interventi del Vaticano, che considera la situazione italiana del tutto arretrata rispetto al generale tentativo di organizzare seriamente la “tolleranza zero”. Il Consiglio Episcopale permanente di settembre e gennaio e anche l’assemblea generale dei vescovi di novembre hanno deciso di istituire un “Servizio nazionale per la tutela dei minori”. Esso prevede una struttura di 16 referenti vescovi, uno per ogni regione ecclesiastica a cui fanno capo referenti diocesani nominati dal vescovo che si giovano di esperti ed operatori pastorali. Questa macchina burocratica si è già messa in movimento, i referenti regionali si sono riuniti, esiste un Regolamento nazionale, il Presidente del Servizio è Mons. Ghizzoni, vescovo di Ravenna, esiste un Consiglio di Presidenza (7 preti, cinque donne, due laici), è prevista una Consulta nazionale, che non è ancora stata costituita. Gli scopi del Servizio sono quelli di impegnarsi nella prevenzione e nella formazione. I tempi dell’efficacia di questo intervento sono inevitabilmente molto lunghi. Una logica organizzativo-burocratico-gerarchica sembra essere inevitabile.
Vescovi e Motu Proprio
Questo percorso ha portato alla redazione di una bozza riservata di modifica delle Linee Guida del 2014 che sarà sottoposta ai vescovi nell’assemblea generale del 20 maggio. Essa dovrà tenere conto dei reati come definiti nel Motu Proprio, dell’obbligo di denuncia, dell’istituzione di “servizi stabili” per ricevere le segnalazioni (saranno, secondo logica, gli uffici o referenti diocesani previsti dal Servizio nazionale che si stanno istituendo). Quanto sia insufficiente la normativa del Motu Proprio(a cui sarà facile accondiscendere da parte delle nostre diocesi), lo testimonia la struttura diocesana della più importante diocesi italiana, quella di Milano, che è già stata costituita. Essa è composta da ben dieci preti, due donne e da un avvocato di fiducia della Curia. Ci chiediamo se sia credibile la composizione di questo ufficio. Essa è stata nominata dall’arcivescovo, che, tra l’altro, è ben noto essere stato coinvolto personalmente in una questione di copertura.
L’altra questione, forse la più importante, che pone meritoriamente il Motu Proprio, è quella delle vittime. Potranno i nostri vescovi continuare, come in passato, ad ignorarle? Potranno escluderle dall’ascolto e dall’assistenza? Come ci si potrà continuare ad occuparsi del problema solo all’interno degli uffici delle curie? Chiediamo che la composizione dei nuovi uffici sia composta in modo paritetico da uomini e donne, che ci sia una rappresentanza delle vittime e che abbiano il segno della loro indipendenza dal vescovo.
La questione della denuncia all’autorità civile
L’altra questione aperta per i vescovi italiani è il possibile superamento dell’assenza dell’obbligo di denuncia alla magistratura del prete pedofilo. Il Motu proprionon dà indicazioni, lascia libere le Conferenze episcopali. Forse è una prudenza determinata dalle enormi differenze esistenti nel mondo nei rapporti tra Chiesa ed autorità civili. Detto questo, il problema si pone invece nel nostro paese in modo non rinviabile. Su questa questione, rispetto alla quale ci sono ancora tante resistenze, si gioca la prossima assemblea dei vescovi del 20 maggio. Modifiche alle Linee Guida del 2014 pare siano state apportate nella bozza in circolazione. Il Card. Bassetti ha ripetuto in sede pubblica (“Avvenire” del 1omarzo) che “La Chiesa italiana assicura la massima collaborazione alla giustizia ordinaria” e mons. Russo, segretario della CEI, che la Chiesa “collabora con l’autorità civile fino in fondo” (intervista a “Radio anch’io”). In attesa di sapere cosa significhino in concreto queste dichiarazioni e se i vescovi sulla questione continueranno a prendere tempo o se, come chiediamo da tempo, riusciranno a rompere con un passato opaco e di comodo, ci permettiamo di esporre ancora una volta il nostro dissenso su come è stato affrontato tutto il problema.
Fare il secondo passo senza avere fatto il primo è un grave errore
Si decide di fare il secondo passo senza avere fatto il primo e così il secondo, pure necessario, quello della prevenzione e della formazione, perde credibilità, perché ha tempi lunghi e perché può essere visto come tentativo di eludere ciò che costa di più e che non può essere rinviato, essendo il ritardo nell’intervento già del tutto eccessivo. Abbiamo incalzato da molto tempo il sistema ecclesiastico, con la nostra voce dal basso poco ascoltata, suquello che deve essere il primo passaggio. Lo riassumiamo e ripetiamo: esso consiste nel prendere atto della gravità della situazione anche in Italia, nell’esprimere un pentimento collettivo organizzando atti penitenziali per il peccato del prete pedofilo e per la prassi diffusa di proteggerlo, nell’istituire una struttura di indagine per il passato e di monitoraggio per l’oggi (come fatto da altri episcopati), nel modificare le Linee Guida senza esitazioni e senza retropensieri prevedendo l’obbligo di denuncia alla magistratura del prete pedofilo e le rinuncia alla prescrizione nei processi, nell’istituire in ogni diocesi un’autorità veramente indipendente dal vescovo che accolga e ascolti le vittime, e che offra loro accompagnamento sotto i diversi aspetti necessari ed opportuni.
Si deciderà un nuovo corso nell’assemblea dei vescovi del 20 maggio? Se così non sarà, si rischia un di più di opacità, di gestione ancora (come ora) tutta interna al corpo ecclesiale che, senza la chiarezza di una confessione di colpa e di un immediato diverso percorso, farebbe male alla testimonianza dell’Evangelo. Esplosioni periodiche del problema sui media da una parte, insieme a silenzi e insabbiamenti dall’altra, accrescerebbero nella vasta opinione pubblica diffidenza verso la Chiesa proprio nel momento in cui invece opera, su un altro versante del tutto diverso, in modo meritorio con tante realtà di base, ONG, ordini religiosi e parrocchie che in questi mesi cercano di fare argine alle nuove leggi e alle prassi che respingono gli “ultimi” nel mare o che li allontanano dai centri di accoglienza.
Roma, 18maggio 2019 NOI SIAMO CHIESA
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